Elena Fogarolo
Prevenzione o ipocondria?
Da Miopia n.30, settembre 1997, numero monotematico IL TEMPO DI ECATE
E’ noto ad ogni cultura che la giovinezza ha con la vita un patto viscerale, profondo, assoluto: non ha pazienza, ha poco discernimento, tutto la ferisce e tutto la entusiasma. Il tempo insegna ad esser più cauti, più tolleranti (“si nasce incendiari e si muore pompieri”). A poco a poco ci si “distacca” dal mondo.
Questo mutamento verso il distacco mi sembra un elemento particolarmente grande, e pericoloso, del nostro cammino. Il distacco in sè è una cosa naturale, come i segni sul viso e una maggior lentezza del metabolismo.
Come le rughe, è però un avvenimento che attualmente non possiamo accettare. Tutto intorno a noi ci mostra infatti persone attaccatissime alla vita, esultanti, esuberanti, scattanti. Non solo la pubblicità, non solo gli attori. Per fare un esempio tanto banale quanto eclatante: il pubblico presente in sala agli spettacoli televisivi (che in teoria ci rappresenterebbe), qualunque sia la sua età, è entusiasta, infantile, obbediente, garrulo e un po’ idiota. Il cosiddetto tempo libero lo dovremmo passare tutto a visitare luoghi distanti, a comprare nuove cose, a innamorarci di nuova gente ecc.
Ma in realtà accade ad un certo punto qualcosa di definitivo, che segna un prima e un dopo, e che viene taciuto: quei viaggi, quelle cose nuove, quelle persone “eccitanti” non interessano più. O molto meno. Per vari fattori. Il primo è - ovviamente - il mancare o il diminuire delle novità: viaggi se ne sono fatti molti, un luogo in più, anche se lontanissimo, non mostrerà cose straordinarie. Volenti o nolenti, si diventa meno allocchi: pubblicità e propaganda influenzano meno, noi ricordiamo la scontentezza, la fatica, il disagio.
Da questo distacco, dalla capacità di ascoltare le sirene senza perdersi, dovrebbe nascere una nuova stagione di saggezza. Così si auspicava un tempo.
Ora, questa nuova stagione viene azzerata. Non ha nome. Chi si trova a desiderare di meno, si spaventa. Chi si trova meno attaccato a parenti ed amici, non sa che pensare di sé, soprattutto se è donna: come, non amo più nessuno? Non sarò diventata un mostro? Sarebbe, questo nuovo tempo, un tempo di calma e di meditazione. Cosa? Meditazione? Calma? Come sarebbe? Ma se a una persona, cui sia morto qualcuno di carissimo, dopo neanche due mesi si osa dire “ormai è ora che ti dai una mossa?”. Nemmeno al lutto si lascia il tempo dell’elaborazione.
Il distacco tuttavia permane, anche se sotto uno strato di trucco, malgrado la maschera di euforia obbligatoria.
Pian piano, il distacco non detto e non coltivato marcisce: e diventa depressione. Reso malattia, il distacco non fa più problema. Tace. La paura della depressione costringe ognuno a tacere il proprio progressivo distacco, ad euforizzarsi, ad essere “giovane dentro” ecc.
Come malata, la persona potrà letteralmente non fare più nulla. Ma non fare nulla non è distaccarsi. Distaccarsi è un processo che richiede attenzione, mutamenti, silenzi. Attorno alla persona definita depressa, al contrario continuerà l’euforia e il giro di soldi, di farmaci, di ricoveri.
Il mondo occidentale, ci dicono, è pieno di depressi. Non è difficile da credere: l’età media è piuttosto alta, e quindi il distacco dalle cose del mondo - più o meno accentuato ma spesso rimosso - è molto diffuso. Invece di diventare una terra di saggezza, di pace, di moderazione, l’Occidente continua a sfornare quantità demenziali di rifiuti, a inquinare la terra senza pensiero per le prossime generazioni, e soprattutto a dare un immaginario di disperazione.
La voce del tempo è un comando che non può non essere ascoltato: copiare i ragazzini, fingere di essere come loro, è pura follia. E la follia non è allegra. Come se uno, nel pieno dell’inverno, se ne andasse in giro in costume da bagno a dire che caldo e che bel sole.
Così la stagione del declino non può essere in nessun modo dribblata, pena - appunto - la depressione di chi nega, e di chi gli sta intorno.
Le chiese istituzionali sanno bene che dopo gli sfottò della giovinezza, avviene spesso un ritorno alla religione. Questo ritorno però è sempre più precluso perché le Chiese stesse sono fatte di esseri umani, e il tabù delle stagioni della vita è forte anche presso le persone istituzionalmente addette al sacro.
L’età che passa ci rende dissimili dai ragazzi scatenati che mangiano gelati, desiderano sempre auto nuove, si estasiano per un nuovo prodotto di pulizia, fanno sesso come dei poveracci sempre in calore, ballano per una nuova merendina.
Thomas Mann in Morte a Venezia descrive con parole corrosive la miseria di un non giovane che si mischia ai giovani, fingendosi uno di loro:
«...s’accorse con una specie di orrore, che si trattava d’un falso giovane. Vecchio era, non si poteva dubitarne. Il cremisi sbiadito delle guance era belletto, i capelli castani, sotto il cappello di paglia dal nastro variopinto, erano parrucca, il collo macilento e tendinoso, i baffi posticci e la mosca sul mento tinti, la dentatura gialla e completa che mostrava ridendo, un surrogato scadente e le mani, con anelli a sigillo in tutt’e due gli indici, eran quelle d’un vegliardo. Inorridito Aschenbach osservava lui e la sua confidenza con gli amici. Ma non lo sapevano, non lo vedevano che era vecchio, che ingiustamente portava un vestito sgargiante e da elegantone come il loro, che ingiustamente si spacciava per uno di loro? Sembrava che lo tollerassero con disinvoltura e per abitudine, lo trattavano come un lor pari e ricambiavano senza disgusto le sue maliziose pacche sui fianchi» (1).
Sono passati pochi decenni da quel libro, e fingersi giovani, nel fisico e nello spirito, è diventato un obbligo per tutti.
Si immiserisce in tal modo , ed enormemente, l’orizzonte dei giovani. Delle giovani, in particolare. Si rende superfluo, o basato sulla menzogna, un rapporto fra generazioni diverse dato che si tende a mostrare che lo scarto è minimo, inesistente, e che soprattutto non bisogna badarci! Le giovani ti elogiano: “ma come sei giovane! come sei diversa (sottinteso: dalle tue coetanee)” ecc. Strambi complimenti! Sarebbe in effetti assai strambo sentirsi dire “ma che bel tipo sei! assomigli tanto a me!”. Ma le /i giovani intendono in realtà qualcosa di diverso: intendono dire che sei vitale, che non dai un senso di miseria. E quindi che giovane, insomma, non sei. E non vuoi fingere di esserlo. La parola giovane ha assunto un tale significato positivo che viene usato sempre come un complimento: dove è mai finita l’espressione “mi dispiace cara o caro, ma sei troppo giovane?”. Prendono le modelle a tredici anni!
Sessuando ulteriormente il discorso, le donne che vivono questo distacco spesso elaborano dei riempitivi ossessivi legati al corpo: le rughe, il nuovo capello bianco, il nuovo neo, ecc. Seguono come delle pazze il proprio invecchiamento, tralasciando quelle azioni che sarebbero possibili solo nell’età forte: la loro, appunto.
E’ certo vero che ancor oggi, per fortuna, molte persone, quando il corpo comincia il suo declino, si volgono naturalmente verso luoghi e voci che parlano d’altro, da cui sentono qualcosa di cui il loro cuore ha bisogno. Spesso però, frastornate da troppi rumori, non hanno abbastanza fiducia per seguire una sola strada. Pasticciano un po’ con tutto, ritornando - come ho letto nel Libro tibetano del vivere e del morire - a una mentalità di shopping anche in questo campo. Ogni età della vita ha le sue grandezze e le sue esigenze: ignorare la maturità e la vecchiaia è un crimine contro natura, il cui scotto viene pagato dal singolo per primo, e poi dalla collettività tutta intera.
Tutte le retoriche sui bisogni dell’infanzia, sulle contraddizioni dell’adolescenza, sugli spazi necessari alla giovinezza, son parole al vento se l’emozione e il pensiero non arrivano anche alle altre stagioni.
Una collettività deve infatti avere a mente la persona nelle sue età diverse, per proporre poi qualcosa di sensato. Noi tutti inorridiamo, ad esempio davanti alle immagini di molti ospizi per anziani: ma per inventare una diversa ultima tappa, bisogna prendere un cammino diverso, molti anni prima.
e.f.
(1) In Thomas Mann, La Morte a Venezia, Garzanti, 1965, pag.103.