Lidia Menapace
Abitare la polis
Da Miopia n.34, settembre 1998,
numero monotematico
RELAZIONI FEMMINILI
Naturalmente parlo sempre di relazione come “buona pratica”. È ormai un classico, quasi una clausola stilistica de] linguaggio femminista. Ma altrettanto di frequente mi dice poi che le relazioni tra noi donne sono selvagge, in tutti i sensi. ma soprattutto in quello di: comportamento che precede la polis e avviene ancora nella foresta, dove non vi sono regole (o almeno cosi mi immagino). E anche selvagge per l’enormità delle reazioni, la dismisura dei sentimenti, le passioni acute e dolorose, gli eccessi, sempre li che oscilliamo tra delirio di onnipotenza e catastrofismo immanente.
Selvagge anche perché sempre imprevedibili. In un qualsiasi consorzio maschile o misto (retto perciò da regole stabilite) più o meno sai che cosa puoi attenderti, un saluto o uno sberleffo, un trabocchetto o un piacere, in qualche modo riesci a cautelarti; in un incontro tra donne invece mai: può attenderti con la stessa probabilità - o quasi - un abbraccio o uno sgambetto, un apprezzamento la negazione. Insomma non esiste galateo, regola di comportamento: studiose che non lascerebbero senza rimando a pie’ di pagina una qualsiasi ricerca, rubano allegramente da altre donne senza citare neanche per sbaglio; gruppi con i quali hai condiviso pratiche annose e vicende importanti ti cancellano dall’oggi al domani e via.
Da che può dipendere quel che ho accennato, con una qualche forzatura, ma non poi tanto accentuata?
Non lo so bene, ma provo a capire narrando un episodio che mi è capitato da poco. Ero stata invitata da un gruppo che opera a Roma e ha sede nella Casa internazionale delle Donne (in restauro, ma già agibile), per introdurre una serie di incontri sulle matriarche. Non sul matriarcato, che credo non sia mai esistito e non desidero che esista, bensì sulle matriarche, cioè su quelle singole e singolari donne forti rilevanti attive, che in contesti molto differenti e ovviamente inserendosi nelle forme date hanno esercitato un potere in proprio, da Sara alla Thatcher.
Non le imiterei, ma non le considero irrilevanti e non voglio appiattirle con la solita formula dl “omologate al maschile”, anche perché per un bel po’ di secoli questo termine non ha senso. A me non spiace osservare come si sono mosse - con qualche tratto da donne - delle persone femmine che erano molto ambiziose e dovettero con fatica trovare spazi crepe trucchi abilità, tessere trame ecc. Parlo di Sara, di Aspasia, delle matrone romane, delle badesse medioevali, e via via fino a noi: si discute e subito - senza minimamente contestare rifiutare respingere il criterio che avevo proposto, cioè di fare una lettura contestualizzata - viene fuori la solita broda dell’omologazione e via. Penso che non mi sono state a sentire o di essere stata poco chiara o poco efficace: sono infatti stanchissima e lo sanno, dato che, per non poter chiedere al gruppo che mi ha invitato il rimborso delle spese, ho dovuto stipare il loro seminario in un giorno nel quale sono già a Roma per altre incombenze e incontri remunerati. Comunque è loro noto che sono al terzo impegno in un solo giorno. Ma la comprensione è da escludere. E non basta. Arrivano molto tardi un paio di donne: intervengono, come di solito fanno gli uomini che parlano senza nemmeno sapere dove sono capitati; introducono domande sull’universo mondo e astratte, che cerco di mettere a tacere ricordando che mi era stato chiesto di parlare delle matriarche, non dell’universo mondo. Non vi è scampo, finisce in una cena urlata: sono sempre più stanca, mangio appena, poi devo partire e me ne vado furibonda sotto la pioggia, senza che nessuna abbia nemmeno pensato a chiamare un tassi.
Non fa niente, ma pesa. Del resto lì alla Casa internazionale delle Donne accade un altro fenomeno di totale decontestualizzazione. Vi arriva, dopo secoli di assenza e forse anche di disprezzo e autosufficienza da donna di partito, Gloria Buffo e dà un quadro sconsolato della condizione delle deputate: ciò viene preso per oro colato e deposita una opinione di sconfitta generale e totale, che a me pare consumata per i partiti e le loro ideologie, forme e pratiche, non ancora per il femminismo e vorrei fare in modo che non avvenisse.
Fossero un po’ più matriarche le donne che stanno nelle sedi del potere e che non si sono mai sognate di tenere una relazione politica con i luoghi del femminismo!
L’altra totale non contestualizzazione è proprio nell’impresa Casa internazionale delle Donne, un edificio monumentale che con tredici anni di occupazione e di contrattazione e di lotta siamo riuscite ad ottenere per le donne e che ora è in restauro alle condizioni che abbiamo concordato col Comune di Roma. Non pare un successo da poco. Ma è ovvio che un edificio così, per essere gestito, comporta che si superino le lunghe pesanti opprimenti pratiche emergenziali degli anni passati e anche le forme di assistenzialismo pubblico cui ci siamo sempre un po’ appoggiate e ancora una sorta di egoistico attaccamento e come stigma femministico-mistico-scolastico: una impresa come questa ha bisogno di forze fresche, di rischio sia politico che culturale che imprenditoriale. Sono atterrita a sentire le clausole di tutela verso altre donne che vengono in mente a molte, se non a tutte.
E qui dico che non si può restare selvagge ma abitare la polis, quella delle donne: perciò bisogna fondarla, darsi regole e anche pratiche e forme di controllo verifica e mutamento e non andare avanti a capriccio (anche se tutto può sembrare giovinezza originarietà verità spontaneità: sono disposta anche a celare le mie stanchezze per favorire la crescita); e poi metto avanti un’altra riflessione. Ciò che ho tratteggiato fin qui non è solo mancanza di galatei, regole, comportamenti conformi, rispetto dei patti: è anche una certa meschinità che forse segna ancora il tempo dell’oppressione, povertà, esclusione. E insomma questa certa meschinità e invidia e diffidenza e costruzione di mostri e di immaginati complotti tra noi, mi cuoce davvero molto e non credo che dobbiamo più celare tutto ciò o comprenderlo come espressione del desiderio. Il desiderio va elaborato, se vogliamo diventare adulte: ricorrere a una sorta di perpetuo capriccio infantile (per l’appunto il desiderio non elaborato) è uno dei modelli più antipatici del femminile tradizionale o del piccolo-femminile (preferisco ovviamente le matriarche alle eterne bambine col grazioso cruccio in volto). Bisogna analizzare, rintuzzare, non avere pietà.
Dunque: perché succede una diffusa meschinità nelle nostre relazioni? In parte sarà perché anche noi siamo meschine, ma non più della media umana e dunque non si dovrebbe vedere tanto. Forse perché viviamo spesso in un Inondo chiuso, che per lo più suggerisce meschinità. Tutte le istituzioni separate ne sono ricettacoli, le caserme, i conventi, le carceri, le scuole, forse anche i luoghi del separatismo non funzionale ma selettivo e ideologico.
Penso tuttavia che per vincere la citata meschinità non servano gli appelli moralistici, tipo: siate grandi e generose; né le analisi psicologiche. Ma piuttosto una recensione di che cosa è il movimento delle Donne oggi e perché è così escluso. Dunque esistono un certo numero di donne in posizioni rilevanti, ministra degli interni, della sanità, degli affari sociali, della cultura, delle pari opportunità, delle regioni; vi sono anche sottosegretarie in ministeri importanti, e compaiono poco. Per lo più non sono state scelte da noi e hanno col movimento un rapporto discontinuo nella loro biografia e anche allentato, persino la ministra per le pari opportunità: è posslbile un investimento su queste donne? su tutte? su alcune? e quali? Ed è possibile fare proposte su come vanno scelte in futuro? Con delle primarie tra donne di vari schieramenti che poi contrattano con partiti e liste affini?
Poi vi sono le Commissioni per le pari opportunità, un luogo di confine tra istituzioni e movimento, visto che sono composte, almeno quella nazionale, di donne designate dai partiti, dai sindacati e donne delle organizzazioni non governative. Sono molto numerose e ramificate e non ben consapevoli del loro spazio e terreno. Forse bisognerebbe attribuire alle commissioni una qualche attenzione perché operano in quel terreno di diritti acquisiti, ma non attuati o rispettati o ricordati, che rappresenta un buon tramite con le donne più giovani.
Esiste infine il vero e proprio movimento, con sfumature differenti e variegate. Qui bisogna trovare (e si avvertono i sintomi che si cerca) una forma politica per contare essere visibili autorappresentarsi: è una cosa indecente che Dini o Di Pietro o Prodi, basta che aprano bocca ed esistono e noi non siamo nemmeno citate consultate. E’ triste che dimostriamo capacità di reazione, risposta, replica immediata forte diffusa appena ci succede un guaio, ma non siamo mai in grado di anticipare o prevenire il guaio: vale per la violenza, e le molestie, per le tecniche di riproduzione assistita, il lavoro, il patto sociale.
Non ne posso più. Mi dedico da tempo a promuovere una forma politica che rispetti le differenze, non le soffochi, eviti qualsiasi egemonia anche solo pensata. Chiamo ciò convenzione, la presento e la penso come una forma politica utile, funzionale, agile, non pesante: insomma spero di farcela prima o poi: non sarà il rimedio alla meschinità. Ma qualcosa sarà.
Lidia Menapace
Post scriptum:
Non ci vuole meno del latino per cavarmi d’impaccio. Avevo appena spedito il testo e il dischetto a Miopia, virtuosamente conscia di aver denunciato con efficacia e sentimento la selvatichezza delle relazioni tra Donne, quando mi arriva graditissima - lo stesso giorno - poche ore dopo la spedizione, malizia del tempo! - la dolce e sorridente lettera che accludo, più testo poetico “d’occasione” e altri a stampa di Elena Milesi che già a Roma aveva accompagnato il mio dire con sue parole.
A dimostrazione del fatto che davvero regna tra di noi la selvatichezza e nessuna - nemmeno chi la denuncia con persino un po’ di sussiegosa autosufficienza - ne è esclusa o immune. Forse - a proposito di regole per dare il via alla polis delle Donne, sarà il caso di dire sempre (a mo’ di avvio liturgico dei nostri incontri) che molte tra noi sono stanche per eccesso di impegni e scarsità di risorse. E ciò suggerisce di distribuire di più gli impegni e di cercare di accedere a risorse. E che debbono scappare via prima dl aver salutato, essersi civilmente accomiatate, perché abbiamo sempre qualcuno-qualcuna da “accudire”. E ciò suggerisce di impegnarsi perché una rete di servizi sia ricostruita, sia ricomponendo l’istituto sociale del buon vicinato, sia in forma pubblica personalizzata.
Insomma non voglio perdere l’occasione di far fiutare questa singolare vicenda che – se l’avessimo combinata - non poteva venire più precisa perfetta e alla fine simpatica, di come è accaduta. A dimostrazione del fatto che comunque anche le regole più minute non possono fare a meno della relazione e di una disposizione culturale profonda a relazionarsi. Ma le relazioni non essendo disincarnate hanno per l’appunto bisogno di tempo spazio parole denari voglie.
Grazie.
Lidia
Sperlonga, 12 marzo 1999
Gentile e cara Lidia Menapace, ancora mi scuso con te per la "fuga" del giorno 5 a via della Lungara: fra treno e macchina finisco per arrivare a notte (e mio marito è intelligente, ma bisognoso di cure...).
Mi piace mandarti Nostra Abadessa, nata grazie a te e al tuo intervento. Uno dei miei giochi seri che spero ti piaccia.
Ti unisco qualcosa di mio per farti notare che sono nata a Villa d’Adda, donde veramente parti una abadessa, figlia di Beniamino (l’ho battezzata Rotepalda e dovrò rivedere nella storia del convento il suo vero nome, che ora non ricordo).
Sono molto schiva e mi impedisco gesti, però questo te lo devo come a “ispiratrice”.
Grazie, Lidia. Tanti auguri, nell’attesa di nuovamente incontrarti.
Elena Milesi
Nostra Abadessa
De quondam Beniamino nata
a Villa de Adua - sette castelli trentadue torri-
nostra Abadessa Rotepalda
ha fondato casa agli Orti
e ci ha raccolto al suo servizio.
Solenne di potere
degna di diritti e privilegi
essa che legge scrive e tiene i conti
a noi provvede.
Nostra abadessa è nostra Madre - Patra
e al suo volere ci affidiamo noi
che non contiamo niente.
Noi le penitenti laviamo i panni
spazziamo i pavimenti.
Alla lustrissima
innecessitate chiediamo la licenza
di cambiare i legacci del grembiule
e sempre stiamo in obedienza.
Grazie a Deo l’abadessa
bada al nostro salvamento
ché ogni umiliazione
ogni stento che ci fiacca
ha per scopo di rivolgerci alla morte
e al beato paradiso