Lilla Consoni
Bianca come la neve, rossa come il sangue
Da Miopia n.31, marzo 1998, numero monotematico IL DIO, LA DEA
I miei primi ricordi relativi alla fiaba di Biancaneve sono legati ad un 45 giri di plastica rossa, che una famosa ditta produttrice di formaggini dava in omaggio agli acquirenti. Quando, nella stanza in penombra, si levava dal disco l’urlo soddisfatto della Matrigna, “la mela era avvelenata”, accompagnato dal terrificante cachinno “ah ah, ah!” io mi rintanavo nell’angolo più remoto, debitamente impaurita.
In questa storia, oggi come ieri, “l’effetto-patriarcato” è completo e perfetto: la Strega/Matrigna risalta in tutta la sua cattiveria, le brave bambine la detestano e la temono, il Principe viene salutato come eroe e liberatore. Amen.
Eppure “Biancaneve” ha in sé un vero tesoro di cultura matriarcale, che aspetta solo di essere scoperto e portato alla luce. Cominciamo con i colori. La Regina/Madre, che sta cucendo dietro una finestra cogli stipiti di ebano (quindi scuri, quasi neri), si punge con l’ago; alcune gocce del suo sangue cadono sulla neve (benché la storia non lo dica, la finestra è evidentemente aperta). Come abbiamo già avuto modo di vedere in altri articoli apparsi su Miopia negli ultimi anni, il nero, il rosso e il bianco sono i colori della Grande Dea: la fiaba si apre, quindi, con un vero e proprio biglietto da visita della Signora! La Regina si augura una figlia bianca come la neve, rossa come il sangue, e con i capelli scuri come l’ebano. La Figlia nasce, e la Madre scompare; meccanismo, questo, tipico di molte fiabe: la madre carnale muore, e arriva una matrigna, oppure la figlia viene a contatto con una vecchia protettrice. Che cosa significa? Significa che la ragazza viene affidata dalla madre fisica a una madre spirituale, che, tante volte, è la Dea in persona. Questo processo si ripete pari pari nella storia di Biancaneve, la fanciulla nero/rosso/bianca che ha già in sè tracce divine, che è in parte Dea, come Core, figlia di Demetra, è un aspetto della Triplice Divinità.
Esistono delle bellissime narrazioni celtiche, come ad esempio quella di “Peredur”, in cui si parla di una “Vergine divina” bianca, rossa e nera; Peredur, l’eroe, vede sulla neve candida le nere piume di un corvo e le rosse gocce di sangue di questo uccello (un altro noto simbolo della Dea), e cade in una sorta di trance meditativa. Abbandoniamo Peredur al suo destino, e torniamo alla matrigna, la quale manda Biancaneve nel bosco, a morire, secondo la versione patriarcale, a compiere un cammino d’iniziazione secondo quella matriarcale. I Grimm ci tramandano che la Strega, a riprova dell’uccisione di Biancaneve, vuole i polmoni e il fegato di lei, per mangiarli cotti nel sale. Il “mangiare i bambini”, si sa, è una delle accuse ricorrenti per screditare il nemico: anche i comunisti avevano siffatte cannibalesche abitudini, o almeno così ci raccontavano i preti durante la guerra fredda. In ogni caso, i polmoni, organo della respirazione, sono simbolo di vita, di aria nuova che s’incamera; il fegato viene indicato come “sede” della rabbia e del coraggio. La Matrigna, quindi, sta insegnando a Biancaneve a respirare un’altra aria, ad essere coraggiosa e a dar sfogo, se è il caso, all’indignazione, invece di fare la vittima e l’angioletto. La invia nel bosco, cioè nell’inconscio, nella parte più intima e più vicina all’Energia Vitale, e la segue da lontano attraverso lo specchio (su quest’oggetto torneremo in seguito), senza soffocarla con attenzioni superflue. Nel fitto del bosco l’incontro con i nani, punto dolens per tutte le femministe che conosco. Anch’io, in passato, mi sono sentita ribollire internamente di fronte a questa Biancaneve che finisce per fare la schiavetta dei nani, che è come fossero i suoi mariti o i suoi figli (il che è praticamente lo stesso). Ma oggi vedo le cose diversamente. La Matrigna/Dea vuole che Biancaneve trovi la casetta dei nani, e che si fermi a fare esperienza da loro. Gnomi e nani, nelle fiabe, simboleggiano le forze e le risorse che si nascondono in ognuna/o di noi; il loro lavoro di estrazione di pietre preziose è metafora di un lento e faticoso operare per trarre in superficie una ricchezza interiore misconosciuta, trascurata o dimenticata. Questi piccoli esseri che si calano nelle viscere della terra sono in contatto con la Grande Madre, ne conoscono le vie segrete e sotterranee. La permanenza di Biancaneve presso i nani, alla luce di quanto detto, s’inserisce perciò nel già citato cammino d’iniziazione. Gli ometti (cioè i suoi aspetti profondi di saggezza, i suoi poteri di donna) le portano ogni sera i tesori della Dea Madre, dopo che lei, di giorno, si è dedicata al cucinare, al cucire, al riordinare. Attività che hanno a che fare con la “cultura” nel senso antropologico del termine. Le donne, con le loro doti, con la loro intelligenza, con la loro capacità di “prendersi cura” e di “organizzare”, hanno dato origine alle prime comunità umane e hanno reso possibile il passaggio dal nomadismo alla vita sedentaria (che richiede, com’è evidente, un’enorme mole di lavoro ripetitivo e costante, un coltivare, un ripulire, un costruire, un migliorare, un mantenere in vita attraverso continue quotidiane faccende). Stiamo ancora aspettando che i maschi compiano un passo altrettanto importante nella storia dell’umanità; fino a questo momento, sembra che abbiano sviluppato solo la capacità di distruggere la cultura/le culture.
Polemiche a parte, riprendiamo il filo della nostra storia. E occupiamoci più direttamente della matrigna, presentata come bella e altera, potente e invidiosa. Come sappiamo, il patriarcato ha una certa avversione nei confronti delle donne che, oltre ad essere avvenenti, sono anche forti e consapevoli di sé. Da qui a considerarle “streghe” il passo è breve. E le streghe, si sa, fanno una brutta fine; non a caso la Nostra dovrà infilarsi delle pantofole incandescenti e ballare sino a morirne. Quelle tenaglie con cui vengono prese e trasportate le “scarpe ardenti di brace” ricordano in maniera chiara e terribile gli strumenti di tortura nei processi per stregoneria.
Ma chi è, nella fiaba di Biancaneve, questa Matrigna/Strega? La domanda è più che retorica, dato che ormai l’abbiano già chiamata Matrigna/Dea. Della divinità ella ha gli attributi: lo specchio, la cintura, il pettine, la mela. Ed ha, ovviamente, poteri magici, e una “grandiosità” che neppure una narrazione distorta e mendace è riuscita a cancellare. Lo specchio è un antichissimo oggetto simbolico e cultuale (cioè usato in riti e cerimonie). In molti luoghi che sono stati sede di culti matriarcali, gli archeologi hanno trovato degli specchietti, subito interpretati come utensili da “toeletta” e segni della vanità femminile. Vicki Noble, nel suo libro sui tarocchi e sui miti dal titolo Motherpeace (New York, 1989), ricorda il significato sacro dello specchio, che si può riassumere nella massima “conosci te stessa”. Lo specchio ci ridà il nostro essere di là dalle manipolazioni e dagli indottrinamenti, ci dice chi siamo, ci mostra i nostri occhi, a loro volta “specchio dell’anima”. Gli Indiani d’America e gli Shintoisti giapponesi conservano spesso uno specchietto nei loro reliquiari. Diverse pitture vascolari greche del 6o-5o secolo a.C. raffigurano donne o uomini con in mano uno specchio, in atteggiamenti che nulla hanno a che fare con la toiletta, ma che rimandano piuttosto a pose religiose, di preghiera o di meditazione. Nei Misteri Dionisiaci lo specchio svolge un ruolo importante: chi si specchia scopre la parte divina dell’essere umano, la sostanza vitale (cfr. anche Marion Giebel, Il segreto dei Misteri, Zurigo 1990). Per i cattolici, invece, a specchiarsi a lungo si corre il pericolo di veder apparire il diavolo!
La cintura non è subito identificabile, nell’attuale versione di Biancaneve. Lucie Stapenhorst nel suo libro La strega nella fiaba - Una lettura al femminile delle fiabe dei Grimm (Norden di Frisia, 1995), così scrive:
«Come prima cosa, la Matrigna porta a Biancaneve un laccio per il corsetto. Solo a fatica possiamo riconoscere in questo oggetto la mitica cintura, che simboleggia forza e invincibilità. Brunilde la possedeva, e Ippolita Regina delle Amazzoni, e Santa Marta».
Ma, nella versione patriarcale, la cintura della Dea diventa un laccio che stringe, soffoca e uccide; terribile metafora di tutte le stringhe, le cordicelle, le stecche, i corsetti, i busti, che la “moda” ha imposto alle donne stritolandole. Il pettine è la seconda “mercanzia” che la Matrigna reca a Biancaneve. Come lo specchio, anche quest’oggetto è stato smesso travisato, e confinato nell’ambito della “vanità donnesca”. Il prototipo della donna pettinantesi è la Loreley, che, seduta su uno scoglio sul Reno, a forza di pettinate seduttrici fa sfracellare gli incauti marinai. Il patriarcato (non la Matrigna) ha avvelenato il pettine. La testa è la sede dei pensieri, delle idee, delle utopie e delle fantasie, che spuntano e crescono come i capelli; riordinare le chiome con il pettine significa, quindi, sapersi muovere nel mondo intellettuale e spirituale, sbrogliare quel ch’è aggrovigliato, appianare e sistemare. La donna con il pettine è la donna che pensa.
Ed eccoci adesso alla mela, dono “fatale” della Matrigna a Biancaneve. Siamo arrivate al nucleo dell’iniziazione, a quella mela che simboleggla il grande segreto della Dea, il mistero del sesso, in una parola: la Vita. Sentiamo il parere della già citata Stapenhorst:
«Nella mitologia matriarcale, la mela, simbolo del seno femminile, indica l’Eros, il principio che tiene in vita il mondo. La Dea la offre al Dio dell’amore come invito al Matrimonio Sacro, all’unione dei sessi che creerà nuova vita. Nel mito patriarcale, proprio questo atto (l’offerta della mela) porta dolore e morte».
Decodificando correttamente la fiaba, quindi, apprendiamo che la Dea introduce Biancaneve ai Sacri Misteri, porgendole una mela “metà bianca e metà rossa” . La fanciulla addenta la parte rossa, entra cioè nel ciclo tutto femminile che comprende mestruazione e gravidanza, e, del tutto coerentemente, finisce nella bara, cioè nella fase nera di questo ciclo (La Donna, la Luna e la Vita hanno fasi e cicli, in un continuum Vita-Morte-Vita). La bara viene portata dai nani sulla Montagna, un altro (poderoso) simbolo della Dea. Nel libro di Monika Sjöö e Barbara Mor The Ancient Religion of the Great Cosmic Mother of All (Bristol, 1981), si legge:
«Nel tardo-matriarcato, la Dea era il trono. La Regina era potente perché sedeva in grembo alla Dea e diveniva così un tutt’uno con lei. [...] Il grembo/trono originario era la Montagna, che riunisce in sè i simboli Terra, Caverna, Pienezza, Altezza e Immortalità. La Montagna che sovrasta il paesaggio è figura dell’enorme Forza della Dea».
Marion Giebel, nel libro già citato, parla di un’anatolica “Madre della Montagna”, la quale finì con il fondersi, nel culto, con la frigia Matar Kubile, cioè Madre Cibele, che era anche il nome di una montagna della Frigia in cui si trovava una caverna sacra. La Dea della Montagna era pure la Dea della Caverna, quindi del profondo e del ctonio.
E allora Biancaneve, che se ne sta sulla Montagna/Trono, è diventata, alla fine del cammino d’iniziazione, femmina! Così unita alla Dea, ormai divina essa stessa, con i nani (le sue proprie forze, le sue doti, i suoi poteri) a farle la guardia, può uscire dalla fase al nero e viversi una nuova fase, come la luna che da nera (= nuova) si fa crescente. Infatti, sarà lei stessa a sollevare il coperchio di cristallo della bara (vedi fiaba, in caso di lacuna mnemonica) non certo il principe, che la trovava perfetta da morta. E qui mi rifiuto di sprecare energia per parlare di principi necrofili e di “splendidi matrimoni” che detronizzano le fanciulle e ne fanno “la moglie del re”. Io, per conto mio, me ne torno sulla Montagna.
Lilla Consoni