Elena Fogarolo
Come spugne
Frammenti di culture a confronto
Estratto da Miopia n.35, maggio 2000, numero monotematico UNO SGUARDO AD ORIENTE
Il buddhismo per me è stato uno schiarimento intellettuale, un tornare finalmente limpido ai dubbi e alle incertezze che mi abitarono da bambina e ragazza, riguardo alla cultura in cui sono cresciuta e al mondo che essa rappresentava.
Dalla mia storia di bambina e di ragazza, prendo tre momenti.
Sono proprio piccola, alla merenda faccio questo gioco: prendo un biscotto, lo spezzo e poi riunisco i due frammenti facendoli coincidere. La crepa però si vede. Mi chiedo: dove è andato il biscotto intero che avevo in mano prima? Questo gioco non si limita al rito della merenda, lo faccio anche con un foglio di carta, con un pezzo di tessuto. Dove vanno le cose? Come fanno a venire gli avvenimenti dal lontano futuro? Arriva un giorno atteso e mi dico: “ecco, è venuto proprio”, e sono piena di meraviglia. Finisce il mio soggiorno nella colonia estiva e assieme al sollievo c’è sempre questo stupore: “è capitato davvero, il futuro è diventato oggi”.
Penso di avere fatto delle domande all’inizio, e di essermi poi semplicemente abituata al silenzio della nostra cultura sui problemi del tempo.
Ovviamente il buddhismo, con tutta la centralità data all’impermanenza1, al mutamento, ai fenomeni che sono vuoti, non poteva che porsi come risposta non tanto a una domanda precisa, ma ad un atteggiamento di interrogazione che avevo accantonato senza che nulla fosse risolto. Avevo abitato il mondo, avevo abitato le convenzioni sociali sul tempo, senza trovare una risposta intellettuale o emotiva sufficiente.
L’episodio seguente risale a quando frequentavo la quarta o la quinta elementare. La maestra sta parlando delle spugne, dei coralli, di questi esseri che vivono in associazione, ognuno nella propria “casetta”... Mi trovo eccitata, con l’anima sulle labbra: “proprio come noi!”. Frase che mi limito a pensare, trattenendo la parola, perché in qualche modo mi rendo conto che non è cosa da dirsi. Sarebbe indecoroso assimilare così intimamente gli esseri umani, col Paradiso, la Grazia, l’Intelligenza, la Storia e tutto il resto, a degli animali stupidi, piccoli, senza braccia, senza vestiti.
L’istruzione conferisce pomposità all’esistenza umana. Bisogna aderire all’idea che siamo più importanti, migliori degli altri esseri viventi; che siamo i loro padroni. Il gioioso senso di affinità che mi prende va rimosso, bisogna creare distanze. Invece di simpatia, disprezzo. Invece di slancio, rigidità.
Tutte le religioni invitano alla semplicità. Nel buddhismo, la semplicità non è un abito di mortificazione, è la conclusione di un’indagine. Nasciamo e passiamo, siamo impermanenti, siamo legati a tutto, siamo stati tutti anche spugne e coralli. Non è indecoroso provare afflato verso le altre creature perché “in un’altra vita sono state tutte nostra madre”.
Un altro ricordo. Ho le mestruazioni da pochi mesi, e sto sul letto a pensare cose di questo genere: “perché il mio corpo, che dovrebbe servire me, mi causa disagio per degli esseri umani futuri? Allora sono come una pianta con i semi... che importanza ha il mio io se il mio corpo lavora già per altri esseri?”. C’è una crepa fonda tra quello che mi hanno insegnato a scuola sull’io, la gloria, il successo, i grandi uomini, il potere nelle sue varie manifestazioni e quello che vivo... mi hanno insegnato che il dolore è utile perché ti segnala un rischio e puoi così correre ai ripari... ma questo dolore, a cosa serve? a chi serve? Non sono malata, non sono ferita... cosa sono?
La nostra cultura non prevede questi momenti di percezione della fluidità del reale, in cui sarebbe molto facile indurre una donna a trascendersi, perché sta toccando con mano che la trascendenza è un fatto biologico.
Il buddhismo mette l’accento su questa fluidità, sul lavoro del tempo, sull’interessere2 del tutto. Non c’è inferiore né superiore, ognuno è voluto da innumerevoli forze.
Gli altri
Gli altri, non sappiamo chi sono. Certo, noi stesse/i non sappiamo chi siamo, ma per lo meno nuotiamo nel lago ignoto che siamo, ci abitiamo, mentre possiamo vedere gli altri solo dall’esterno. Invecchiando impariamo a leggere meglio nei visi, nel modo di camminare ecc. Ma per quanto ci sforziamo, non ci possiamo realmente immedesimare negli altri. Resta un pio desiderio. Le difficoltà che ognuno incontra nel rapportarsi agli altri, sono collocate sotto il segno della patologia (autismo, solipsismo, egocentrismo) e in sostanza vengono taciute.
Il buddhismo affronta realisticamente questa condizione di “autismo” che non può essere annullata. E’ dal nostro io che si parte, ma gli altri non vanno lesi feriti o uccisi, proprio come nel precetto cristiano “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”.
Nella nostra cultura, ai bambini non viene lasciato spazio per una indagine interiore, se non in misura minima e in modo rozzo: l’indagine su di sè si svolge secondo schemi precostituiti, e se non ti adegui ad essi, sei cattiva/o. E’ una finta indagine, più che altro un’auto-inquisizione, un test di conformità agli standard etici.
Il silenzio o le risate divertite e che rimangono senza risposta a certi quesiti infantili, comunicano al bambino un messaggio: “tutto questo è strambo e carino, come sei tu, ma se insisti, se ti prendi sul serio, non sarà carino per niente”.
L’amore erotico
Se la maternità è segnata dall’oblatività, lo slancio erotico è segnato da una scandalosa fiducia. Cadono le usuali distanze interpersonali, cade lo stesso concetto di “io”. Ciò è vero in particolare per molte donne, per le quali in genere l’inizio del rapporto è segnato dal sospetto e dalla vigilanza, dalla difesa delle distanze, e che, quando il maschio ha superato le prove e si è dimostrato degno di fiducia, si abbandonano alla guida dell’amore.
In oriente l’amore erotico è stato, come l’amore materno, fonte inesauribile di metafore religiose, a differenza di quanto è avvenuto in occidente3.
Nell’amore erotico, anche se non si ama un altro “come se stessi”, si può dire che non si sa più chi sia uno e chi sia l’altro, l’io cade, e sorge un amore che va oltre l’io: alcune dottrine orientali insegnano ad utilizzare le peculiarità dell’amore erotico per avanzare nella via spirituale.
Il karma4
E’ abbastanza frequente che noi occidentali si reagisca, le prime volte che si sente parlare di karma, con una incredulità divertita o scandalizzata.
Associamo il karma ad una passività colpevole, ad una rassegnazione pigra. Siamo abituati a reagire alle culture orientali con affermazioni vigorose della nostra fattività occidentale: “hanno le caste! non reagiscono alle ingiustizie!”... fino alla storia, che sanno anche i bambini, delle mucche sacre che non vengono mangiate, mentre la gente muore di fame per le strade.
Il karma è un concetto cui dovremmo avvicinarci con un certo interesse, perché in questo campo il nostro pensiero è così esile. Nel linguaggio comune usiamo espressioni del tipo: “è stato un caso... ah, la fatalità... era scritto...” e nello stesso discorso affermiamo il contrario: “se si fosse fermato a riposare... se fosse andato dal medico... se sua madre l’avesse badata di più...”.
In questa confusione, in questa dicotomia che è il sottofondo della nostra quotidianità, ci avviciniamo quindi al karma con una curiosità che nasce dal bisogno: è un argomento che ci può rendere meno scissi? ridurre il tormento? renderci più sereni? infine: più felici?
Il karma è un concetto cardine non tanto del buddhismo, ma di tutta la cultura indiana prebuddhista. E’ vero che capita di leggere o di sentir parlare del karma in un senso svilito e superstizioso, non tanto diverso dalle antiche minacce dell’inferno della nostra memoria collettiva: “se fai il male ti incarnerai in una bestia inferiore o in un diavolo; se fai il bene avrai una buona rinascita, sarai bello, ricco e potrai sviluppare la conoscenza”; ma il karma è un concetto molto più vasto, che ci spinge ad analizzare tutti i fattori che creano il momento che stiamo vivendo, l’aria, l’acqua, le pietre, il mare; le persone, gli animali, i vegetali; i sentimenti, le parole, le reazioni alle parole e alle azioni. Così come reagiamo alle condizioni del presente, abbiamo reagito alle condizioni del passato e ogni creatura, ogni atomo ha reagito in quel modo, il solo possibile.
Gliela fai fare la comunione?
Se sia opportuno far fare la comunione o la cresima al figlio/a, è uno degli argomenti su cui molte madri discutono con passione. Se ne parla al momento della scelta, e poi se ne continua a parlare per tutta la vita.
Che le donne esprimano delle scelte in questo campo, che ne discutano, che le confrontino con altre, è una novità assoluta: è un indice della radicalità del mutamento che sta scuotendo culture e religioni.
Questa scelta delle donne è indice di una nuova prorompente soggettività religiosa femminile.
Prima di questa ondata di libertà femminile il bambino, di solito, veniva cresciuto secondo schemi correnti che la madre si dava per scontato non avrebbe criticato (non ne avrebbe avuto comunque il potere).
Le donne iniziano a usare la loro recente libertà per foggiare infanzie diverse, e saltano, se lo credono opportuno, le tappe tradizionali del battesimo, comunione, cresima ecc. Le donne crescono così bambini che mal si adattano poi a strutture come la scuola, che erano e sono concepite per bambini “tutti uguali”.
In oriente, dove le usanze e la legge lasciano ben poco spazio alla libertà femminile, l’educazione dei bambini è ancora tradizionale. Gli autori buddhisti occidentali elogiano a tutto vapore queste madri orientali “che sono vere madri”: esaltando il modello della dedizione materna orientale, portano confusione e distanza fra le donne che stanno praticando e che per poter meditare sono riuscite a sistemare i propri figli in modo che non debbano subire danni fisici e siano provvisti di tutto il necessario.
Essere o non essere “de spessegòn”
In Veneto c’è questa espressione, “de spessegòn”, con alcune varianti (“go spessegà”, “so qua tuta de spessegòn”, “go dovudo spessegare”, “me toca spessegare tuto el giorno ma no a xe mai finia” ecc.
Cosa vuol dire spessegare? Sicuramente “andare di fretta”, ma anche uno stato d’animo, una agitazione perpetua, una insoddisfazione e una umiliazione, una rassegnazione infinita.
I bambini venivano spesso educati a questo mondo dove, se lo “spessegare” vero e proprio era un agire femminile, per i maschi il lavoro indefesso, dall’alba al tramonto, era l’unica cosa da fare. Non solo lavorare, ma preoccuparsi per il lavoro, pensarci, stare a indovinare una strada per guadagnare più soldi.
Si trattava di una risposta ad una miseria estrema, in cui, per di più, il muoversi era anche l’unico rimedio contro un clima insidioso, freddo, raramente gelido ma umido. “Hai freddo? lavora! Ti annoi? lavora! Hai la luna? lavora!”. Il lavoro era presentato come una panacea: l’unico modo per stare in equilibrio nel mondo.
Ai bambini veniva impedito di stare a contemplare, di stare fermi e zitti, in pratica di pensare. C’erano tanti modi di scuotere il bambino, la bambina immersa in suoi pensieri: “sito impandolà? pampalugà? sito semo? cossa feto de pincolòn?”.
Non muoversi era da scemi, nonché preoccupante sintomo per il futuro. Anche leggere era malvisto, quasi proibito.
Le donne, la domenica, quando era proibito lavorare come nei giorni normali, sgranavano furiosamente rosari infiniti oppure, lì dove l’interpretazione della proibizione sul lavoro lo permettesse, lavoravano a ferri.
Era meglio preoccuparsi per niente, che così ti tenevi in allenamento, piuttosto di stare pacifico: “perché aggiustare ciò che non è rotto” come scrive Sylvia Boorstein “è più facile di quanto credi”5.
L’eroismo maschile
Chiamo eroismo maschile quel farsi carico della propria maggior forza fisica in una situazione di pericolo, esprimendo con gesti e parole l’invito accorato alle donne di risparmiarsi. Gli “eroi” ci vengono presentati spesso in monumenti di pietra, di bronzo o di altro materiale egualmente rigido. Con i muscoli contratti e gli occhi tesi a un orizzonte lontano, non sono molto simpatici, e sono tramontati ormai anche quelli più recenti della resistenza.
Attualmente gli uomini vengono ammirati di più per un tipo di eroismo che si potrebbe definire femminile, cioè per una abnegazione di lungo respiro, del tipo dei medici senza frontiere, dei beati costruttori di pace e altre organizzazioni.
Qui vorrei però tornare proprio al gesto di un attimo, alla decisione che vien presa nel profondo di sè. Accade che, per esempio, quando si è alla guida di un’automobile, al presentarsi di un imprevisto il cervello decida istantaneamente quale movimento sia più salutare, e ti conduce come se fosse qualcun altro a salvarti.
Che cosa spinge quelli che la stampa del giorno dopo chiama eroi a rischiare la propria vita in un gesto del tutto gratuito ma imperativo, per salvare delle persone spesso sconosciute? L’eroismo è segnato dal fatto che per chi non se la sente di agire non c’è sanzione di alcun tipo. Quando si vede l’eroe in azione, che si butta nel mare in tempesta, nella casa che sta crollando per il terremoto, in mezzo ad un incendio, quelli che guardano dicono “è matto”.
Ne parla molto bene Sylvia Boorstein, di questo eroismo: è come uno sciogliersi dell’io, un dilatarsi delle convenzionalità, tu sei me, io sono te, il dolore, la morte dell’altro è il proprio dolore, la propria morte6. Cadono i condizionamenti, ci si muove dentro un’altra realtà, quella per cui siamo davvero tutti fratelli, tutti profondamente legati.
Ma l’eroe, finita la sua opera salvifica, ci viene presentato con parole retoriche, che ci riportano ai monumenti, ai ricordi d’infanzia di cattive letture “edificanti”.
Dell’eroe, viene ignorato proprio l’aspetto per cui salva se stesso prima che gli altri, cioè viene ignorata la primordialità (non la moralità) del suo essere legato agli altri.
Di questi autori di gesti di primordiale altruismo, quanti ritornano nell’anonimato ed elaborano in silenzio la loro esperienza?
Esperienza che mi sembra sia resa molto bene nel film Eroe per caso, in cui il protagonista, il classico tipo che se ne infischia, che fa una cosa solo se gli conviene, salva tuttavia l’intero carico umano di un aereo prima che esploda, maledicendo quello che sta facendo, dandosi dell’idiota, rubacchiando e commiserandosi per una sua scarpa persa nel fango. L’ideologia di tutta una vita non ferma l’istinto che lo spinge a salvare i suoi simili in pericolo.
Elena Fogarolo
1) Con il termine impermanenza si designa il carattere transitorio di tutti i fenomeni. Sul piano etico-psicologico, comprendere l’impermanenza comporta un minore attaccamento al desiderio (minore avidità) e una riduzione dell’avversione per le esperienze spiacevoli.
2) Interessere è il termine che designa la profonda interconnessione esistente tra tutti gli esseri, e tra l’io e il mondo. La comprensione dell’interessere corregge la sopravvalutazione dell’io individuale.
3) Non esiste nulla in occidente di paragonabile, per esempio, alle sculture erotiche di molti templi indiani. Il biblico Cantico dei cantici è forse l’unico esempio di letteratura erotica sacra tramandato nella tradizione occidentale: tuttavia a lungo si è insistito sulla sua metaforicità, negandone il carattere sessuale.
4) Nella concezione induista, precedente il buddhismo, il karma (che in sanscrito significa azione) può essere definito come la legge di causalità che determina la forma della rinascita dopo la morte: il cumulo delle azioni positive e negative in questa vita (ma anche nelle vite precedenti) determina cioè il rinascere come umano o animale, nobile o paria, uomo o donna. Il modo in cui il buddhismo affrontò il problema della liberazione dal samsara, cioè dall’inesorabile ciclo di morti e rinascite, differenziò la nuova religione dal sistema induista delle caste, in quanto in sostanza veniva proposta a tutti una via di liberazione attraverso la pratica.
Nel buddhismo attuale vi sono diverse posizioni rispetto alla credenza nella rinascita, che è molto importante, per esempio, nel buddhismo tibetano, e marginale nel buddhismo zen.
5) Sylvia Boorstein, E’ più facile di quanto credi, Ubaldini-Astrolabio.