Sylvia Wetzel
Il buddhismo in un guscio di noce
Intervista a cura di Lilla Consoni, da Miopia n.28, Dicembre 1996
Sylvia Wetzel: un sorriso sempre pronto a trasformarsi in allegra risata, una voce piana, chiara, da oratrice consumata, che pure non perde la sua freschezza e spontaneità.
Beviamo del tè nella sua cucina-tinello inondata di luce. Siamo a Fridenau, quartiere berlinese considerato “elegante”, ma che a lei, come a me, piace perché silenzioso, verdissimo e ricco di case vecchie e solide.
Parte la prima, scontata domanda: Sylvia, potresti definire il Buddhismo in poche parole? Non fa una piega, è abituata a queste sconcezze giornalistiche:
«Se vogliamo far entrare il Buddhismo in un guscio di noce, possiamo sintetizzarlo cosi: 1) fai il bene; 2) evita il male; 3) conosci il tuo spirito. Dove la prima frase significa “fai ciò che per te e gli altri è buono”, la seconda “evita ciò che per te e gli altri è male”, e la terza “senti quello che succede in te, nel tuo corpo, nelle tue sensazioni, nei tuoi stati d’animo, nei tuoi pensieri”. Vorrei però precisare che “Buddhismo” è un’espressione occidentale; non esiste “il Buddhismo”, esistono gli insegnamenti del Buddha».
Come sei arrivata a quello che noi occidentali chiamiamo Buddhismo?
«Nel 1975, dopo un viaggio in Cina, ero passata dall’India, e ne ero rimasta colpita che avevo deciso di tornarci. Lo feci nel 1977, insieme con un gruppo di donne; quando le altre andarono via, io mi fermai a Calcutta. All’aeroporto di Hong-Kong avevo comprato un libro sul Buddhismo Tibetano, di cui prima non conoscevo neppure l’esistenza. Dopo pochi giorni in India, fui invitata a una cerimonia religiosa, un rituale con un Lama; la gente cantava una melodia monotona che a me ricordava il gregoriano. All’improvviso, furono serviti tè e biscotti: era come se la spiritualità passasse attraverso i sensi. Ricordo che a un certo punto, immersa nella strana nenia, sentii qualcosa di indefinibile, come un diverso stato di coscienza; il cuore mi si apriva: ero felice! Il cuore diceva sì, ed io trascorsi i due anni successivi a capire con la ragione questo sì».
Due anni passati in India?
«Un po’ in India e un po’ in Nepal. Davo lezioni d’inglese ai piccoli monaci, sistemavo la biblioteca, studiavo e meditavo. In Nepal ebbi un’esperienza che per me è ancor oggi un punto di riferimento. Nei pressi di Katmandu, la valle ai piedi della collina di Kopan si sveglia ogni mattina circondata dalla nebbia: il Kopan sembra sospeso tra le nuvole. Poi spunta il sole, e, come dal vuoto, dal nulla, vengono fuori pian piano qui un tetto, li un albero; man mano che la nebbia si dirada, l’intero paesaggio si svela e si fa concreto: ogni mattina! Simbolicamente, per me, ciò significava – e significa – due cose: 1) la verità viene dall’aprirsi; 2) di là dalle nebbie delle emozioni distorte, c’è sempre il cielo blu del Kopan.
Quest’esperienza fisica, materiale, agiva ogni giorno su di me, ricordandomi che c’è un Kopan interiore, lontano, aperto, dove splende il sole: un simbolo della chiara natura dello spirito, mentre le nuvole, la nebbia, sono quelle emozioni eccitate, quei pensieri, quelle aspettative che oscurano siffatta chiarezza. Quando mi trovo nella valle nebbiosa, posso sempre salire sul monte ed esperire l’azzurro».
Restiamo in silenzio per alcuni minuti, la tazza fumante del tè in mano. Dimentico persino di bloccare il registratore, presa come sono da questa suggestione nepalese; lontana, sfumata, la sopraelevata passa sferragliando. Cos’hai fatto dopo questi due anni? – chiedo infine, riscuotendomi.
«Sono tornata a Berlino, dove ho ripreso il mio vecchio lavoro, l’insegnamento del tedesco agli stranieri; ma stavolta indossavo pantaloni di seta e gilè di broccato, e portavo appeso al collo un distintivo buddhista. Dopo un anno e mezzo mi sono trasferita in Baviera, dove, insieme con alcune persone vicine al mio “indirizzo”, ho dato vita a un Centro Buddhista. Li ho vissuto otto anni, traducendo libri di spiritualità dall’inglese in tedesco, facendo l’interprete durante i seminari, cucinando, facendo le pulizie. Con il tempo, ho cominciato io stessa a dare dei corsi, sempre mantenendo il mio ruolo di direzione e amministrazione del Centro. Nel 1983 ho fondato con una collega una Casa Editrice specializzata in testi buddhisti, che esiste ancora».
Sorride contenta, giustamente orgogliosa dei frutti de] suo lavoro. Le chiedo di raccontarmi ancora di sé. Mi parla delle sue traduzioni per case editrici famose, e dell’attività presso l’Associazione Centrale dei Buddhisti Tedeschi, che riunisce trenta diverse associazioni e pubblica la rivista “Fiori di loto”, di cui lei è redattrice e coordinatrice. Questo è il tuo presente; vorrei però sapere della tua esperienza come monaca buddhista – dico sentendomi in qualche modo una guardona dell’altrui passato. Lei ride del mio evidente imbarazzo, e attacca una storia che di certo ha già narrato mille volte:
«Dopo otto anni al Centro Buddhista, sentii il bisogno di vivere più intensamente la mia spiritualità, e così scelsi la via indicata dalla tradizione (e che una suora cattolica, entusiasta e felice, mi rivelava feconda): mi feci monaca. Fui ordinata in Baviera, da un Lama, il 15 agosto 1985. Per due anni, continuai la mia solita vita, sforzandomi “di essere sola emozionalmente” : ciò significa aspettarsi la felicità da dentro, e non dal rapporto con gli altri. Poi, insieme con un’altra monaca, mi recai in Nepal per sei mesi. Al mio ritorno in Baviera, capii che quell’esistenza non era per me».
Perché, Sylvia?
«Perché io ho bisogno di rapporti amorosi, di contatti corporei. Avevo vissuto fino all’estremo limite il mio lato ascetico, ma questo non è il mio stile di vita. Notai la necessità di relazionarmi con un’altra persona, e quella – parimenti forte – di non portarmi appiccicata addosso l’etichetta di “buddhista”. Un grosso problema, quand’ero monaca, era che la gente mi metteva su un piedistallo, mi teneva a distanza e pretendeva ch’io fossi già mezzo “illuminata”: lo status di monaca attira molte proiezioni. Come laica, mi sento più autentica che come monaca».
Sgranocchiamo rumorosamente qualche biscotto (il nastro registrato ne recherà indelebilmente le tracce!), poi passiamo al tema "Donne e Buddhismo", che a Sylvia, come a me, sta particolarmente a cuore. Ha scritto, sull’argomento, un volumetto dal titolo "Frauen und Buddhism". Lei, mi dice, viene dal femminismo; ha suonato in una band di donne e ha lavorato presso la “Courage”, famosa rivista femminista berlinese, che ora non esiste più. E sin dall’inizio, nella sua formazione buddhista, c’è stato un contatto con una divinità femminile.
«Mi trovavo in india da soli quattordici giorni – racconta – quando fu annunciata una serata sulla dea TARA, la liberatrice; andai, e ne appresi la storia, così come da secoli viene tramandata dalla tradizione buddhista tibetana. Tara era una donna come noi, una comune mortale, in un altro tempo e in un altro mondo: una principessa, naturalmente, come tutte le figure centrali del Buddhismo (voglio solo dire che tali figure, maschili o femminili, appartengono sempre a nobili schiatte). Avendo raggiunto lo stadio in cui poteva determinare la sua successiva incarnazione, fu esortata da un amico a scegliere un corpo maschile, perché alcune scritture sostenevano che solo un uomo può ottenere l'illuminazione. Tara però scelse di rinascere donna, sicura che anche una donna può essere illuminata: voleva fare da modello soprattutto alle donne... Bene, quando sentii questa storia, mi dissi: questa è una “pulita” argomentazione femminista, in questo indirizzo spirituale c'è posto per me! ».
Ridiamo. Le chiedo di spiegarmi in breve che cosa sia la cosiddetta “Tara-praxis”, di cui ho già sentito parlare.
«E' una meditazione. Ci si immagina una donna forte, liberata e libera – una Dea – e si visualizzano le qualità di lei, ci si lascia ispirare da questa figura. La meditazione va ripetuta ogni giorno per un lungo periodo, o per sempre, se si vuole. Se, dopo un paio di mesi, vediamo che le nostre azioni e i nostri pensieri si ispirano davvero a Tara (cioè alla Dea che è in noi), cominciamo ad avere un sentore della forza del nostro spirito. La Tara-praxis è una prassi efficace, cui mi dedico da diciotto anni e che insegno ad altre donne».
Già. I corsi, i seminari... Sylvia, oggi, vive prevalentemente della sua attività di “insegnante spirituale” (oltreché di articoli e traduzioni). Sono molte le donne che corrono ad ascoltarla.
«Il mio primo corso per donne risale al 1981 ; da allora, ho avuto inviti in parecchie città della Germania. Attualmente do diversi corsi all’anno solo per donne, qui a Berlino».
Perché questo separatismo?
«Non è separatismo. Ho tenuto e terrò ancora seminari misti. Ma in prevalenza i miei corsi sono al femminile, per due motivi: 1) ci sono più richieste da parte delle donne; 2) ho notato, guidando corsi misti e corsi solo per donne, che questa ultime partecipano con una qualità diversa quando sono “tra di loro”. Nei misti, c’è una sorta di tensione, causata da: a) livello erotico, flirt; b) conflitto, rifiuto; c) cura materna delle femmine nei confronti dei maschi. Se ci sono in atto tali strategie, non si rimane “centrate”, ci si distrae. Ecco perché preferisco fare corsi solo per donne».
Il Buddhismo trasmesso da una donna è diverso dal Buddhismo trasmesso da un uomo?
«Il Buddhismo viene da secoli insegnato da maschi, che usano, ovviamente, un linguaggio maschile; per esempio, adoperano similitudini a base di re, cavalli, guerrieri, ecc. Le strutture emozionali collegate a quest’insegnamento sono maschili, così come i pensieri. Tutto è visto attraverso gli occhi di un uomo.
Così, se si parla di rabbia, è una rabbia marcata, esplosiva, che usa violenza; se si parla di desiderio, è il desiderio di una persona decisa, che sa ciò che vuole ed afferra questo o quello. Non vengono nominati stati d’animo o atteggiamenti come la depressione, o l’aspettare di essere desiderate, l’aspettare di essere “afferrate”. Le esperienze e lo sguardo di una donna non vengono presi in considerazione dagli insegnamenti ufficiali; nel mio lavoro con le donne, tiro fuori ciò che ufficialmente non viene tramandato: impariamo a guardare le nostre strutture emozionali, i nostri muscoli contratti, la nostra autostima, e a cambiare tutto ciò in modo che porti alla gioia ed eviti il dolore».
Ma che ruolo ha la donna nel Buddhismo? Può aspirare a cariche importanti, a posizioni di prestigio?
«Il ruolo delle donne nel Buddhismo è tanto rilevante quanto lo è il ruolo delle donne nella società in cui vivono. Il Buddhismo può aiutare la crescita individuale delle donne, non quella sociale. In Sri Lanka la donna deve seguire l’uomo a due passi di distanza, in Tibet no. In Asia l’insegnamento buddhista è prerogativa maschile, fatta eccezione per quei paesi a forte tradizione monastica femminile: la Korea ha un’Università delle Donne, Taiwan ha tantissimi conventi di suore, e quindi non mancano le insegnanti. In Giappone, le donne possono dirigere templi, anche se sono sempre i più piccoli che vengono lasciati loro. In Occidente, le donne hanno maggiori possibilità di accedere alla cultura e di “mostrarsi” in pubblico, e ciò si rispecchia nella corrispondente organizzazione buddhista, dove però gli uomini dominano ugualmente; più in alto vai nella gerarchia amministrativa, più maschi trovi. Dagli insegnamenti del Buddha non scaturisce alcuna ragione per discriminare le donne, ma un’affermazione canonica del Buddhismo è che le donne non possono diventare “Lehr-Buddha”. Il mio personalissimo parere è che i maschi compensino l’invidia del parto: non possono partorire, però possono diventare “Lehr-Buddha”!».
Mi è parso di capire che i tuoi seminari e le tue serate di meditazione non hanno come scopo il proselitismo...
«Per carità! Il 50% delle donne che frequentano i miei corsi non è buddhista e non vuole diventarlo, ma medita a casa propria ogni giorno. Ciò significa che molte possono trarre vantaggio da quest’orientamento, senza definirsi ideologicamente “buddhiste”; questa è, tra l’altro, una qualità intrinseca all’insegnamento del Buddha, che ha raccomandato di non attaccarsi alle dottrine. Ho letto in proposito un discorso del Dalai Lama, il quale dice, all’incirca: non m’interessa che il Buddhismo si affermi ancora di più, m’interessa che esso aiuti sempre più gente ad essere felice e pacifica».
La parola “pacifico” mi fa venire in mente, per contrasto, la setta giapponese del “sarin”, quella della strage nella metropolitana; le domando se persone così si possono chiamare buddhiste.
«Il vero Buddhismo non è mai violento. Se il nucleo del Buddhismo è, come abbiamo detto all’inizio, fare il bene, evitare il male e conoscere se stessi, se, in questo orientamento, nessun mezzo che provochi sofferenza può essere giustificato dal fine, allora quella setta giapponese non ha il diritto di dirsi buddhista. Il vero Buddhismo è vaccinato contro il dogmatismo, perché sa che le credenze religiose sono come il dito che indica la luna, e si tratta sempre di guardare la luna, non il dito!».
Sylvia, posso tornare al privato, e chiudere con una domanda un po’ indiscreta? Gli occhi azzurro-cupo mi guardano divertiti, in attesa, mentre la testa incorniciata d’argento si china in un assenso. La condizione monacale non ti consentiva, hai detto, di avere una relazione amorosa a due; la stai vivendo, adesso? Sorride, forse intuendo che la mia non è una curiosità fine a se stessa; vorrei sentire da questa donna profondamente spirituale, viva e sensuale, un parola diversa sull’amore, sulla coppia. Vengo prontamente accontentata:
«Sì, attualmente ho un rapporto stabile, ed abito con la persona che amo. Questo mi fa bene, corrisponde alla mia natura e non mi distrae per nulla dalla mia spiritualità. Tra l’altro, noi meditiamo insieme ogni giorno, Non potrei immaginarmi di vivere con qualcuno che non condivida i miei interessi spirituali. L’altra persona non è la causa della mia felicità/infelicità; può aiutarmi nella mia crescita, ma la mia realizzazione non dipende da lei. Così è più facile capire le debolezze, le incompiutezze: se non mi aspetto da te la mia gioia, non ho pretese fuori luogo, ed avremo più possibilità di essere felici insieme».
Adesso, la lunga intervista è proprio finita. Sylvia Wetzel mi ha regalato due ore di serenità, forza e sapere di donna. Esco dal suo portone leggera e danzante. E, per un momento, Berlino, il Nepal, l’India mi sembrano confondersi in un caleidoscopio pazzo e colorato.
Lilla Consoni