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Lilla Consoni

Il filo della vita

La fiaba delle “Tre filatrici” come ricordo delle “Dee del Destino” e come testimonianza del passaggio dalla fase matriarcale a quella patriarcale

Da Miopia n.28, dicembre 1996

 

C’era una volta una fanciulla pigra, che non voleva mai filare, nonostante i rimproveri della madre; questa un giorno, giunta al culmine dell’ira, la picchiò. In quel momento passava di lì la regina, la quale udì un pianto e si fermò per chiederne la causa.

La madre, vergognandosi della pigrizia della figliola, mentì, dicendo che aveva dovuto punirla perché non la smetteva più di filare. La regina, allora, si offrì di portare con sé la ragazza, il cui zelo l’aveva colpita. Così la nostra si ritrovò al castello, con una montagna di fibra da filare (più la prospettiva di sposare il principe ereditario se tutto fosse andato bene), e pianse per tre giorni di seguito. Alla regina, venuta a controllare il suo lavoro, disse che aveva nostalgia di casa; la sovrana le ordinò di finire l’opera entro l’indomani.

La ragazza, rimasta sola, andò alla finestra, e da lì vide tre donne avvicinarsi: la prima aveva un enorme piede piatto, la seconda un enorme labbro inferiore, la terza un pollice gigantesco. Le tre domandarono il perché del suo turbamento e, saputolo, le promisero aiuto. “Tu, però, ci inviterai in cambio al matrimonio, ci farai sedere al tuo tavolo, e senza vergognarti di noi ci chiamerai zie”.

La fanciulla si dichiarò d’accordo, la filatura fu eseguita e si celebrarono le nozze, al cui banchetto furono invitate le tre bizzarre “parenti”, che la sposa accolse con calore.

Il principe, spaventato dai presunti legami di sangue fra sua moglie e queste orrende vecchie, chiese ad ognuna di loro la ragione della sua malformazione. Ciascuna addusse il filare come origine dei propri mali: far passare il filo fra indice e pollice, leccare tale filo, azionare col piede l’arcolaio...

Lo sposo, sconvolto, proibì alla consorte di esercitare in futuro una simile perigliosa attività. E vissero felici e contenti (?!).

 

Fin qui la fiaba. Ed ora il commento.

Come si vede, si tratta di una narrazione dove le donne sono protagoniste (la madre, la figlia, la regina, le tre filatrici), ma solo fino all’apparire del maschio (il principe ereditario), che dice l’ultima parola, e conclude la vicenda. Le donne filano, non filano, sgridano, piangono, comandano, scelgono spose per i figli: ma poi questi figli vogliono per sé il palcoscenico, e di colpo il tono cambia, il sipario cala. “Lui” si permette di porre domande indiscrete, di stabilire ciò che è bello e ciò che è brutto (... queste tre zitelle deformi, così poco femminili), e infine di vietare alla moglie un’occupazione che potrebbe renderla meno avvenente. Il potere passa in mano agli uomini, che recano nuovi valori e nuove categorie. Naturalmente, la fiaba si presta anche ad altre letture, e, nella sua arguzia, fa sorridere quante, solidarizzando con la ragazza “pigra”, tirano un gran sospiro di sollievo nel gran finale liberatorio, dove lei viene dispensata dalla fatica del filare.

Ma proprio qui, nel doppio significato delle “opre femminili”, sta un nodo importante della nostra storia di donne, stanno salvezza e dannazione. Il filare, il tessere, il cucinare (il trasformare insomma la materia, in un’ottica di continuazione della vita) sono attività di tutto rispetto, se condotte in un determinato contesto e con un determinato spirito, mentre diventano schiavitù e sfruttamento se cambia “l’orizzonte di significanza”.

Si badi, per inciso, che in questa fiaba è la moglie del principe ad essere esonerata dal lavoro: le altre (la carne da macello, le brutte, le non amate dal maschio) dovranno faticare, eccome!

Molte attività manuali sono profondamente simboliche e rituali, ed avevano un posto particolare nelle civiltà pre-cristiane, in cui il sacro e il quotidiano (il “profano” non esisteva) si toccavano e si compenetravano (1).

Ma torniamo alla nostra fiaba, dove le tre filatrici altro non sono che tre dee, le più antiche e le più potenti: le dee del destino.

Quasi tutte le mitologie conoscono una simile triade; così abbiamo le Norne nella mitologia germanica, le Moire in quella greca e le Parche in quella latina (2). Le Moire erano Cloto, Lachesi ed Atropo; la prima filava il filo della vita, la seconda lo misurava, la terza lo recideva. Sembra che queste tre figure, in origine, fossero riunite in quella di Afrodite, una dea madre, grande e temibile, sulla quale a scuola abbiamo imparato parecchie baggianate (3). Particolarmente interessanti sono i nomi delle tre Norne: Urd, Verdandi, Skuld. La parola “Urd” Viene dai più ricollegata a “Erde” (tedesco per Terra), e si considera inoltre imparentata alla radice germanica “wyrd”, destino... Non a caso gli Indiani d’America e non solo loro vanno ripetendo che il nostro destino dipende dalla Madre Terra e dal trattamento che le riserviamo! (Per altri, “Urd” significa “die Gewordene”, cioè colei che è diventata).

“Verdandi” vuol dire “die Werdende”, cioè colei che diviene (e che, divenendo, è), e “Skuld” si può tradurre con “colei che sarà” (4).

Come si vede, ritorna la Dea nei suoi aspetti di Nascita-Sviluppo-Morte, una Dea ritenuta “Una e Trina”. Del resto, tutte le varianti delle “Dee del destino” hanno la loro origine nella Proto-Madre indoeuropea Kali-ma.

Un ultimo suggerimento “erudito” a proposito di destino: considerate il rapporto tra “fata” e “fato”! Non è un gioco di parole, né una mia faziosità. Nell’inglese antico, esistevano i due vocaboli “fate” (dea del destino) e “fairy” (fata), che nel Medioevo divennero sinonimi, ma “per riduzione”, scomparsa la dea, rimase la fata. Oggi si usa solo il termine “fairy”, nell’accezione, appunto, di “fata”.

Ed ora, fatalmente (!), torniamo ad occuparci di questa benedetta filatura, che ha ancora molto da rivelarci.

Da fiabe, racconti popolari, miti ed usi, possiamo evincere che il filatoio (5) era una sorta di luogo sacro, dove continuavano in vigore le leggi della grande dea. Non a caso la chiesa, in Germania, si scagliò con inaudita violenza contro le cosiddette “Spinnstuben”, cioè stanzoni, o casupole, dove le ragazze si riunivano per filare, e dove vivevano insieme dall’autunno inoltrato sino alla candelora (o, a volte, fino a Pasqua). In questi chiusi spazi femminili si cucinava, si narrava e si cantava in pieno separatismo. Situazione ideale per catalizzare le fantasie morbose dei maschi! Una raccolta di usi e tradizioni popolari uscita a Wiesbaden nel l874 riporta una “cronaca” del 1790, in cui un ecclesiastico dipinge a tinte fosche tali “Spinnstuben”, chiamandole “luoghi di perdizione e sedi del demonio” (6).

L’ultima “strega”, Anna Goldi, era stata bruciata nel 1782. Ma i filatoi resistevano ancora. Ai preti rimanevano solo le calunnie e le invettive perché non potevano mandare al rogo le filatrici, così come avevano fatto con le levatrici e le guaritrici; quasi tutte le donne, allora, filavano: non si poteva di certo decimare l’intera popolazione femminile!

Una traccia dell’odio maschile patriarcale nei confronti di arcolai, rocche e conocchie si trova nella “Bella addormentata”. Vi ricordate dell’editto reale con il quale s’imponeva di bruciare tutti i fusi del regno? Furia iconoclasta, persecuzione della Tredicesima Fata! (Tredici, come i mesi del calendario lunare; Fata, cioè dea del destino). Ma la Vecchia è più furba del re, e si rifugia sulla torre col suo fuso. Segno della pervicacia di noi donne, e del perdurare del culto della Dea (in luoghi nascosti e segreti). Ma cosa succedeva in realtà nei filatoi? Il fuso, nelle fiabe, viene spesso posto in relazione con il sangue (cfr. “Frau Holle” e “La Bella Addormentata”), cosa che agli interpreti uomini è sembrata ovviamente un riferimento alla penetrazione e alla conseguente rottura dell’imene. Noi siamo stufe di queste appropriazioni, e ci rifiutiamo di considerare simbolo fallico tutto ciò che è allungato e punge! Se il filare è attività femminile, segno dell’opera della grande Filatrice, se le donne si riunivano in appositi luoghi appartati per lavorare e abitare insieme, se i re delle fiabe odiano i fusi, non abbiamo il diritto di escludere il pene dalle nostre ipotesi?

Nell’area linguistica anglo-germanica manca una parola per “verginità”, e questo è già illuminante. La “jungfräulichkeit” del tedesco e in realtà la “giovinezza”, la condizione di ragazza, e solo con una forzatura il termine “jungsfrau” (donna giovane) è diventato sinonimo di “vergine”. Gli antichi Germani punivano i violentatori indipendentemente dall’imene della vittima; non contava se la donna era vergine o no: lo stupro era sempre reato, in quanto coartazione dell’altrui volontà.

Tutto questo per dire che, in un contesto dove la “verginità” non è un valore, in un contesto a forte valenza matriarcale, è impossibile che si enfatizzi tanto la deflorazione da parte del maschio, al punto da inserirla, se pur allusivamente, nelle fiabe. (Ricordiamo per inciso che le fiabe sono antiche quasi quanto i miti, sono “brandelli di mito”).

E allora? Allora non è insensata l’ipotesi di una deflorazione culturale. Secondo una legge tramandata nei secoli (una legge della Grande Madre), nel chiuso dei filatoi, la più anziana deflora la più giovane, preparandola al ruolo di donna. È questo il legame indicibile fra il fuso e il sangue? Forse siamo un po’ folli, noi donne-interpreti-di-fiabe, noi che ci ostiniamo su sentieri impervi e sconosciuti, sostenendo le teorie più insolite...

In tedesco, ad ogni buon come, il verbo “spinnen” significa tanto “filare” quanto “dare i numeri”!

Lilla consoni

 

1) Per gli antichi Germani, ad esempio, i tessitori erano anche sacerdoti.

2) Altre “trinità” sono: le Zorya dei popoli slavi, le Tre Dame Bianche degli Zigani, la triplice Guinevere o Brigit dei Britanni, le Morrigane degli lrlandesi.

3) La sua riduzione a Dea dell’Amore è un tipico procedimento patriarcale. Notizie alternative si trovano nell’opera di Bachofen sul matriarcato e nei Miti greci di Graves.

4) “Skuld” e una variante di Skady, la Dea Madre che ha dato il nome alla Scandinavia.

5) Non stiamo parlando della filanda, né di altri simili stabilimenti nati dalla rivoluzione industriale.

6) Birlinger, Anton: Sitten and Rechtbräuche, pp. 359-362, Wiesbaden l874.

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