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Doranna Lupi

Dea/Dio: donne in ricerca

Da Miopia n.31, marzo 1998, numero monotematico IL DIO, LA DEA


Mary Daly
Mary Daly, autrice di
Al di là di Dio padre
(Link da https://opentabernacle.files.wordpress.com)

Non potrò mai dimenticare l’incontro di tanti anni fa del nostro gruppo donne della comunità di base, in cui decidemmo di affrontare il tema dell’immaginario religioso; la domanda a cui cercammo di dare risposta in quell’occasione fu: «Ma noi, come ci immaginiamo Dio?». Sono passati da allora almeno dieci anni. Rivedendo i quaderni su cui abitualmente prendevo appunti durante quelle riunioni, non ho trovato nulla di scritto su quella sera. Ho chiesto ad alcune donne presenti allora, ma fu una serata così partecipata ed intensa da non lasciare spazio ad appunti, ma da rimanere ben scolpita nella nostra memoria.

Sono due le cose che io ricordo con maggiore intensità: la meraviglia che ho provato di fronte alla possibilità di pormi una simile domanda e di rispondere liberamente e, in secondo luogo, il rendermi conto della necessità di approfondire l’argomento con le altre donne del gruppo, vista la risposta quasi corale che all’epoca esse diedero: «Io mi immagino Dio come un padre, anziano, con la barba. Non riuscirei ad immaginarmelo in nessun altro modo». Le donne che non si erano mai poste questo problema trovavano del tutto naturale immaginare Dio esclusivamente come padre.

Di conseguenza appariva naturale che “Dio Padre” avesse creato “l’uomo” a sua immagine e somiglianza o che le immagini con cui viene rappresentato fossero tendenzialmente immagini maschili: padre, re, signore degli eserciti, sposo del popolo di Israele ecc. Nonostante fossimo tutte d’accordo, razionalmente, sul fatto che Dio è asessuato, nessuna di noi trovava indifferente l’uso del maschile Dio o del femminile Dea. Addirittura il tentativo di pregare Dio al femminile (come suggeriva Liliana Lanzarini nell’incontro di studio su “Donne e linguaggio” del 1986: «Io credo in una sola Dea, madre onnipotente, creatrice del cielo e della terra...», «Madre nostra che sei nei cieli...» ecc.) ebbe per noi degli effetti veramente traumatici.

Seguirono a questo episodio anni di riflessioni, discussioni, dibattiti e letture. Era indispensabile per noi, donne credenti, misurarci con i testi biblici da cui queste immagini nascevano. Ma il nostro rapporto con la lettura dei testi doveva cambiare. In questo percorso ci è stato di grande aiuto il contributo che molte teologhe femministe hanno elaborato nel corso di questi anni. Fu indispensabile, per esempio, interiorizzare i principi dell’ermeneutica del sospetto (1) che ha, come punto di partenza, la constatazione che il patriarcato è stato uno degli aspetti più stabili della società entro la quale la Bibbia fu composta e redatta. Perciò, nello studiare un qualsiasi testo biblico bisogna stare sempre all’erta per riconoscere i pregiudizi patriarcali più espliciti e gli elementi di androcentrismo presenti nella concezione degli autori biblici.

Un’altra chiave interpretativa indispensabile fu quella dell’esperienza delle donne. Poiché non è stato loro consentito di apportare la propria esperienza per dar forma alle tradizioni e interpretarle, esse devono appropriarsi positivamente della loro esperienza, per poter diventare criticamente consapevoli delle esperienze falsificanti e alienanti che sono state loro imposte.


Un'edizione in inglese de Il calice e la spada di Riane Eisler
Un'edizione in inglese
de Il Calice e la Spada
(Link da http://rianeeisler.com)

Il vantaggio di questo approccio femminista ai testi biblici si è rivelato soprattutto in una sorta di percorso interiore obbligato. Perché, per individuare i pregiudizi patriarcali o per diventare criticamente consapevoli delle esperienze falsificanti e alienanti che ci sono state imposte, è fondamentale scoprire dentro di noi gli stereotipi che ci intrappolano e rompere le immagini patriarcali che ci opprimono. Un percorso senza dubbio difficile e doloroso, ma che può condurre alla consapevolezza che a noi donne è stata negata la possibilità di vivere la nostra esistenza secondo immagini coerenti con la nostra identità personale e che è nella profondità dell’esperienza che si trova la sorgente da cui scaturiscono immagini nuove (2).

Nel ’95, ad un incontro nazionale delle donne delle comunità di base, Adriana Cavina, pastora della chiesa battista, citando “L’infamia originaria” di Lea Melandri (3), ci parlava della spiritualità delle donne come di una spiritualità sensuosa, cioè basata sui sensi. Una spiritualità del quotidiano, che si rivela nella cura tenera e amorevole per le cose “penultime” e in cui il mistico e il corporeo cessano di essere in conflitto. Una spiritualità incarnata che si esprime nei sensi, nell’intimità dei corpi, nel benessere.

Io credo che le donne sperimentino il divino nella complessità del loro corpo che può dare la vita. A partire da se stesse possono percepire il mistero della creazione, vivendo in profonda sintonia con i ritmi e i cicli della natura. E’ per questo che le donne sono irrimediabilmente attratte dalla dimensione spirituale della vita. Ma, partendo da questi presupposti, dalle donne ebree e cristiane (cattoliche o protestanti) come può essere percepito il Dio delle scritture ebraiche, che crea l’universo dal nulla, al di fuori di sè, e che si manifesta esclusivamente nella storia del suo popolo? Come può essere percepito il Dio trascendente che ci accompagna, ma che è “totalmente altro da noi”?

Ci ponemmo questo interrogativo nell’incontro nazionale del ’96: “Che cos’è per me la creazione? E che cosa c’entra il Dio padre che crea dal nulla, in tutto questo?”. Non mi è possibile dilungarmi qui sulla ricchezza di esperienze e di riflessioni di quell’incontro, ma riguardando gli atti, ho constatato che da tutti i lavori di gruppo emergeva un unico filo conduttore: la creazione immaginata dalle donne era rappresenta da una spirale di energie, colori, suoni. Un’energia creatrice e creativa in continua espansione, dinamica e improntata alla fecondità. Quindi la creazione non è solo l’atto iniziale, ma un continuo divenire, legato alla vita vissuta, ai rapporti, alle relazioni e in essa non c’è solo bontà e bellezza, ma anche fatica, difficoltà e lotta. Questo immaginario, per le donne presenti, non aveva nulla a che fare con il Dio padre distante, distaccato e onnipotente. Esse percepivano invece Dio o la Dea come una forza che crea dal di dentro di sè e crea amore, accoglienza, relazione e presenza. E che in questa creazione dinamica, fuori da ogni mito di onnipotenza, continua ad avere bisogno dell’umanità.

Molte donne di fedi diverse o fuori da ogni percorso di fede, spinte da un profondo bisogno di riscoprire, dar voce e immagini nuove alla loro spiritualità addomesticata, da tempo si muovono in diverse direzioni, mostrando un grande interesse per storie e immagini di miti antichi e moderni. Alcune cercano di riesaminare e rimodellare le immagini, consapevoli dell’urgenza di capire quali siano i fili conduttori delle storie che ci portiamo dentro e che hanno modellato le nostre coscienze.

Uno dei temi più ricorrenti è la ricerca, nei miti e nelle leggende, di un’antica spiritualità matriarcale. Secondo alcune studiose, all’inizio della cultura umana, si svilupparono civiltà matriarcali non gerarchiche, fondate sulla reciprocità di donne e uomini, legate al ritmo della natura. Un’epoca in cui le donne avrebbero avuto ruoli di prestigio all’interno di una società matrilineare, dov’era venerata la Grande Dea. Fu un vero e proprio rovesciamento simbolico quello che portò alla scomparsa della Dea e alla sostituzione col Dio maschio e guerriero, onnipotente, creatore dal nulla di tutte le cose (4).

L’immagine della Dea può esercitare sulle donne una forte attrazione, perché in essa è possibile trovare il riconoscimento del potere e della forza femminili. La Dea, spesso nella sua triplice forma di giovane ragazza, donna adulta, vecchia, attesta il ciclo vitale delle donne. Inoltre da questa immagine emerge la forza dei legami fra donne, specialmente tra madre e figlia, ridando legittimità e autorevolezza alla genealogia femminile. Ma anche restando all’interno di un percorso di fede biblico, è possibile una critica all’immaginario patriarcale del divino, tanto più che si presenta il problema concreto di liturgie e rituali impregnati di questa cultura. E’ in atto, per esempio, una ricerca nei testi biblici, delle immagini femminili di Dio e delle tracce matriarcali sopravvissute come afferma la Gimbutas: «Le immagini sacre e i simboli della grande Dea non furono mai completamente sradicati; queste caratteristiche molto persistenti nella storia umana erano troppo profondamente impresse nella psiche. Sarebbero potute scomparire solo con lo sterminio totale della popolazione femminile».


copertina del libro La Luna Nera, di Jutta Voss, nell’edizione italiana
La Luna Nera, di Jutta Voss,
nell’edizione italiana
(Link da http://image.anobii.com)

Partendo da questo presupposto molte donne, ebree e cristiane, hanno riportato alla luce immagini bibliche di Dio che lo mostrano come partoriente, donna amata, vecchia, come sapienza o sorgente, albero, luce (5). Ma poiché all’immaginario patriarcale del divino sono strettamente connesse idee di dominazione e gerarchia, che rispecchiano i ruoli sociali maschili, ad alcune non sembra sufficiente l’uso occasionale di immagini femminili né tantomeno la semplice femminilizzazione delle immagini (re dell’universo = regina dell’universo).

Per alcune donne occorre superare l’immagine di Dio solo padre o solo madre e pensare finalmente a un Dio padre e madre insieme, avente caratteristiche di forza e decisione unite a tenerezza e dolcezza. Per altre, va superata la metafora parentale di padre o madre che mantiene l’umanità in un’eterna infanzia, impedendone il raggiungimento dell’età adulta (6). E, quindi, perché non usare un verbo (essere, divenire) per riferirci a Dio? Oppure un linguaggio impersonale come “fonte della vita, flusso di vita”?

Personalmente non posso negare la suggestione che esercita su di me il modello di Dio come madre e mi ritrovo in ciò che sostiene la teologa americana Sallie McFague quando dice che la metafora materna è forte e appropriata per il nostro tempo: «L’atto fisico del dare la vita è la base a cui questo modello trae la sua forza e da cui attinge i grandi simboli della vita e della sua continuità: il sangue, l’acqua, il respiro, il sesso, il cibo. Sono le immagini della gestazione, del parto, e dell’allattamento che creano un quadro immaginativo della creazione che dipende profondamente dalla vita divina. Di eguale importanza per l’aspetto della nascita è la capacità di questo modello di esprimere l’accudimento della vita. L’implicazione diretta del modello materno è un’etica della giustizia perché tutti i figli devono essere nutriti. Inoltre la Dea è la madre di ogni esistenza, di tutte le forme di vita e dell’ecosistema che sostiene i viventi. Poiché il creato prende corpo dalla Dea, è il corpo della Dea: in questo quadro Dio non è spirito rispetto a un mondo materiale ma è una realtà fisica» (7).

Tante sensibilità diverse rappresentano il tentativo di dare risposte diverse ad un problema aperto, ma soprattutto preannunciano un tempo di grandi e profondi cambiamenti culturali. Un tempo inquietante ma anche liberante e creativo. L’unica condizione indispensabile per poterlo vivere fecondamente sarà il coraggio di misurarsi fino in fondo con il proprio desiderio di libertà.

Doranna Lupi

1) Letty M.Russel, Interpretazione femminista della bibbia, Cittadella.
2) Mary Hunt - Rosino Gibellini, La sfida del femminismo alla teologia, Queriniana.
3) Lea Melandri, L’infamia originaria, L’erba voglio, Milano.
4) Riane Eisler, Il calice e la spada, Pratiche. Riane Eisler, Il piacere è sacro, Frassinelli. Jutta Voss La luna nera, RED. Marjia Gimbutas, Il linguaggio della dea, Longanesi.
5) Elisabeth Moltmann-Wendel, Il mio corpo sono io, Queriniana.
6) Mary Daly, Al di là di Dio padre, Editori Riuniti.
7) Sally McFague, Dio Madre, in Concilium n.6/1989, p.183.

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