Elena Fogarolo
Bambini del cavolo
Da Miopia n.32, Settembre 1998, numero monotematico
LE FIGLIE, I FIGLI
Quando, circa vent’anni fa, ho cominciato a insegnare qui in campagna, fra le varie aspettative avevo quella di non udire più nessuno lamentarsi che le madri non badano ai bambini. Le mamme in campagna stanno a casa, no? Non come quelle disgraziate di città che vanno a lavorare, a fare shopping ecc.
In effetti, le mamme della campagna ufficialmente erano tutte casalinghe. Anzi come dicevano i ragazzi: “La mia mamma? Non fa niente”. Però dietro questi ragazzi non c’era comunque l’immagine sorridente di una mamma che, magari con un ricamo poco impegnativo in mano, sovrintendeva con occhio di falco e mai distratto i figli nelle attività pomeridiane. Le mamme, più che a casa, stavano in orto. O in pollaio, o tra i conigli. Erano sì presenza adulta sempre a tiro di voce, ma non babysitter. La madre babysitter è una invenzione orribile e contro natura.
Oltre che nell’orto, molte mamme lavoravano a domicilio per ditte di maglieria. Mi voglio comunque qui soffermare sull’attività dell’orto perché mi sembra un’attività “eterna”. Spiega benissimo, questa frequentazione dell’orto da parte materna, perché si dicesse ai bambini che i fratellini la mamma li trovava sotto un cavolo. La parentela orto-figli è strettissima. Il bambino è figlio sì della mamma, ma anche degli altri viventi.
Queste donne che curano l’orto, si stanno estinguendo. Le figlie più colte e più inurbate sgridano le madri che passano troppo tempo nell’orto, invece di curare la casa. In questi anni, ho conosciuto donne che, dopo un lutto, passavano più tempo nell’orto, per curare il loro dolore; o che compativano coloro che stavano in appartamento (“mi paiono canarini in gabbia”).
Nel mio giardino prosperano piante che ho ricevuto da queste donne, nonne di alunne, madri di colleghe, che mi hanno mandato talee, polloni, ecc. al momento giusto con informazioni brevi e precise. Sul ritmo di queste antiche madri, ho cercato di ritmare la mia maternità. Fidando anch’io negli alberi, nei conigli, negli altri bambini e insomma nei cavoli perché la mia prole crescesse. La mia scarsa passione per una casa “borghese” si è unita a un coro molto più antico. E anch’io ho amato maneggiare la terra, senza usare i guanti: si perde tutto il gusto!
Ma le mamme orticole stanno, appunto, sparendo. E una civiltà di migliaia di anni sparisce con loro. In questo tempo di trasformazioni si verificano situazioni strane ed episodi paradossali quanto effimeri. Ne passo in rassegna qualcuno.
Funghi
Fino a dieci anni fa, nelle zone rurali, i bambini con le famiglie alla domenica andavano “a messa e a trovare i nonni” o altri parenti. Adesso? Tutti ai centri commerciali, cresciuti in pochi anni come funghi. In compagnia anche della nonna o del nonno.
Loro, i bambini, sono contenti di andare a questi centri. Magari poi diventano irrequieti, fanno inquietare anche i genitori e ci scappa il litigio e in macchina, lontano da occhi giudicanti, anche la sberla. Ma i bambini non sanno associare centro commerciale-inquietudine-sberla. Associano ai gelati, agli hamburger e al resto.
Magari questi bambini diventeranno dei piccoli Buddha, disgustati presto dai beni terreni e anelanti al risveglio. Domani saranno anche dei santi, forse: per ora, non sono tanto simpatici per chi ci ha a che fare.
I centri commerciali si possono dire il paradiso dei poveri? Chissà... certo fa una certa impressione, ogni volta, quando c’è un ponte, una festa, insomma in tutte quelle occasioni in cui chi può molla tutto e va via, in montagna, ai tropici, sulla luna... chi non può, si ammassa nei centri commerciali.
Ragazzi di strada? Magari!
L’espressione ragazzi di strada, è noto, ha un significato negativo. Addirittura mortifero in certe città del terzo mondo, dove bambini e ragazzi che crescono sulle strade, senza genitori o parenti, hanno un tasso di mortalità molto alto. Eppure le strade sono sempre state, fino a ieri, il luogo classico dove i bambini crescevano. Giocavano tra i grandi, li copiavano, sapevano i fatti della comunità.
Non occorre risalire al medioevo: i bambini sono cresciuti sulle strade fino a che il traffico delle automobili non ne ha messo in crisi l’incolumità. Non “la strada” generica: ma la strada davanti a casa, non asfaltata, o quella davanti alla casa poco distante della coetanea/o, lì dove le nonne stavano sulle sedie a chiacchierare e a far ricami merletti o lavori a maglia, lì stavano anche i bambini. Li si vede ancora nei campielli di Venezia. Li si vede in paesi del centro-sud, lì dove - di solito a causa di strade troppo strette o troppo inerpicate - le automobili non possono entrare. Lì non ci sono parchi gioco. Non sono necessari. Tutto il suolo comune è anche luogo dei bambini.
Questo giocare dei bambini in strada è la cosa meno stressante del mondo. Gli adulti non devono scarrozzare nessuno, non devono stare ore ai giardinetti guardando l’orologio. I bambini si mettono d’accordo fra di loro, si dànno appuntamenti, non ci sono convenevoli. Nello stesso tempo i bambini sono un’occasione di incontro sociale anche per gli adulti, che si conoscono, si sorridono, se è il caso scambiano qualche parola sui figli.
Così è stato anche nelle campagne del nord Italia, fino a circa un decennio fa.
Poi un po’ alla volta tutti si sono messi su una recinzione, cancelli, citofoni. E i bambini sono rimasti prigionieri dentro mentre le strade, comprese quelle secondarie, sono diventate sempre di più piste automobilistiche.
Il costo di una chiave
Ecco un tema molto caro ai media: i bambini soli al pomeriggio, con la chiave di casa. Poveri! Perché queste brutte donne vogliono andare in carriera, sono ambiziose, egoiste... e i bambini davanti alla TV!
Negli anni Sessanta, le donne lavoratrici premevano molto per avere il part time. I sindacati allora avrebbero avuto la forza per ottenerlo, e per dare quindi una svolta completamente diversa a molte cose: ai bambini con la chiave, ad esempio.
Ma i sindacati, i partiti della sinistra: il part time, per carità! è reazionario! è favorire il padrone! Allora, ero una ragazza che pensava di far tutto eccetto che sposarsi e fare dei figli, eppure le ragioni di queste donne - che per me misteriosamente avevano voluto mettersi ‘ste catene al collo - erano così chiare! e poi: tutte volevano il part time; tutte lo volevano per gli stessi motivi, vivere meglio il lavoro e la famiglia. Ma perché non glielo davano? Ma erano tutte deficienti, ‘ste donne?
Più o meno, erano intese come tali. Pensare alla famiglia non era di sinistra. Di sinistra era volere gli asili e tutto il resto.
Quando si parla dei bambini con la chiave, si punta il dito su una sola donna, la madre, colpevole di non stare in casa. I giornalisti che scrivono, probabilmente sono cresciuti in case sempre aperte non per abnegazione di una sola donna: zie nubili, nonne, domestiche che erano quasi sempre ragazze provenienti dalla campagna e che pur di stare in città si accontentavano di poco... Tutte quelle donne ora, sono assenti. Tutte quelle donne ora sono impiegate altrove.
La casa era una organizzazione molto complessa, depositaria di una civiltà antica.
Pretendere ora che una sola donna tenga in piedi un albergo aperto a tutte le ore, con la mensa sempre in funzione, assistenza infermieristica assicurata, psicologa all’erta, docente di tutte le materie allegra e in forma accanto ai pargoli, organizzatrice di party infantili... ma siamo matti? ma lo sapete, che anche le chiese sono quasi sempre chiuse? vorrei vedere degli articoli “fedeli senza Cristo” o “l’inginocchiatoio proibito” e allusioni non tanto velate alla pigrizia di questi preti, o alla loro ambizione... vogliono tutti studiare da papi? ma se ne vanno in giro a Roma? ma perché non stanno nella loro parrocchia? Non ci sono più preti che tengono aperte chiese e patronati per ragazzi, non ci sono più donne che tengono aperte le case.
Per i bambini con la chiave, non sarebbe ora di fare quello che i sindacati non fecero decenni fa? andare dalle donne e chiedere: cosa volete?
Doppiare una chiave e darla a un bambino costa molto poco. Doppiare una civiltà, quello costa. Ma, se si ascoltassero le interessate, potrebbe anche costare meno di quanto si pensi.
Tutti a scuola
Le mamme lavorano, le zie sono fuori, le nonne sono all’università della terza età, i patronati sono chiusi perché di giovani preti e giovani suore non ce ne sono più... che si fa? Tutti a scuola!
A studiare computer, teatro, cinema, fotografia... eccetera. Sembra che si confonda la scuola con il paese dei balocchi, di pinocchiesca memoria.
Tutti a scuola, sempre più ore e fino ad età sempre più alte, perché così fanno i paesi moderni e noi vogliamo essere moderni.
La tendenza a far studiare di più le ragazze e i ragazzi c’è già. Perché mettere l’obbligo? Per certi ragazzi, maschi in particolare ma anche qualche femmina, è già evidente in terza media che la classe è un luogo sbagliato. Stanno meglio d’estate, non perché sono lazzaroni, tutt’altro: vanno a lavorare.
In queste utopie c’è anche qualcosa di generoso, non lo nego. Ma la scuola è un luogo così ambiguo! Quasi tutte le persone che conosco, hanno ricordi molto infelici, se non infelicissimi e al limite della tragedia, degli anni di scuola. E parlo di adulti che si facevano in genere solo quattro ore di scuola al giorno, non questa montagna tremenda di materie per cui - per farcele stare tutte dentro la giornata - si riducono “le ore” anche a 45 minuti!
Tutti a scuola, a diventare più colti. E una piccola amnesia su, per fare un esempio illustre, Pierre Curie (marito di Marie) che a scuola non ci mise proprio mai piede. Andava i giro per i boschi, e lì scopriva i nessi... le due figlie, una premio Nobel, l’altra musicista, furono mandate a scuole facili: Marie stessa cercò a Parigi le scuole più facili possibile...
La scuola è nata per i chierici. Si è estesa poi gradatamente ai figli della media e piccola borghesia. Gli aristocratici, i grandi ricchi, ci sono entrati tardi: perché faticare quando potevano far faticare gli altri?
Voci autorevoli vorrebbero eliminare del tutto la scuola. Ma fin che occupa la mattina, è un male sopportabile... ma tutto il giorno! tutti i giorni di tutti gli anni finché si diventa adulti! per obbligo! cosa han fatto di male, poveri ragazzi... Sembrano dei prigionieri in semilibertà vigilata. Al contrario dei prigionieri, loro stanno in galera di giorno e vanno a casa a dormire.
L’ordine simbolico del motorino
Quasi tutte le ragazzine e i ragazzini, a quattordici anni, vogliono il motorino. Quasi tutte le famiglie non ne vogliono sapere perché è pericoloso. Quasi tutte le famiglie cedono. Quasi tutti i ragazzini, dopo un certo tempo, si stufano e a diciotto anni passano all’automobile.
Il desiderio del motorino diventa subito chiaro se pensiamo che da quando sono nate/i, le/i quattordicenni sono sempre state/i scorrazzate/i da altri. Dal passeggino all’automobile di famiglia all’autobus: percorsi sempre subiti.
Ed ecco, a quattordici anni, finalmente guidano loro! scelgono loro la strada, si fermano allo stop, rispettano il senso unico, obbediscono ai semafori...
Dov’è che camminiamo? Soprattutto nei luoghi chiusi: casa, scuola, negozi. Il mondo esterno nella nostra cultura si sperimenta con qualche mezzo motorizzato.
Il motorino è un motore baby, ma è un motore, adatto ad esseri umani piccoli. I quali, a cavallo di questo pony artificiale, galoppano per foreste e valli, per vicoli e piazze, si esibiscono in arresti e partenze, davanti a segnali rossi, verdi gialli...
E.F.