Lidia Menapace
Internazionale per flauto e sassofono
Da Miopia n.32, settembre 1998, numero monotematico LE FIGLIE, IFIGLI
Soprattutto mi incuriosiscono le bambine. Anche quelle educate nella forma più tradizionale (famiglie piccolo-borghesi o moderate, scuole private religiose e laiche) mescolano atteggiamenti da codice televisivo di comportamento (seduttive e competitive, sagge e consumatrici) e valori tradizionali (perbenismo, famiglia, incipienti sospetti verso chi non è “conforme”) con una forte coscienza di sè, una accentuata sicurezza e un conflitto verso i maschi nemmeno più celato, però non espresso in forma di lamento, bensì proprio di conflitto. Permangono nella formazione delle bambine una quantità di stereotipi, di quelli illustrati nel sempre famoso e utile “Dalla parte delle bambine” (e comincerei io pure, che non ho mai ammesso responsabilità delle madri oppresse, a far carico alle madri ormai meno oppresse o che si credono addirittura libere, di non essersi minimamente informate, oppure di non applicare le informazioni e di essere veicoli di prudente allineamento): tuttavia la coscienza di sè - ripeto - è molto forte. Con una sorta di naturalezza osservano la competizione e non si stupiscono che donne siano presenti in tutti gli sport (anche quelli classicamente maschili) e vi si riconoscono e godono quando la nazionale ottiene glorie soprattutto per merito delle atlete. Osservano compiaciute, quando alla messa partecipano anche chierichette sull’altare. Non si tratta di un limpido mutamento di fondamenti nella formazione della personalità, bensì di un processo con ombre e perplessità. Meno certo il senso della propria indipendenza affidato al lavoro e molto forte la spinta familistica.
Insieme ai maschietti ancora piccoli condividono invece una solidarietà verso la sorte dei bambini e delle bambine nel mondo. Non più nella forma biecamente suggerita dagli adulti un tempo: “pensa ai piccini che muoiono di fame”, capace di far andare di traverso la torta più desiderata, ma attivamente. Una sorta di piccolo internazionalismo attivo si accende, ogniqualvolta la loro attenzione viene richiamata sui torti fatti all’infanzia: le campagne contro lo sfruttamento del lavoro minorile sono molto sentite. I miei pronipotini e pronipotina e loro amichetti e amichette hanno telefonato e scritto proteste ad alcune multinazionali che fabbricano scarpe giocattoli palloni, chiedendo conto del lavoro infantile e delle morti sul lavoro: debbono essere stati molti e molte a scrivere, perché le citate famose ditte hanno risposto assicurando provvedimenti: non sarà vero che ne prendono, però bambine e bambini fanno esperienza di un potere che riescono ad esprimere in proprio attraverso lettere telefoni telefonini computer internet: l’uso naturale delle tecnologie comunicative dà loro il sentimento di non essere né isolati, né impotenti. Ed è altresì evidente che persino le multinazionali temono la tenacia e determinazione di chi è capace di fare capricci senza fine, pur di non comprare o indossare merci fabbricate con fatica dolore e pericolo di loro simili, mentre le nostre sbandierate campagne di boicottaggio di questo o quello non sono evidentemente state seguite da comportamenti coerenti diffusi, dato che nessuna importante impresa si è mai preoccupata di smentire le nostre accuse e promesse di boicottaggio.
Tutto ciò avviene in un àmbito ancora - come si suole dire - prepolitico: ma non so se sia giusto chiamarlo così. Infatti l’esperienza di un potere esterno alla famiglia è decisiva e per le bambine del tutto nuova storicamente, non potrà non sedimentare atteggiamenti differenti da quelli tradizionali.
Sembra più incerto il modo d’essere delle adolescenti verso la politica. Il disinteresse è accentuato, e non inferiore del resto a quello di adulti e adulte: colpa delle insopportabili forme della politica e del suo involgarimento e stupidità. Un’epoca in cui i cattolici irlandesi non sono capaci di accogliere con applausi e risate gli Orangisti che sfilano vestiti come galli da combattimento, è degna di competere col più barocco culto del punto d’onore, rifugio di tutti i cretini, pericoloso rifugio di tutti i cretini potenti. Per le giovani generazioni noia e rigetto della politica sono resi anche più forti dalla assoluta mancanza di memoria storica recente: nessuno ha trasmesso in forma minimamente narrativa e non episodica la storia del secolo che sta per finire. Sono infatti venuti meno i tradizionali strumenti di formazione e trasmissione della memoria del recente passato. Le famiglie hanno ancora narrato la prima guerra mondiale, della quale la mia generazione ha sentito epici racconti episodi giudizi da parte di padri stati combattenti e di madri che lottarono per il lavoro e la sopravvivenza; ma la seconda mondiale non è stata detta, perché spesso le famiglie sono state attraversate da storie troppo differenti e dolorosamente contraddittorie: due fratelli o un padre finiti prigionieri degli Alleati o internati in Germania dai Nazi non potevano narrare nulla di coerente e di non troppo conflittuale tra loro e verso le famiglie che rimaste a nord o a sud della Linea Gotica a loro volta avevano avuto vicende del tutto differenti. Se si pensa che la stessa Resistenza fu divisa territorialmente, si può capire che il primo canale di trasmissione sia venuto meno. Tuttavia, a partire dal 1945, subentrarono alle famiglie taciturne altre sedi, partiti, sindacati, parrocchie, che certo in modo non “scientifico” e meno che mai “oggettivo”, ma molto ideologico fornirono tuttavia molte notizie e alcune griglie interpretative: PCI, PSI, DC, Chiesa, CISL, CGIL, ACLI, CIF, UDI, Azione Cattolica ebbero le loro scuole di formazione che appunto fornivano nomi e indicazioni e davano sommarie e anche faziose letture del presente o del recente passato. Ma - come mi accade di dire - tutti e tutte sapevamo chi erano Degasperi Togliatti e Nenni e La Malfa o Saragat o Einaudi, e più o meno avevamo un quadro di riferimento. E venivamo dal tempo fascista, cioè eravamo politicamente analfabeti. Oggi nemmeno questo, perché le famiglie sono sempre più mute di storia, e partiti e sindacati hanno in pratica smesso di fare scuole; continua la Chiesa, ma con atteggiamento più pratico, per la formazione di una classe politica affidabile: si tratta comunque dell’unica istituzione diffusa che abbia un centinaio di scuole di formazione e informazione politica nelle varie diocesi, di differente impostazione, a seconda che prevalga un tono e una cultura teologica avanzata o tradizionale, ecumenica o integralista.
Quando parlo di scuole di formazione, intendo quegli strumenti che danno un primo ordinamento e interpretazione e analisi alla storia del presente, alla memoria che si sta depositando, non parlo di informazioni su come si scrive una delibera o si fa un’interrogazione oppure come si compila una busta paga: non intendo cioè quella formazione accentuatamente tecnicistica che in qualche luogo anche tra le donne si persegue, senza alcun cenno critico: dunque non è scuola.
Proprio a questo proposito, noto però da qualche tempo una curiosità verso la storia recente nelle ultime generazioni di scuola media superiore. Ne avvertono molto la mancanza, non surrogabile dall’eterno presente televisivo che trasforma tutto in “immagini di repertorio” e in un fluire di notizie, che non diventano mai racconto, ma hanno l’andamento del flash, un lampo e poi si spegne, sostituito da altro flash, non da un tempo durevole che chiede risposte. A me capita sempre più di frequente di essere invitata a parlare a scolaresche motivate che hanno intrapreso ricerche e costruito mostre, che si interrogano e ci interrogano in modo limpido e appunto curioso, insomma per sapere davvero, non per avere conferme e rassicurare una opinione ricevuta.
Posso ricordare come partenza la bellissima mostra sulla Shoà costruita in una scuola di Bergamo con Rosangela Pesenti della Società delle Storiche, e le molteplici iniziative per conoscere la Resistenza, e l’attenzione critica verso le ricostruzioni che mutano l’asse di giudizio. Ad esempio quando mi servo di citazioni prese - oltre che dalla mia esperienza personale - da storiche come Anna Bravo.
Introduco qui un’altra osservazione. Per le ultimissime generazioni il tipo di linguaggio usato è decisivo: la mostra sulla Shoà era di una eloquenza lancinante senza avere nessun aspetto truce o terribile, senza torture cadaveri campi: l’idea era stata quella di scrivere (come si vede anche sui muri di una sinagoga di Praga) a uno a uno tutti i nomi degli ebrei e delle ebree italiane uccise dai nazifascisti. Siccome volevano sterminarli fino all’ultimo, togliere loro identità, allora contare i loro nomi è il segno che quella operazione non è riuscita e che i volti e i nomi sopravanzano la orribilità del tentato sterminio. Così come a testimoniare la responsabilità del fascismo bastava la esposizione di alcune pagelle di quegli anni, sullo quali era scritto: “di razza ariana”, come dato anagrafico necessario per poter andare a scuola. Da quel tempo infatti non riesco a definirmi di una qualsiasi “razza”. E anche etnia mi fa schifo.
A proposito di Resistenza - e sempre a sostegno della tesi secondo la quale non può esservi interesse politico sul vuoto di memoria storica recente e la memoria storica recente non nasce per generazione spontanea, ma richiede decisione di trasmetterla, e ricerca di modi e forme adeguate - cito un incontro della primavera del 1998 a Villa San Giovanni (RC); chiamata in un Istituto tecnico a parlare della Resistenza trovo non solo una attenta voglia di capire un evento del quale non potevano avere né anagraficamente né territorialmente cognizione, ma un vero film predisposto alcuni anni prima da gruppi di ragazzi e ragazze dell’Istituto. La genesi è la seguente: allo scoppio della guerra del Golfo si interrogano su un evento del quale non hanno avuto esperienza diretta, colpiti/e, preoccupati/e e insieme schifati/e delle immagini televisive false ed edulcorate. Provano a interrogare persone sulla guerra più recente combattuta anche sul nostro territorio cioè la seconda mondiale. Ripercorrono attraverso consultazione di documenti, stampati, giornali, bollettini ecc., le vicende fino alla divisione dell’Italia in due: da lì comincia per loro un problema storiografico non da poco, che risolvono brillantemente interrogando padri madri nonni e nonne sulla data del 3 settembre 1943, che campeggia su una targa stradale di Reggio Calabria. Nessuno sa che voglia dire. E’ lo sbarco degli Alleati a Reggio e il racconto dei vecchi e delle vecchie ripercorre la paura e lo sterminio dei bombardamenti, la fame, la vita sotterranea, la miseria e anche il fastidio verso la ostentata ricchezza dei “Liberatori”, una volta sbarcati in una terra rasa al suolo. Ma interrogando adulti anziani e anziane viene fuori non solo la ricostruzione della vita di Villa o di Reggio prima dei bombardamenti, bensì che qualche calabrese era militare al nord e si è fatto due anni di internamento in Germania; oppure ha preso parte alla Resistenza, come dico sempre, poteva anche essere stato come i due fratelli Di Dio, morti in Valdossola (NO), anche se erano avellinesi. Parte una ricostruzione filmata della Resistenza e il gruppo cinematografico ha colmato una frattura, e mostrato come si fa storia da una memoria divisa e dato informazioni utili a tutti. Il testo è anche presso l’Archivio storico del movimento operaio e non risulta che insegnanti lo richiedano per documentazione. Come non risulta che agli Archivi storici della Resistenza arrivino richieste di documenti sulle lotte operaie del 1943/45, di gran lunga più innovative e temute dai nazi che non la stessa guerriglia. Eppure i filmati che rievocano e testimoniano gli scioperi del 1943 e le facce delle operaie ed operai che raccontano come andò e perché furono mandati nei campi di sterminio sono di straordinaria eloquenza e fanno giustizia subito di ogni facile accomodamento buonista, e nello stesso tempo veicolano una pietas, una ricchezza umana, una generosità etica, che sono per l’appunto i modi con i quali si legge la storia recente: in questi documenti la presenza di volti e voci di donne è numerosa. Ho appena bisogno di ricordare il lavoro della Cavani sulle Donne nella Resistenza, che rimane un testo di grande efficacia, come ho avuto modo di accorgermi in numerosi luoghi e scuole.
Si tratta di trovare fonti non inquinate, che abbiano ancora la vivezza del racconto in presa diretta e la trasmissione è possibile e desiderata. Non è invece utile ripetere racconti eroici e militari della Resistenza, che fu un evento armato per necessità, ma non militare, bensì politico e sede di formazione di una coscienza di sè da parte delle ragazze che vi presero parte per assoluta scelta personale, non costrette - come molti ragazzi - dai bandi militari.
Analoghi esempi potrei rievocare, ma mi basta il racconto del più innovativo.
Aggiungo tuttavia un’altra esperienza sempre della primavera di quest’anno: tralascio dunque i molti dibattiti più tradizionali nella forma e nel linguaggio: che pure - per essere tutti ormai fondati su ricerche e mostre nate da motivazioni dirette - si staccano dalla solita trasmissione cattedratica dal pieno al vuoto e sono molto interattivi.
Ciò che ora racconto si è svolto a Crema nella primavera di quest’anno. Vengo invitata dalla Camera del Lavoro di quella città a una iniziativa per ricordare Anna Adelmi, una operaia che fu segretaria generale della Camera del Lavoro cremasca negli anni della prima guerra mondiale e fino al fascismo (ogniqualvolta si restituisce memoria a un volto di donna ne vengono al seguito altri, come si sa, ed è infatti avvenuto: testimonianza del fatto che non è vero che non abbiamo storia, bensì che la nostra storia non è stata ritenuta degna di memoria, non è diventata memorabile). Il figlio ha raccolto i suoi scritti e ricostruito una vita che anche per lui, rimasto orfano e trasferitosi altrove era rimasta quasi ignota: una vita per molti versi straordinaria, di povertà miseria lotta animo indomito autoformazione conquista della parola e della scrittura: ci dà conto su quale livello di emancipazione e coscienza di sè il fascismo sia duramente passato per le donne, tra l’altro. Una interruzione brutale, una cancellazione fosca, un odio che perseguitò fino le memorie. Non voglio qui ripercorrere le tappe della vita di Anna. La celebrazione di lei avvenne così: classi di scuola media superiore (Licei scientifici, magistrali, tecnici, musicali) leggono il libro e cominciano a lavorarci su e alla fine ne esce un evento molto attentamente progettato e preparato (niente di improvvisato o sciatto, una regia inflessibile, tutti i tempi rispettati) e di grande eloquenza. Le varie classi hanno preparato video sulla storia di Crema di quegli anni, sotto il profilo economico e politico, lo sviluppo industriale, le organizzazioni sindacali e cooperative, e sulle vicende politiche (i partiti, i sindacati, il movimento cooperativo socialista e bianco, Miglioli). Altri lavorano sui testi di Anna e ne viene fuori una recita dei suoi articoli di giornale trasformati in discorsi; una danza accompagnata da parte di suoi scritti, insomma varie maniere di rievocare, rappresentare, far rivivere. A ogni evento mediale segue una pausa di dieci minuti (contati rigorosamente) nei quali a turno il figlio, Adriana Buffardi e io interloquiamo aggiungendo notizie commenti emozioni. Alcuni testi sono seguiti o accompagnati da rievocazioni suonate o cantate di canti di lotta e di lavoro. Ma la cosa più straordinaria che testimonia interruzione di memoria e ripresa autonoma della stessa è la seguente: poiché leggendo gli articoli scritti da Anna per il settimanale socialista di Crema incontravano spesso il termine internazionalismo, alcuni e alcune chiesero a chi li accompagnava nella ricerca: che cosa è l’internazionalismo? (capito a che punto è la voluta distruzione-perdita di memoria nella sinistra?). E poiché il professore aveva cominciato a dire: “conoscerete e avrete cantato chissà quante volte un inno che si chiama l’Internazionale”, scopri che l’unica internazionale conosciuta era l’Inter. Ma gli studenti chiesero di avere lo spartito (non il testo, come avremmo chiesto noi eredi di una cultura tutta scritta) e deliziata ho ascoltato l’Internazionale per flauto e sassofono, che sembrava persino un’altra musica.
Mi viene in mente conclusivamente, a dimostrazione di quanta politica e di che qualità viene richiesta da giovani ragazzi e ragazze, per interessarsene, un episodio esso pure di quest’anno, capitato a Novara. Lì la provincia bandisce ogni anno un concorso per le scuole sulla storia recente. Ragazze (soprattutto) che avevano vinto il concorso sulla Shoà furono per premio inviate a un viaggio nei campi di sterminio in Germania e di ritorno costruirono con insegnanti e una assessora provinciale un incontro con me, un’altra donna che era pure stata partigiana e deportata, un paio di partigiani, uno dei quali era stato preso poco più che ragazzo e si definiva il più giovane deportato d’Italia. Vivissimo il confronto, la curiosità, lo scambio. Ma non è finita. Tra Novara e alcune località del sud vi è una sorta di gemellaggio attraverso Libera, l’associazione che vuol costruire una cultura non mafiosa. Erano in visita le delegazioni di scuole associate a Libera, di Locri Roma e Palermo e furono invitate esse pure per uno spontaneo sentimento di ospitalità, ma anche perché ragazzi e ragazze di Novara e di quelle altre lontane province argomentarono benissimo (la presa di parola delle ragazze è un fatto ormai storicamente compiuto) che bisognava associare mafia a politica distruttrice di libertà e dignità umana: fu anche quella una vera lezione di politica, intesa come nobile attività umana, complesso rapporto col presente e col passato, una cosa da non dimenticare. Sarà il caso che ci accorgiamo che così si trasmette la storia e la politica: non facendo ogni tanto un sondaggio cui tutti rispondiamo in modo conforme alle attese, e che non ha alcun senso innovativo: è uno strumento conservatore.
Lidia Menapace
Nota metodologica
Quanto sopra scritto è frutto di esperienza, cioè del partire da sè per costruire scienza. Una scienza alla quale non giova l’esperimento prometeico e senza limite. Non la statistica o il sondaggio, che quantitativamente allineano numeri e test predefiniti; bensì ciò che ci può rivelare l’esperienza forse casualmente incontrata, ma poi ritenuta, connessa e resa significativa da una memoria attenta: casuale l’incontro, l’occasione, l’evento; scientifico l’uso. Non la statistica, ma lo scarto, la discontinuità dalla statistica. Euristico è il salto, piattamente naturalistico il seriale. L’evenienza statisticamente tale da interrompere l’andamento quantitativo prima testato, diventa fondamento di scienza. Un metodo di scienza femminista può essere quello che propongo, e che dunque provo. L’argomento indicato nel sottotitolo è osservato da me da lungo tempo, dato che sempre ho sentito una forte esigenza di contribuire a formare una memoria e connettere elementi per costruire una storia delle donne con propri metodi interrogativi punti di vista; non dunque per integrare la storia maschile (aggiungere tutte le petrarchiste ai petrarchisti, colmare le lacune - giusto farlo, ma non sufficiente, appartiene pur sempre all’orizzonte dell’emancipazione), ma per confliggere con i suoi criteri escludenti, le pretese universalistiche e appunto il prometeico credere di poter foggiare la realtà a propria esclusiva misura, persino costruire à rébours una memoria selettiva, che ci cancella, a meno che non rientriamo nel progettato esperimento, come regola o - al massimo - eccezione alla regola. Osservando, facendo esperienza memoria e poi storia, si può costruire invece una immagine di sè e del mondo più differenziata, fondata sul molteplice non riducibile a norma, ripetizione, regola e via ordinando. Ciò premesso, per illuminare quale credo sia il valore intrinseco di una osservazione che di per sè è quantitativamente limitata, ho narrato alcuni eventi significativi, che appunto interrompono il conformismo televisivo e segnano una novità. E suggeriscono itinerari.