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Elena Fogarolo

Ponpon di guerra

Da Miopia n.20, aprile 1994

 

Ci sono infiniti modi di fare le ponpon di guerra: da quello, il più esplicito, di sostenere apertamente la guerra, salutare i soldati che partono chiamandoli eroi ecc. fino a forme più ambigue, che si confondono già con l’opposizione alla guerra, come promuovere una solidarietà astratta ed impossibile per i civili di entrambe le parti, fare appelli e manifestazioni pacifiste generiche, ecc.

«Ma tutto questo è contro la guerra - mi dirà qualcuna stupita - come fai a considerare queste azioni un sostegno alla guerra?».

Dipende dalla consapevolezza di chi agisce contro la guerra. Perché c’è un modo di piangere sui morti che diventa piacevole per chi ha ucciso.

Un ricordo personale: non ho, grazie al cielo, vissuto nessuna guerra, solo quella miccia bagnata che fu il ’68.

È appunto il ’68: nella città dove studio gli operai hanno occupato una fabbrica, i miei compagni di università occupano insieme a loro. Vado, con altri, a vedere. Alcuni miei compagni li scorgo subito. Presidiano il cancello, eretti sulle gambe divaricate, sguardi minacciosi da guerrieri, e sorreggono bandiere applicate su pesanti bastoni. E poi un uomo, che ricordo piccolo, ripiegato su se stesso e piangente: viene trascinato fuori da altri studenti che lo stanno picchiando. Lo picchiano perché è un crumiro. La scena è rivoltante: comincio a discutere ma mi metto a piangere.

I miei compagni, così rigidi, così dogmatici, non hanno assolutamente la reazione che mi aspetto (cioè una risposta verbale di violento dissenso): il mio pianto fa finire ogni discussione, mi si avvicinano gentili, come gli amici che sono stati, mi dicono che ho ragione io, anzi avrei ragione io ma il mondo è come è. Nei loro occhi brilla uno strano lucore: con mio sommo stupore mi accorgo che sono contenti, lusingati del mio pianto.

Questo episodio l’ho davanti agli occhi come se fosse accaduto ieri. Eppure per decenni non l’ho capito. Non capivo che stavo, inconsciamente, facendo ancora la ponpon. Piangevo per le loro gesta, mi occupavo sempre di loro.

Ma è in un altro campo che mi sono comportata come una ponpon assidua, ingenua e tenace come poche: in quello dell’informazione. Dai tempi della ragione, dall’adolescenza, appena scoppiava una guerra anche in un qualche remoto paese, io volevo capire. Sostenuta con benevolenza dall’insegnante di storia e dagli uomini con cui discutevo, leggevo i giornali, ma non mi bastava. Leggevo quindi nei libri la storia dei paesi in questione, studiavo di etnie, di guerre precedenti, confrontavo cartine geografiche (oh l’insopportabile tormentone delle cartine geografiche!), vedevo territori “giusti” e “ingiusti”, ma non mi sono mai fatta un’idea chiara. Eccetto che nel caso del Vietnam, che per la mia generazione è stato una sorta di riflessione globale sull’ingiustizia e sull’aggressione, tutto si confondeva in un non-giudizio, in uno stato di pre-pianto, in una commozione mista ad indignazione, sterilissima. E il Vietnam? Ricordo la mia costernazione quando - finalmente conclusa l’agognata pace - volevo sapere se finalmente in Vietnam avevano da mangiare, se avevano scuole e case ecc. e sui giornali “di informazione” non trovavo più nulla! I maschi volevano notizie di altre guerre.

Pian piano ho smesso quel ruolo di ponpon intellettuale. Avevo capito che nessuna cartina geografica, nessuno studio storico, nessun discernimento di etnie e di religioni diverse giustificava i massacri: nulla mi “spiegava” la guerra.

Quando è scoppiato il caso della ex Iugoslavia e i giornali hanno iniziato a parlare di croati di serbi ecc. mi sono detta: non voglio saper nulla, non mi interessa nulla delle loro origini delle loro religioni ecc.

Non ho letto i giornali degli uomini, ma quelli delle donne. E libri anche, sempre delle donne. E degli uomini, solo cose che si ricollegavano al pensiero delle donne. Sono diventata meno schizofrenica perché - prima - quella che faceva fatica ad uccidere un ragno (non per schifiltosità ma per una ormai assidua frequentazione del pensiero orientale), coltivava in un angolo della sua mente, come in un orto mal tenuto, erbacce romantiche, lasciate lì dai tempi di un’adolescenza confusa e rabbiosa: anche se non ho mai accettato il concetto di guerra giusta, pure non ero ancora arrivata a condannare lucidamente la guerra. Confondevo l’aggressività come fatto biologico, l’istinto della difesa del territorio, con le guerre organizzate.

Negli ultimi tempi, donne di generazioni precedenti la mia hanno lamentato con dolore la poca solidarietà delle donne italiane verso quelle della ex Iugoslavia, rimpiangendo un passato in cui questa solidarietà era più visibile. Forse le donne un tempo hanno raccolto più indumenti, più soldi per le vittime della guerra, ma erano anche più coinvolte nella guerra come donne dei soldati, come donne di uomini schierati ideologicamente con alcuni soldati.

Oggi siamo impegnate, moltissime, in studi volti alla pace, e alla guerra solo secondariamente, non come flagello insito nell’umanità, ma come costruzione umana da smontare da capire da superare.

E anche se partono meno treni marcati UDI, pure mille rivoli di aiuti si riversano verso i luoghi colpiti.

Personalmente, quando vedo, le rare volte che tollero di vedere, servizi sulla ex Iugoslavia, più che dalla compassione sono presa dalla rabbia: perché quei bambini quei vecchi quelle donne, su cui le voci degli speaker fanno tanta retorica, avevano una casa, avevano una famiglia e qualcuno gliele ha distrutte: non il terremoto, non le inondazioni, ma volontà umane, volontà maschili che bisogna isolare. Sono convinta che senza il consenso femminile la guerra diventerà impossibile.

Per cui trovo che le nuove analisi mediante le quali cerchiamo di dissociarci dal profondo, in cui vogliamo capire quali atteggiamenti femminili nutrano inconsapevolmente l’ideologia guerriera, attraverso cui ridiamo dignità al nostro pianto (ma proprio perché gli diamo dignità non vogliamo che venga vampirizzato), siano la strada più fertile che le donne abbiano intrapreso, la più pacifica e alla lunga la più solidale. E anche se dovessimo risultare vittime di un’utopia, pazienza: sarà finalmente su un nostro errore che poi ricostruiremo, non sulle eterne macerie di un gioco estraneo.

Elena Fogarolo

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