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Elena Fogarolo

La generazione delle Erinni

L'insufficiente elaborazione simbolica della ribellione sessantottina

Da Miopia n.8, aprile 1991

 

Come è noto Oreste, figlio di Clitennestra e di Agamennone, uccise la madre. Dopo tale gesto impazzì e vagò a lungo per l’Attica inseguito dalle Erinni, protettrici e vendicatrici dei legami di sangue. Infine gli dei pietosi guarirono Oreste, che ritornò alla sua casa per una vita normale.

Mi sembra che poco si sia indagato su quel che ha significato la rottura fra generazioni avvenuta verso la fine degli anni sessanta. Anche il famoso movimento studentesco di quegli anni viene in genere valutato alla stregua di un normale accadimento politico.

Nel constatare quanti di quei giovani poi si siano “sistemati” in modo quanto mai conformistico e incoerente rispetto agli ideali della giovinezza, si tiene troppo poco presente il significato mitico di quella rottura.

Ognuno dei giovani che si ribellarono al cosiddetto “sistema”, si ribellò innanzitutto ad una singola famiglia. Furono detti infiniti “no” a padri che pretendevano il rientro ad una certa ora, i capelli tagliati in una certa maniera, l’abbigliamento di un certo tipo. Le ragazze in special modo vissero in quegli anni un sorta di collettivo battesimo del fuoco: non solo stavano fuori fino a tardi, ma addirittura a casa non ci tornavano e rimanevano fuori tutta la notte, ad esempio per l’occupazione di una Facoltà .

A distanza di più di vent’anni, i discorsi giovanili di allora appaiono in tutta la loro inconsistenza, e ciò non stupisce: nati da una quasi totale inesperienza politica, da un effimero bagno in una appena conosciuta (e cioè fondalmentalmente sconosciuta) ideologia marxista, furono discorsi molto avulsi dalla realtà, ammantati in un logoro mantello di frasi estremiste.

Ma il significato di quegli accadimenti va letto a un livello più profondo, oltre ciò che normalmente si intende per politica, in quanto ha riguardato l’essenza del rapporto genitori-figli e ancor più padri-figlie.

Ognuno di quei ragazzi, di quelle ragazze, fu segnato da una tragedia personale: per causa sua in famiglia vi furono tragedie, pianti, sconfessioni, disconoscimenti. Ogni famiglia vedeva nell’ambiente un fattore di corruzione del proprio figlio, prima così bravo, così studioso.

Ogni ragazzo in un certo senso divenne Oreste, e come Oreste impazzì. Il problema è che non siamo abituati a leggere gli eventi quotidiani nella loro dimensione mitica, che pure è sempre presente nello sfondo: non siamo abituati nemmeno a leggerli in una dimensione psicologica. Così quando i mass media continuano a presentarci quei contestatori in eskimo, oggi perfettamente integrati magari nella pubblicità, non siamo spinti a cercare in quell’immagine così incoerente il segno di una ferita non rimarginata, di una personalità che non ha fatto proprio il suo dramma, che l’ha negato, che per ingraziarsi le Erinni non ha riconosciuto il proprio tradimento ma ha seguito, come se nulla fosse accaduto, la strada che i genitori pretendevano.

Noi vediamo tanta incoerenza fra il contestatore e lo yuppie: ne vedremmo di meno se confrontassimo i sogni della famiglia del contestatore con ciò che il contestatore è poi diventato. Anzi, non ne vedremmo neanche un po’, di incoerenza, ché le due figure collimano perfettamente. Eppure quella ribellione era giusta e fondata, ma la collettività dei giovani non disponeva di mezzi per elaborare il proprio dramma. Così l’ha negato. Narra appunto il mito che Oreste “vagò a lungo come pazzo”: ebbe cioè bisogno di tempo per elaborare il suo lutto, assimilare la sua tragedia. Questi tempi di transizione, come altre volte osservato su queste pagine, sono di fatto aboliti nelle società moderne.

 

Se i discorsi del ’68 possono ormai interessare solo degli specialisti di storia e di politica, lo scontro generazionale e il mutamento antropologico di allora interessa ancora tutti: se infatti si trattò allora di un processo che tutto sommato riguardava un’élite studentesca e metropolitana, altri giovani ne sono stati toccati più tardi e alcuni ne vengono lambiti ancora oggi. Inoltre, la radicalità di quello che è avvenuto, la sua importanza nella nostra società è talmente centrale da essere paragonata all’uccisione del re durante la rivoluzione francese. I genitori, che esaltati dal proprio benessere si ponevano illegittimamente come salvatori dei propri figli, sono stati smascherati, mentre sono cadute anche le palizzate che parevano eterne dell’autorità paterna.

E’ singolare che il movimento femminile, uno dei molti scaturirono negli anni ’60/’70, sia stato in certo senso l’unico destinato ad avere durata e crescita. La rivoluzione familiare ebbe infatti un’importanza enorme e particolare per le ragazze, mettendo in forse l’arbitrio dei padri e la dominanza emotiva della figura paterna. Se le ragazze poterono poi scoprire la madre, fu anche perché vennero abbattuti i padri, e non è forse azzardato affermare che l’incrinamento dell’ordine simbolico patriarcale risultò tale soprattutto nel vissuto e nelle elaborazioni delle donne.

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