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Sylvia Wetzel

La madre, maestra di gioia e di sofferenza

Intervista a cura di Elena Fogarolo, da Miopia n.35, Maggio 2000,
numero monotematico UNO SGUARDO AD ORIENTE.
Traduzione dal tedesco di Alice Redetti.

 

 


Sylvia Wetzel, Bangkok 2008
Sylvia Wetzel, Bangkok 2008
(Link da www.sylvia-wetzel.de)

Vorrei sentire la tua opinione sui rapporti tra buddhismo, esperienza della maternità, corporeità femminile...

 

La tradizione parla ben poco della maternità, perché l’ideale della tradizione theravada1 è l’uomo come monaco, e quello della tradizione mahayana2 è l’uomo come bodhisattva. Le donne nel buddhismo ci sono, ma solo se abbastanza assimilate agli uomini. Nel tantrismo3 le donne hanno una posizione speciale, ma le yogini dedicano molto tempo alla meditazione, e quindi non possono avere famiglia.

Solo nel buddhismo occidentale si comincia a parlare di tali questioni, perché le condizioni dell’esistenza sono completamente diverse.

In Asia, quando si allevano dei figli, non c’è assolutamente tempo per meditare, dato che le donne si trovano a lavorare anche 16-17 ore al giorno. Così ci sono due sole alternative: il celibato, che permette una religiosità attiva, e la vita in famiglia. Ma la donna che ha famiglia può meditare pochissimo, anzi normalmente non medita per nulla.

È per questo stato di cose che non si parla della vita della madre nel buddhismo. Sono le condizioni sociali, che fanno sì che i soggetti della vita spirituale in Asia siano gli uomini. Del resto Buddha, il grande modello, cos’ha fatto? Era sposato con un figlio, ha detto “arrivederci” e se ne è andato. Per la moglie non era un problema, perché la famiglia era comunque ricca. Ma il gesto del Buddha stabilisce un principio: è necessario non avere famiglia, figli. Il soggetto religioso è colui che può dire “arrivederci”. Se entri nell’ordine, tagli le relazioni con la famiglia. Non scrivi più a tua madre nemmeno per il suo compleanno... appartieni a un’altra famiglia, la famiglia del Buddha. I monaci sono i tuoi nuovi fratelli e sorelle.

In occidente le condizioni dell’esistenza sono diverse: noi lavoriamo 35-40 ore alla settimana, e spesso abbiamo la possibilità di lavorare per un periodo tutto sommato breve rispetto alla durata della vita, e pertanto si ha veramente la possibilità di praticare la meditazione anche se si ha famiglia. Personalmente non sono monaca, ma non sono nemmeno “laica”. Situazioni così in Asia non esistono. Ho molto tempo per meditare e studiare, cosa che un’asiatica potrebbe fare solo come monaca.

È una situazione nuova. Credo che una donna abbia grandi potenzialità di sviluppare le caratteristiche di bodhisattva anche vivendo in famiglia.

 

Pensi che questa potenzialità riguardi tutte le donne o solo quelle dotate di un forte carattere?

 

Tutte le donne, purché abbiano determinazione e un po’ di comprensione che realtà non è solo “io”, che soggetto e oggetto sono interconnessi. A queste condizioni le qualità di bodhisattva sono perfettamente realizzabili nella vita quotidiana: non fare del male, aiutare, essere generosa, essere forte, saper provare gioia per “ciò che è”, essere paziente, avere concentrazione... Per quest’ultimo punto, la concentrazione, che riguarda poi la meditazione formale, ci sono effettivamente delle difficoltà per una madre, che deve concentrare la meditazione nei pochi momenti di tempo libero. Ma la mia esperienza mi dice che le donne con bambini piccoli sono proprio quelle che meditano meglio, sono le più disciplinate perché sanno di non potersi permettere di sprecare la sola ora in cui hanno la possibilità di meditare. Secondo la mia esperienza le donne senza bambini hanno più difficoltà a meditare. Le donne con bambini hanno più determinazione a meditare e una grande disciplina. E la comprensione dell’interrelazione tra tutte le cose è una saggezza della donna. Perciò dico alle mie meditanti che sono madri: “Tu ora pratichi le sei perfezioni del bodhisattva, non la concentrazione meditativa, questa verrà più avanti, quando i figli saranno più grandi”. Queste giovani donne si sentono molto sorrette dalle mie parole.

Il discorso fatto per le madri vale poi per tutte le persone che lavorano nel sociale, insegnanti, assistenti sociali, medici, terapeuti... il quotidiano è il luogo dove si può fare pratica. Meditazione “diretta”! Meditazione messa davvero in pratica.

 

Tu sai bene che molte donne dopo il parto soffrono di depressione, e molte non guariscono più. Credo che ciò dipenda dalla radicalità dell’esperienza del parto, che spezza il concetto culturale dell’io e fa toccare alla donna la realtà della non-separazione tra soggetto e oggetto, senza che vi siano mediazioni culturali per la comprensione di tutto questo. Il buddhismo potrebbe essere una mediazione valida. Hai qualcosa da osservare sulla base della tua esperienza?

 

Credo che ogni forte situazione esistenziale, l’incontro con la morte, l’incontro con la nascita, le grandi gioie, la sessualità, siano momenti in cui il concetto dell’io svanisce. Ma quando comprendi che l’io è molto fluido, e che quindi può morire, ciò può far sorgere anche una grande paura. Con me hanno meditato diverse donne con figli. Molte hanno definito il parto come un’esperienza molto spirituale, specialmente le donne che meditavano già prima del parto, e che dicono che la meditazione aiuta molto. Una mia amica ostetrica, che è una meditante, tiene un corso di meditazione prima durante e dopo il parto. E questo è di grande aiuto per la depressione dopo il parto. Possono utilizzare quest’esperienza in modo speciale. È un vero “salto” di conoscenza.

 

So che tu conosci il percorso di Luisa Muraro, in particolare le sue riflessioni sulla madre... Come il parto, anche la successiva attività della madre è “spirituale”, non limitata al mero accudimento, ma essenziale nella cura del mentale dei bambini. La madre mette in relazione il bambino con la natura, i fenomeni cosmici, gli animali...

 

Sì, la madre è la prima “maestra”. Il Dalai Lama dice: “quando la madre è religiosa, essa ha una grande influenza sulla mente dei bambini”. I bambini piccoli hanno una mente estremamente aperta, e la madre supporta questa loro apertura.

 

Un’altra cosa. La madre insegna l’interessere, la connessione “positiva” tra gli esseri. Insegna la compassione, la gioia, che il mondo è bello e che ci si può fidare. Cosa pensi del fatto che il buddhismo accentua la questione della sofferenza? Che rapporto c’è con la madre, che insegna la gioia?

 

Anche la madre insegna la sofferenza, perché ci sono delle situazioni in cui il bambino o la bambina soffrono e la madre spiega “non posso liberarti da questa sofferenza”, la sofferenza è normale, fa parte della vita, ma anche finisce, non è eterna. Così la madre può insegnare come trattare con abilità la sofferenza. Insegna entrambe le cose. Come la Dea in India: insegna la vita e la morte perché sono uno. Io credo che la grande importanza che il buddhismo assegna alla sofferenza si può leggere a più livelli. C’è un livello di resistenza alla vita: “no! La vita è samsara, è confusione, è negativa”...

 

È come nel cristianesimo...

 

Sì, credo che sia la religione dei monaci, che è antidonna. Poi c’è un altro livello molto praticato, e che dice: “quando tu cerchi la gioia, e dici che non esiste, sei un folle. Ma se cerchi la gioia eterna nelle cose impermanenti è un errore. Cerca la gioia quando la gioia esiste: nel cuore aperto, nello spirito chiaro, nella comprensione, nella meditazione, nella concentrazione. Esiste la gioia, ma quando cerchi la gioia nel the, nel giardino, nella gente, è un errore. Quando pensi che l’esteriore può dare la gioia eterna, è un errore”. Credo che quando comprendi questa relazione le cose esteriori possano aiutare, ma il cuore aperto e lo spirito chiaro sono la prima causa della gioia. E quando la madre comprende questo, può aiutare il figlio a vivere abilmente, a vivere con le cose, senza pensare “queste cose mi danno la gioia eterna” o “se non posso vivere con te, è la morte”.

Così tutto dipende da chi è la persona a cui domandi quale è il messaggio della sofferenza. La tradizione ne parla con accenti diversi. Per le tradizioni molto ascetiche “la vita è un problema”...

 

In conclusione, credo che soprattutto tre aspetti del buddhismo possano aiutare le donne. Il primo consiste nel comprendere la connessione tra condizioni esterne e cause interiori, comprendere cioè come siamo noi stesse a permettere che ciò che è “esterno”, un uomo, un’altra donna, la società, abbia potere su di noi. È la dipendenza che crea il potere. Per me è molto importante capire che il potere nasce senza un oppressore esterno. Sono “vittima”, completamente dipendente. Ma posso fare qualcosa: riconoscere l’importanza delle cause interiori è importantissimo per dissolvere teoreticamente l’atteggiamento di vittima. Se penso che la realtà economica e la società sono forze determinanti, sono vittima, sempre. È chiaro che non tutte le donne hanno lo stesso coraggio, ma è proprio per questo che è necessario l’insegnamento del buddhismo così come del femminismo: relazioni con le altre donne a livello orizzontale e verticale di donna-maestra, che aiutano le donne a sviluppare coraggio, fiducia in se stesse... ma è necessario comprendere sul piano teorico che l’interiorità è determinante nel “creare” la realtà.

Il secondo aspetto è l’importanza dell’attenzione che il buddhismo assegna a tutti i livelli della vita: il corpo, le emozioni, i sentimenti, i pensieri, le sensazioni. Questo aiuta tutte le donne.

Il terzo aspetto ci viene dal buddhismo tantrico, ed è la presenza di donne divine, perché anch’io come te credo che le donne abbiano bisogno di una figura femminile più grande, ad un altro livello, come uno specchio che mostri le qualità nascoste. È una concezione esplosiva. Credo che possa aiutare.

Sylvia Wetzel

1) Corrente buddhista della scuola del Piccolo Veicolo (Hinayana), attualmente diffusa soprattutto nell’Asia sud-orientale e che ha esercitato una notevole influenza sul buddhismo occidentale.

2) Mahayana, o Grande Veicolo, è una delle due grandi correnti del buddhismo, contraddistinta dal concetto di bodhisattva, colui che rinuncia alla immediata salvezza individuale a causa della compassione per tutti gli esseri, alla cui salvezza si vota. Nell’ambito di questa corrente, alcune scuole sostengono che tutti gli esseri viventi sono chiamati senza eccezione alla condizione del Buddha, in quanto in essa latente da sempre. Appartengono al Grande Veicolo scuole molto diverse tra loro, come il buddhismo tibetano (lamaismo) e lo zen.

3) Insieme di dottrine induiste non ortodosse, basato sull’aspetto femminile della divinità, e che sostiene l’identità di spirito e materia, di anima individuale e universale. In epoca tarda il tantrismo ha influenzato anche un settore del buddhismo tibetano, in cui la raffigurazione dell’unione sessuale tra maschio e femmina assume un particolare significato simbolico e mistico.

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