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Elena Fogarolo

La dolce casa dei rivoluzionari

Da Miopia n.21, settembre 1994

 

 

È già stato osservato come nelle grandi trasformazioni sociali il ruolo delle donne muti improvvisamente: per un certo periodo vengono loro assegnati compiti di prestigio, e alcune assurgono anche a posti di comando. Quando la situazione si stabilizza di nuovo, le donne vengono ricacciate nel ruolo tradizionale, in casa.

Può sembrare a prima vista che i maschi utilizzino consapevolmente le donne facendo una sorta di doppio gioco e che le donne si prestino ad essere usate in assoluta incoscienza.

Il problema è in realtà molto più complesso. Quando un gruppo sociale insorge infiammato da un nuovo ideale e promette un mondo nuovo, l’eccitazione dei preparativi e la gioia dei cospiratori sembrano già prefigurare la novità annunciata. Ma nessuno sa come sarà realmente l’ordine nuovo.

In un contesto rivoluzionario sono apprezzati tutti gli sforzi per il presente e tutti i sogni per il futuro. Chi non si adegua a questo schema tradisce il progetto rivoluzionario. Nell’ex partito comunista, le donne che chiedevano - da subito - mutamenti nei rapporti uomo-donna erano tacciate da piccole borghesi, quindi antirivoluzionarie: erano negatrici del sogno, perché solo con la rivoluzione si sarebbe realizzato un giusto rapporto donna-uomo e chiederlo prima era giudicato come un rompere le scatole a dei maschi già troppo affaticati.

Una brava compagna lavava i piatti e amen. Paradossalmente, in un libro di galateo, il problema delle faccende di casa che gravavano sulla “signora” veniva risolto nello stesso modo: era fastidioso - sicuro - che non ci fossero più persone di servizio a buon prezzo, ma non per questo una vera signora rompeva l’anima ai suoi familiari e pretendeva che il marito l’aiutasse! Una vera signora le risolveva da sola, tali questioni da donna; un vero signore da parte sua sarebbe stato conscio della situazione e non avrebbe avuto pretese eccessive verso la signora!

In Italia non abbiamo avuto una rivoluzione marxista ma un partito marxista che ha accettato il gioco democratico. Per cui gli aderenti a questo partito difficilmente li possiamo chiamare “rivoluzionari”. Una situazione simile alla rivoluzione l’abbiamo avuta solo durante la resistenza. I rivoluzionari alla macchia non avevano luoghi dove incontrarsi, se non i boschi e le case. Le case erano di importanza vitale: da lì proveniva cibo, lì si poteva fare una buona notte di sonno, lì venivano curati i malati. Dire casa e dire donna era la stessa cosa: buona parte della rivoluzione veniva giocata nel terreno femminile, le case appunto. Le donne si prestarono spesso entusiasticamente a questa operazione che dava un significato più ampio al loro monotono affaticarsi quotidiano; che dava l’opportunità di dimostrare il loro coraggio e la loro astuzia, di mettere pubblicamente alla prova il loro valore.

Anche i cristiani erano agli inizi dei rivoluzionari che non di rado vivevano nascosti nelle case di ricche donne indipendenti, dove trovavano rifugio, sostentamento, anche possibilità di indire le prime funzioni. Alcune delle prime chiese sono state gestite da donne.

Quindi non è da stupirsi che nel cristianesimo delle origini le donne potessero essere diacone o altro, e che la loro visibilità fosse alta. C’era bisogno di loro.

Ma, dopo, che accade? Perché tutte le rivoluzioni ricacciano le donne dentro le case? Ma le donne, ci sono mai uscite davvero dalle case? Se gli uomini trasferiscono temporaneamente, in mancanza di meglio, il loro governo, la loro religione e il loro esercito nelle case, ciò non significa che poi condividano con le donne il potere conquistato. Infatti quando si sono impadroniti dei fortilizi del potere maschile, chiese o caserme, parlamento, palazzi del governo ecc. i maschi governano da soli come hanno governato da soli i loro predecessori. Le chiese e i palazzi pubblici sono simili alle case degli uomini dei piccoli villaggi tribali studiati dagli antropologi, dove ci sono tante piccole abitazioni ed un solo edificio collettivo, accessibile solo agli uomini, e alle donne secondo criteri rigorosamente maschili. Se gli antropologi dessero un’occhiata più accurata al proprio paese d’origine, si accorgerebbero che anche lì quasi tutto quello che è collettivo è dei maschi: le donne vi entrano per pulire e per fare le telefoniste o le amanti.

Ci ha colpito molto l’attacco - nella guerra bosniaca - ai corpi delle donne e alle case: ma dopo il primo stupore, qualche storica ci ha ricordato “guardate che è sempre andata così. Il nemico è sempre stato indebolito colpendolo in tutto ciò che è suo, tanto più quindi nella casa e nei corpi delle donne”. E le donne che avrebbero potuto salvarsi, ma che erano rimaste nelle case sotto ordine dei loro maschi per affermare - tramite delega - la proprietà di quelle case? Ciò che da fuori sembrava una crudeltà insensata, era un’azione di guerra, che dentro la guerra aveva un suo senso.

Mi sembra interessante chiudere con un’ultima osservazione sulla storia delle donne nordamericane. È luogo comune ormai affermare che la maggiore indipendenza se la sono conquistata lottando insieme ai maschi nella fase della colonizzazione. Può essere vero, ma anche altre donne hanno lottato come loro, forse più duramente, e sono poi state mandate a casa. Le americane si sono trovate a vivere in una situazione dove non esistevano né “case degli uomini” né case di abitazione già costruite. I nuovi villaggi sono stati costruiti ex novo e quindi l’utopia ha avuto più spazio.

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