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Elena Fogarolo

L’agonia di Artemide

Artemide è un nome, il nome più preciso per designare l’esperienza umana dell’incontro con la solitudine

Miopia n.1, maggio 1989


Artemide di Vavrona. Dettaglio da un rilievo del 4° sec. a.C. Museo di Vravrona.
Artemide di Vravrona (Attica).
Dettaglio da un rilievo del 4° sec. a.C.
Museo di Vravrona.
(Link da thule-italia.com)

Artemide, sorella di Apollo, era una divinità femminile vergine, legata alla natura, “...un’immagine della natura che nello spettatore suscita sbigottimento, inquietudine, un senso di estraneità e di mistero...” (1). I romani la trasformarono in Diana, accentuandone l’aspetto di cacciatrice. Va bene, dirà qualcuno, ma questo che c’entra? Non è roba vecchia e stravecchia, morta da millenni?

Il nome forse è morto, ma il concetto, l’esperienza no di certo. Anzi: in fondo tutti gli attuali movimenti verdi difendono lei, l’Artemide che ora è minacciata di morte davvero. Forse chi non ha familiarità con la mitologia penserà che qui stiamo usando delle metafore, forse anche belle ma troppo complicate: non si potrebbe parlare chiamando le cose con il loro nome? Il fatto è che Artemide è un nome, il nome più preciso per definire un’esperienza umana, un’esperienza vitale che ora è in pericolo. Al posto di Artemide potremmo usare la parola natura: ma la natura non è spirituale e misteriosa e soprattutto inquietante come lo è una dea. Artemide infatti è un incontro. L’incontro con la solitudine che ci fa paura, ma di cui abbiamo misteriosamente bisogno.

Il lungo oblio di Artemide segna un lungo oblio di molte esperienze umane: di illuminazioni spirituali in prima persona, innanzitutto. Quando il cristianesimo sorse, molti eremiti continuarono ad andare nel deserto in cerca di una maggiore vicinanza con Dio. Poi la pratica via via scomparve, e chi aveva l’esigenza di estraniarsi dal mondo andava in convento. Ma non era la stessa cosa: il convento è un solco già fatto, e non è detto che si adatti a ogni personalità. Certo è meno rischioso.

Saltiamo quasi duemila anni di storia e veniamo a noi, ché sarebbe troppo lungo inoltrarci in un’analisi storica della solitudine. Artemide, è stato detto sopra, è un’esperienza vitale, e quindi non è mai scomparsa del tutto, nemmeno ora. Però, come molte esperienze similari, può essere sottovalutata, strapazzata, atrofizzata. Per noi Artemide ora vuol dire soprattutto le vacanze. Il mare, i monti, un viaggio lontano. Nel concreto poi tutto è abbastanza banale, eppure ci accontentiamo: un tramonto, una giornata particolarmente bella, un momento sul mare in canotto, un pesce, un gabbiano nella sera, una mattina di pioggia sulla spiaggia ventosa... che cosa insomma? Qualcosa che ci porti fuori dalla struttura umana, questo cerchiamo.

Perché tutti ci adattiamo a fatica dentro il ruolo che ci è stato assegnato, il nostro io sconosciuto e rinnegato preme, anela a uscire: un albero, una conchiglia, un gatto, diventano per un momento il nostro interlocutore privilegiato, colui che accetta -riflettendolo- il nostro mistero, colui che è capace di gridare in una folata di vento: hai ragione, non è tutto qui! Non è tutto come viene detto dai tuoi simili. Il mondo è mistero e sempre lo sarà e tu sei misterioso quanto il mondo perché sei il mondo.

Benché queste esperienze siano più o meno intensamente note a tutti, bisogna anche ammettere che vanno facendosi sempre più rare, sempre più brevi, sempre più leggere. Ovunque andiamo, la traccia dei nostri simili è sempre più marcata: il mare ci rigetta la bottiglia di plastica, accanto ai torrenti ci sono le immondizie... è sempre più difficile che posiamo gli occhi su qualcosa avendo l’esperienza dell’incontaminato. Cioè di Artemide. L’incontaminazione ci è necessaria, e la viviamo anche “per delega”.

Come l’amore, ci basta che siano altri a procurarcela. Così noi, che apparteniamo ad una società che ha disboscato ogni centimetro quadrato del proprio suolo e non solo del proprio, ci indigniamo perché ora viene attaccata la foresta amazzonica. Quello è il polmone verde della terra, guai a chi ce lo tocca. Moriremo asfissiati, c’è l’effetto serra, c’è il buco nell’ozono, ma siamo matti a toccare la foresta? Noi vogliamo continuare a inquinare, con la tranquillità che altrove si continua a riparare.

Noi costruiamo strade d’asfalto, ma guai a chi costruisce una strada in terra battuta altrove. Certi articoli che vorrebbero essere ecologici o antropologici sono solo ridicoli: ci mostrano i primitivi che ora guidano una macchina, ora ascoltano una radiolina, ora usano una torcia a pile. Le didascalie sono piene di rimpianto: ma guardate cosa fanno anche loro! Già, invece di essere bravi primitivi che adorano strani dei e si tingono il viso con strane tinture; invece di usare il fuoco e le pentole di terracotta si mettono a scimmiottarci! La miseria! E noi cos’avremo da vedere fra poco, se tutti fanno come noi? Questo è uno degli altri comici lamenti dei media: il mondo si sta uniformando, scompaiono le belle tradizioni locali! Ripeto, è la stessa cosa dell’amore: che le donne amino e ci lascino vivere, che i primitivi adorino Artemide e ci lascino inquinare. Se solo noi, gli occidentali bianchi, facciamo casino, siamo atei, inquiniamo, siamo immorali ed egoisti, il mondo può tenere. Ma se tutti ci copiano, dove andremo a finire?

La terra è stata da sempre paragonata ad una madre, che dà e dà senza chiedere nulla: è singolare che la rivolta delle donne coincida con la fine dell’ideologia materna della terra e che sia la natura sia le donne stiano presentando il conto: no, non siamo oggetti da preda, tutto quello che vive è faticoso e ha bisogno di equilibrio, la vostra lussuria e la vostra ingordigia stanno portando tutto alla distruzione. Scopriamo che tutto ha un prezzo, anche l’aria. Quest’ossigeno sempre più prezioso dipende da prezioso legname, da prezioso terreno, da un prezioso ecosistema.

La nostra ricchezza di occidentali sventolata senza pudore al mondo spinge i più poveri ad imitarci: perché devono rispettare gli alberi, se noi non facciamo altro che distruggerli? Artemide non può essere relegata nel terzo mondo: guardiamoci intorno, e vedremo che non c’è nulla attorno a noi che non abbiamo infestato, sfruttato, sporcato. Tutto ci è servito da trastullo, perché tutto abbiamo arrogantemente disprezzato.

Solo le montagne inaccessibili sono rimaste parzialmente intatte (e anche quelle sempre meno, ché le usiamo per i nostri svaghi, per giocare agli uomini forti e audaci, che affrontano i pericoli, magari salendo su fuori strada rumorosi e puzzoni se non addirittura in elicottero). Dobbiamo ritirarci, pulire dove abbiamo sporcato, lasciare ricrescere gli alberi che abbiamo abbattuto, imparare soprattutto di nuovo il riverente timore verso il mondo, verso la vita. Artemide è anche sul geranio che abbiamo al balcone, o nel gatto di casa, ma dobbiamo avere gli occhi per riconoscerla.

Artemide è anche, e al primo momento ciò può apparire incoerente, la dea del parto. Ma chi abbia partorito o chi sia stato vicino ad una donna in quei momenti, sa appunto quale sapore selvaggio e misterioso assume la vita allora. In quali misteriose contrade sembra di essere: e quel bimbo che nasce e i cui piedi non hanno mai toccato terra, da dove viene se non da Artemide?

Molti sono gli episodi che riguardano questa Dea, che non solo era vergine ma non voleva nemmeno essere vista. Atteone, un uomo che la spiò, fu ucciso perché non raccontasse a nessuno quello che aveva visto. E di noi, sempre cicalanti coi nostri simili, noi incapaci di tenere un segreto, di avere fede nelle nostre esperienze, noi, adoratori del successo e del clamore, che ne farebbe Artemide di noi? Uscendo dalla mitologia: che ne sarà di uomini che non sanno nemmeno di aver bisogno anche di solitudine?

Elena Fogarolo*

(* L'articolo è stato pubblicato originariamente con lo pseudonimo Giovanna Varotto)

1) A.Morelli, Dei e miti, enciclopedia di mitologia universale.

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