Gastone Redetti
Alma Venus
Miopia n.14, settembre 1992.
Alma terra natia
La vita che mi desti ecco ti rendo.
Leopardi
“Alma” significa “che nutre” ed ha la stessa radice della parola “alimento". Alma è dunque “nutrice", o meglio “nutritora", “alimentante”.
Questo aggettivo (in italiano usato raramente e solo nel linguaggio dotto e poetico) si trova declinato nel maschile “almo” (es. almo sole, “almus” in latino).
Questo maschile suona però strano: tutti abbiamo familiarità piuttosto con espressioni che riconducono la parola nell’àmbito femminile-materno. Valga per tutte “Alma Mater”.
Leopardi, riferendosi al concetto di debito e restituzione della vita, non parla di patria, ma di “alma terra natia”. In modo simile Foscolo invoca: “o materna mia terra”. La patria, terra del padre, ridiventa in questi due poeti la terra-madre, o la terra della madre, come era ancora nel concetto dei greci antichi, la cui lingua diceva “matria”.
Radicale è il riferimento alla grande dea madre antica nel poeta latino Lucrezio, che associa il significato potentemente materno della parola “alma” alla dea Venere (Alma Venus) e all’amore erotico.
Lucrezio, seguace di Epicuro, per il quale gli dei esistono solo in un intermondo e nulla hanno a che fare con gli umani, inizia stranamente il suo grande poema sulla natura con un inno (e una preghiera) alla Venere primordiale, la grande madre impersonale che nell’eros genera tutte le specie viventi:
Alma Venere, che sotto gli errabondi segni del cielo
popoli il mare ricco di navi e le terre che danno le messi:
poiché è per tua grazia che ogni specie animata
vien concepita e, uscita fuori, vede la luce del sole,
te, Dea, te fuggono i venti, te le nubi del cielo
quando è l’avvento tuo. Sotto di te la terra industriosa
pone fiori soavi, a te sorride la distesa del mare
e il cielo, placato, risplende di luce diffusa.
[
...] così, presa dalla grazia,
ti segue bramosamente ogni creatura lì ove tu la voglia condurre.
Infine per mari e monti e fiumi impetuosi
e frondose case d’uccelli e campi verdeggianti,
a tutti gli esseri insinuando in petto un carezzevole amore,
tu fai sì che nel desiderio ciascuno la sua specie propaghi.
Poiché la natura tu sola governi,
e senza te nessuno nasce alle divine spiagge della luce
né lieto o amabile alcuno diventa,
te cerco di avere compagna nello scrivere i versi
che mi sforzo di comporre sulla Natura
L’inno, dopo pochi versi, cambia tono. La forte tensione religiosa cede a una versione più recente, olimpica e omerica, di Venere-Afrodite. Nel lucreziano "fate l’amore non fate la guerra", Venere appare diminuita, asservita a una funzione: annullare la distruttività maschile. La sua potenza non è più panica, diventa signoria sull’animo del guerriero, signoria parziale e momentanea. Siamo già nella specializzazione culturale dei sessi e anche nella menzogna: l’amore erotico non ha mai fermato le guerre. Venere è ancora materna, ma non più reggitora del cosmo. La sua maternità è ora incanalata nella coppia a beneficio di un maschio adulto, guerriero in riposo, nella finzione di un beneficio universale.
Cionostante, nella descrizione dell’amplesso l’arte di Lucrezio fa riverberare l’antica potenza della Dea. Venere è “circumfusa super”, eroticamente potente e incombente. E il suo corpo è santo.
E fa sì che le feroci opere della guerra
s’assopiscano in terra e in mare.
Tu sola puoi con una pace tranquilla giovare
ai mortali, poiché le feroci opere di guerra è Marte,
il potente in armi, a governarle; lui, che spesso nel grembo tuo
si rifugia, vinto da eterna ferita d’amore:
la tonda nuca rovescia all’indietro e ti sogguarda
e anelando, Dea, a te, pasce d’amore gli avidi sguardi,
riverso, il fiato sospeso alla tua bocca.
E allora tu, divina, col tuo santo corpo avvinta
sopra lui che giace, effondi soavi parole dalla tua bocca,
e chiedi, o Gloriosa, una placida pace per i Romani.
1) De Rerum Natura vv. 2-25,15-25,29-40. Riferimento per il testo latino: Lucrèce, De la Nature, Société d’édition Les belles lettres, Paris 1966.