Elena Fogarolo
Il furto sacro
[Sulla poesia di Thomas S. Eliot]
Da Miopia n.7, novembre 1990
Le poesie di Thomas S. Eliot, soprattutto quelle più note, sono in gran parte una specie di patchwork composto con “pezze” di poesie altrui. Eliot può essere allora accusato di “plagio”? Assolutamente no. La sua arte di usare materiale altrui è condotta infatti con estrema consapevolezza, ed egli stesso, in margine ad ogni suo lavoro, annota scrupolosamente da dove ha preso il tal verso: è incredibile quanto sia vasta la zona del suo saccheggio, che molto si estende nel tempo e nello spazio, dai poeti europei a versi di opere indù.
Leggere Eliot risulta così una strana esperienza: da una parte si incontra un poeta contemporaneo, con la sua sensibilità di contemporaneo, la sua tristezza, il senso di vacuità. Ma insieme a questo, ecco irrompere la forza della Bibbia, la dolcezza dell’amore cortese, l’impassibilità dei Veda.
Per noi è naturale considerare Eliot - la cui celebrità fu coronata dal premio Nobel - come un individuo ben preciso, a sé stante, con una sua grandezza “propria”.
Ma il concetto che Eliot aveva della poesia è molto lontano da questo nostro culto dell’individualità. Questo risulta non solo dalle sue opere teoriche e critiche, ma anche - appunto - dal suo modo di fare poesia: per Eliot la poesia non è di questo o di quello, non ha firme, ma è un’acqua senza nome che lambisce tutti.
Come i poeti antichi, Eliot si sente passivo verso la Musa: egli “è poetato”. Usando una sua bellissima immagine, il poeta è l’arpa mossa da dio.
Ma sarà meglio riferirci brevemente a qualche testo, ad esempio The Waste Land (La Terra Deserta), una delle sue composizione più note, di cui riportiamo il bellissimo inizio:
Aprile è il più crudele dei mesi, genera
Lillà dalla terra addormentata, confonde
Ricordo e desiderio, risveglia
Oscure radici con la pioggia di primavera.
Questi versi sono di Eliot, non citazioni da altre opere, e lo si sente nell’atteggiamento - tipico del ’900 - di vedere morte anche lì dove apparentemente c’è vita, nello stravolgimento di un tema usualmente sentito come bellezza e bontà (aprile, la primavera) in dolore e ulteriore male. La vita come male: più c’è vita e più c’è male.
Eliot da solo non sa uscire da questa impasse nichilista: per prendere lo slancio e uscire dalla disperazione si appoggia a testi di altri tempi.
E infatti la poesia procede aiutandosi, già al 20° verso con Ezechiele, al 23° con Ecclesiaste, al 31° con il Tristano e Isotta e così via.
E così avanti, fra cartomanti, donne oziose, segretarie facili, sere puzzolenti. Quando il poeta sta per affogare dentro una realtà vista con l’occhio riduttivo, pessimista e materialista della contemporaneità, ecco che di nuovo qualcosa in lui urla “non è solo questo!”. E la poesia si innalza di nuovo: non verso un ottimismo facile, non attaccandosi alle gioie della primavera o ai seni dell’amata.
Il primo innalzarsi sembra un affondare ancora più in giù, perché alle osservazioni del poeta si affiancano stralci pessimistici presi dai libri sacri: il mondo diventa una rupe rossa, senza acqua, la nostra vita una morte continua, la bellezza caducità.
Ma temi diversi iniziano a rompere questo triste mondo disperato: l’autore inserisce nel suo patchwork un pezzo di lana rossa e il suo lavoro si ravviva tutto:
Ardendo ardendo ardendo ardendo
O signore tu mi cogli
O signore tu cogli
Ardendo
Il brano riportato è tratto dal Sermone del Fuoco di Budda.
E al primo momento quasi non si capisce perché l’autore l’abbia messo lì, dopo pagine di disperazione.
Non è facile capire questo poeta: così noto ma così poco letto proprio per la difficoltà che scuote la pigrizia delle nostre menti e ci mette dolorosamente davanti alla nostra ignoranza.
Dopo questi versi, apparentemente inseriti lì a casaccio, l’autore non torna più al pessimismo novecentesco: è come se si fosse procurato una pertica sufficientemente lunga e ormai sa muoversi anche nella triste palude del pessimismo.
Egli si sente giustificato a sperare. Quei versi di Budda non sono stati messi lì per un improvviso e superficiale bisogno di credere, ma con la consapevolezza che anche la fiducia, come ogni fenomeno psicologico, è comunicabile, contagiosa.
L’autore non sa credere, ma si sente autorizzato - appoggiato da tanta tradizione - a sperare.
Ora la miseria del quotidiano viene messa da parte: non è più necessario guardare solo lì e soprattutto in quel modo.
L’interiorità inizia a vantare i suoi diritti:
O amico, il sangue che mi fa tremare il cuore
L’audacia terribile d’un istante d’abbandono
Che non può ritrarre una vita di prudenza
Per questo, e per questo solo, siamo esistiti
Questo che non sarà sui nostri necrologi...
Ma perché l’autore continui a sentirsi forte in questa operazione incredibile di sperare, il suo linguaggio poetico deve pagare uno scotto: per procedere innanzi non potrà più far conto sugli abbellimenti, dovrà rischiare anche la bellezza per avere la verità.
Il poeta accetta il pedaggio, gli basta andare avanti, e altri spettri gli fanno compagnia. Dante gli ricorda “il foco che gli affina” e dall’India la parola "Shantih", ripetuta tre volte, il cui significato è all’incirca “pace sensibile”, suggella senza traduzione il poema.
In Four Quartets (Quattro Quartetti) la tecnica del ricorso ad altri testi si è ulteriormente affinata: non si tratta più di un “patchwork” di versi propri e di materiale esterno: Eliot arriva ormai a una vera fusione del suo verso con l’antica poesia sapienziale, come nei versi seguenti, liberamente ispirati a un celebre passo dell’Ecclesiaste:
Le case vivono e muoiono: c’è un tempo per costruire
E un tempo per vivere e generare
E un tempo perché il vento rompa il vetro sconnesso
E scuota il rivestimento di legno lungo il quale trotta il topo
E scuota il logoro arazzo col suo tacito motto ricamato
Nel mio principio è la mia fine
[...]
Il tempo delle stagioni e delle costellazioni
Il tempo della mungitura e il tempo del raccolto
Il tempo dell’accoppiamento dell’uomo e della donna
E quello delle bestie. Piedi che s’alzano e cadono
Mangiare e bere. Letame e morte.
Spunta l’alba, e un altro giorno
Si prepara al calore e al silenzio.
Laggiù sul mare il vento dell’alba
Increspa e scivola. Io sono qui
O là, o altrove. Nel mio principio.
Qui l’autore è già fuori dalla palude. La poesia si è rivelata non qualcosa di meramente estetico, ma uno strumento che aiuta a vivere.
Quattro Quartetti si svolge quindi in modo più omogeneo, ormai il poeta ha imparato ad accompagnare la sua melodia al coro possente della poesia antica che lo sorregge.
E se qualche volta la poesia scade e perde in potenza immaginifica perché diventa troppo filosofica, pazienza: meglio questo piuttosto che una mera descrizione, per quanto poetica, del pantano.
Non c’è qui ovviamente lo spazio per una disanima ulteriore dei testi di Eliot. Il nostro scopo era solo di presentare un modo completamente diverso di intendere la poesia rispetto a quello ancora imperante nella cultura italiana.
Perché la poesia sia qualcosa che si legge dopo i vent’anni, bisogna che sia fatta di qualcosa di più di un po’ di malinconia e un po’ di eros.
Elena Fogarolo*
(* L'articolo è stato pubblicato originariamente con lo pseudonimo Giovanna Varotto)
Riferimenti bibliografici:
T.S.Eliot, Poesie, Guanda 1955 , traduzione di Luigi Berti .
T.S.Eliot, Quattro Quartetti, Garzanti, 1969 , traduzione di Filippo Donini .