Gastone Redetti
Uno scacco maschile
Franz Kafka, o l’impossibilità di essere un patriarca
da Miopia n.28, dicembre 1996.
Qualunque sia la nostra opinione e la nostra voglia di discutere sulla “fine del patriarcato”, dovremmo ammettere che quanto meno sono finiti – o rischiano seriamente l’estinzione – i patriarchi. Pare indiscutibile la crisi degli esemplari superstiti: non rari i casi, riportati dalle cronache, di uomini patriarcali che si auto-eliminano, di solito dopo aver fatto fuori la consorte e un mazzetto di figli. Il declino della categoria è stato tanto rapido che ben pochi/poche di noi sono così giovani da non sapere che cosa fosse un patriarca, e quale potere sulla moglie e sui figli fosse accordato al “padre di famiglia” dal costume e dalla legge.
Certo, il patriarca moderno era ormai un pallido riflesso degli antichi. Rispetto ai patriarchi biblici, viveva un buon sei-settecento anni in meno, generava a malapena una decina di figli invece di 60-200, non fondava stirpi, non aveva rapporti privilegiati con Dio. Anche rispetto al Cittadino Romano (un tipo di perfetto patriarca su cui abbiamo notizie precise da fonti storicamente più attendibili della Bibbia) la posizione del patriarca moderno risultava deboluccia: per esempio non poteva più ripudiare o ammazzare a suo arbitrio la moglie (almeno non legalmente). Poteva al massimo – poveretto – sottoporla a pene corporali per finalità “correttive”, legittimate dal codice di famiglia italiano fino a tempi recentissimi.
Come non sospettare, quindi, che il patriarca moderno coltivasse una certa nostalgia per gli ampi poteri concessi ai patriarchi antichi? Lo specifico del patriarca moderno era infatti la contraddizione tra il “vorrei” e il “mi è lecito”, che si traduceva spesso in un abuso di potere esercitato nel chiuso e nel segreto della famiglia o anche nell’ambito di quella specie spaventosa di famiglia estesa che può essere, a volte, la piccola impresa.
Socialmente, il patriarca era una figura ampiamente trasversale. Accanto al patriarchismo estremo, rustico e primitivo, di un Pacciani (che, anche non avesse commesso macelli di innamorati, fu comunque un tipico tiranno sessuale in famiglia), esisteva un patriarchismo borghese, in cui l’abuso era più difficilmente identificabile.
Un ritratto di patriarca di questo secondo tipo è offerto da un eccezionale testo letterario, la Lettera al padre che Franz Kafka scrisse nel 1919, all’età di trentasei anni.(1)
La Lettera non era, nelle intenzioni di Kafka, una finzione letteraria, un dialogo immaginario. Sebbene mai giunta realmente nelle mani del destinatario, si trattava di una vera lettera, di un tentativo di rispondere realmente, per iscritto, a una domanda del padre:
«Caro papà, recentemente ti è capitato di chiedermi perché affermo che avrei paura di te. Come al solito non ho saputo risponderti, in parte appunto per la paura che mi incuti, in parte perché motivare questa paura richiederebbe troppi particolari [...] anche questa sarà una risposta molto incompleta, perché anche quando scrivo mi bloccano la paura di te e le sue conseguenze, e perché la vastità del tema oltrepassa di gran lunga la mia memoria e la mia intelligenza».
In realtà la risposta di Kafka è piuttosto esauriente, anche se egli, all’inizio, prende la questione alla lontana. Dominato da un sentimento di colpa molto profondo e molto complicato, Franz cerca di convincere il padre della propria innocenza. E dichiara intanto la sostanziale innocenza del padre, come ansioso di concludere un baratto che potrebbe suonare: “la mia innocenza contro la tua”. Kafka cerca allora dei motivi fisici, oggettivi, di cui nessuno è responsabile, che possano spiegare la sua remota e indicibile paura del padre. Egli ricorda quando era un bambino mingherlino, e la propria vergogna, il senso di inadeguatezza di fronte a quel padre corpulento e dotato di grande esuberanza fisica, così diverso da lui, che aveva preso dalla madre.
Se il padre è soverchiante, se al padre sono legati terrificanti ricordi della prima infanzia, il motivo primo non viene ascritto a una deliberata volontà di sopraffazione, ma a una congenita differenza di temperamenti di cui il padre non può essere colpevole.
Allo stesso modo non sarà colpevole per l’ottusità e la mancanza di sensibilità, o per i metodi educativi rozzi e distruttivi. È come una faccenda affidata al caso, una questione di destino: se io fossi stato più simile a te, scrive in sostanza Kafka, quei metodi sarebbero stati opportuni ed efficaci.
Eppure Kafka, nonostante tutte le sue premesse e le sue cautele, non tarda a venire al dunque, attenendosi spietatamente al suo vero giudizio:
«Eri giunto cosi in alto con le tue sole forze che di conseguenza nutrivi un’illimitata fiducia nelle tue opinioni. [...] Dalla tua poltrona dominavi il mondo. Solo il tuo punto di vista era giusto, ogni altro era demenziale, stravagante, folle, anormale. Nutrivi una tale fiducia in te stesso che non ti sentivi affatto in dovere di essere conseguente, ma non per questo cessavi di avere ragione. [...] potevi parlar male dei cechi, poi dei tedeschi, poi degli ebrei, e non solo per determinati aspetti, ma globalmente, e alla fine non si salvava nessuno all’infuori di te. Ai miei occhi assumevi l’aspetto enigmatico dei tiranni, la cui legge si fonda sulla loro persona, non sul pensiero. Almeno cosi mi sembravi.»
Quelle formule dubitative, “ai miei occhi”, “cosi sembrava a me”, non debbono essere prese sul serio, perché contrastano molto con l’analisi fattuale, precisa, minutamente documentata con cui Kafka suffraga nella lettera la denuncia del carattere tirannico e arbitrario del potere che il padre esercitava su di lui, sulle sorelle, sui dipendenti del Negozio. A partire dall’unico episodio della prima infanzia che Franz ricorda con nitidezza, relativo a un suo “capriccio” e al terrorizzante intervento paterno:
«Una notte piagnucolavo incessantemente per avere dell’acqua [...] Visto che alcune pesanti minacce non erano servite, mi sollevasti dal letto, mi portasti sul ballatoio e mi lasciasti là per un poco da solo, davanti alla porta chiusa, in camiciola. [...] Quella punizione mi fece sì tornare obbediente, ma ne riportai un danno interiore. L’assurda insistenza nel chiedere acqua, che trovavo tanto ovvia, e lo spavento smisurato nell’essere chiuso fuori, non sono mai riuscito a porli nella giusta relazione».
La punizione non aveva solo sortito l’effetto desiderato, il ritorno all’obbedienza del bambino, ma aveva messo in chiaro, in modo indelebile, il potere assoluto del patriarca. E infatti
«per me, bambino, tutto quello che mi ingiungevi era senz’altro un comandamento del cielo, non l’ho mai dimenticato, diveniva il metro determinante per giudicare il mondo».
Ma, aggiunge Kafka, «soprattutto per giudicare te, e qui hai fallito totalmente». E qui si torna al carattere tirannico del patriarca moderno, il cui potere si esercita in modo soggettivo, non controllato dalla società esterna. Kafka insiste infatti sulle contraddizioni del comportamento paterno, con un’attenzione testarda per aspetti della quotidianità familiare e minuta, che probabilmente gli uomini del suo tempo avrebbero liquidato come stupidaggini insignificanti :
«Quel che compariva in tavola bisognava mangiarlo, era proibito esprimere giudizi sulla qualità delle portate – tu però le trovavi spesso disgustose, le definivi “robaccia”; quell’“animale” (la cuoca) le aveva rovinate [...] Non era permesso rosicchiare le ossa, ma tu lo facevi. Non era permesso assaggiare l’aceto, ma tu potevi. L’operazione più importante era tagliare il pane a fette regolari, ma che tu la eseguissi con un coltello gocciolante di salsa era indifferente. Bisognava fare attenzione a non lasciar cadere sul pavimento resti di cibo, e di solito erano sparsi soprattutto ai tuoi piedi. A tavola si doveva pensare solo a mangiare, ma tu ti pulivi e ti tagliavi le unghie, facevi la punta alle matite, ti frugavi nelle orecchie con uno stuzzicadenti».
E la tirannia del padre non viene investigata solo nell’ambito familiare, ma anche nei rapporti con i dipendenti del negozio:
«non ti limitavi agli insulti, ti comportavi da tiranno. Quando ad esempio buttavi giù dal banco con una spinta merci che non volevi si confondessero con altre – solo l’impeto della tua ira ti poteva in parte scusare – e il commesso doveva raccoglierle. O il tuo solito ritornello rivolto a un inserviente tubercolotico: “Ma non si decide mai a crepare, quel cane rognoso?" [...] Lì mi venne impartita una grande lezione: tu potevi essere ingiusto; che lo fossi verso di me non sarei riuscito a notarlo tanto presto».
E cosi via, in un crescendo di rivelazioni che Kafka esibisce per chiarimento/difesa (ma certamente anche per vendetta, una vendetta piuttosto salata) e rimangono per noi come rara testimonianza, come analisi preziosa di un tipo di padre-patriarca dalla duplice faccia: una sociale, gioviale ed estroversa, “simpatica” verso i pari (oppure ossequente e servile verso le “persone importanti”), e l’altra, riservata alla famiglia, opprimente, petulante, demolitrice, gelosa, tesa a smontare sistematicamente con l’ironia ogni spunto di felicità e di vita, ogni aspirazione all’amicizia e all’amore (in questo campo il padre di Kafka tormenta le altre figlie almeno quanto Franz).
Nella famiglia che è suo rifugio e suo sostegno, il patriarca kafkiano lotta costantemente per la demolizione del mondo esterno alla famiglia, dove potrebbero annidarsi contestatori e contestatrici della sua autorità familiare: nemici e nemiche. Egli, il padre, è e deve rimanere l’unico, il diverso da tutti gli altri. Se egli è brutale è perché “non sa mentire” come fanno “quegli altri padri”. La sua vita, i suoi stenti, sono stati eccezionali. Solo lui ha sofferto, ed ora subisce l’ingratitudine di figli cresciuti nella bambagia, cui ha dedicato la sua vita e il suo lavoro («Che ne sanno i figli? Nessuno ha passato quello che ho passato io! Come può capirlo oggi un figlio?»).
Sin qui ho cercato di condensare – con il rischio di non rendere giustizia alla complessità del testo kafkiano – il ritratto del padre-patriarca-tiranno che emerge a tinte forti dalla Lettera. Non solo di paura e terrori scrive Kafka. Fin quasi dalle prime righe della Lettera, agli smascheramenti, alle accuse veementi, alle ritorsioni si mescola una protesta d’amore, un rimpianto di tenerezza negata:
«non posso credere che con una parola gentile, uno sguardo affettuoso, prendendomi per mano in silenzio, non si sarebbe ottenuto da me ciò che si voleva».
«Tu hai anche un modo di sorridere particolarmente bello e molto raro, un sorriso silenzioso, appagato, di approvazione, che rende felice colui al quale è diretto».
Ma questo sorriso, questa approvazione non sono – o non sono più – per Franz:
«Non riesco a ricordare se nell’infanzia mi sia stato espressamente rivolto, ma penso possa essere accaduto, e perché avresti dovuto negarmelo allora, quando ti sembravo ancora innocente ed ero la tua grande speranza?»
L’amore del padre è per altri, e per il padre Kafka nutre fino alla fine, un amore non corrisposto che lo consuma, e che assume dimensioni assolute, come egli stesso rivela, riferendo una sconcertante fantasia ricorrente nella sua giovinezza: lui e il padre soli al mondo. Ma
«se al mondo ci fossimo stati solo noi due la purezza del mondo sarebbe unita con te, e con me sarebbe cominciata, grazie al tuo consiglio, la sporcizia».
Questa frase, che colpisce per la sua analogia con i pensieri che Giobbe rivolge a Dio (“mi hai fatto bianco ... mi hai rotolato nel fango”), accenna a un punto cruciale, a una tragica confusione simbolica, a una ingiustizia primaria di cui Franz Kafka è spettatore e vittima.
È sconcertante l’esclusività – almeno apparente – dell’amore di Kafka per il padre. Sembra quasi che non vi sia alcuna mediazione positiva dell’amore materno. Eppure è evidente sullo sfondo la presenza di una madre affettuosa e intelligente, ma talmente esautorata che tutto il problema dell’amore, dello scambio emotivo, del riconoscimento si accentra sulla figura del padre.
«Certo, la mamma era infinitamente buona con me, ma per me ogni cosa si situava in rapporto a te, vale a dire in un cattivo rapporto. La mamma rivestiva inconsciamente il ruolo del battitore in una partita di caccia»
Con quest’ultima terribile frase Kafka vuoi dire che la madre senza volere impediva l’emancipazione del bambino dalla tirannia del padre: la madre avrebbe ricondotto alla saggezza, all’obbedienza qualsiasi moto (improbabile, precisa l’autore) di ribellione; la madre equilibrava in modo nefasto l’insopportabile durezza paterna; ancor più: soccorrendo il figlio segretamente, consolandolo, la madre ne peggiorava la situazione, tanto che di fronte al padre tornava ad essere
«il figlio pusillanime, l’impostore, il colpevole che a causa della sua viltà riusciva ad ottenere solo per vie traverse anche ciò che riteneva un suo diritto.»
Eppure, senza il sostegno materno, Kafka semplicemente non sarebbe rimasto in vita. La sua recriminazione va forse intesa proprio in questo senso: la madre lo restituisce a una vita intollerabile, dove egli è in balia del padre, dove vige un ordine assolutamente paterno, dove la madre non conta, dove l’amore della madre per i figli viene tradotto con “viziare”, dove le questioni capitali vengono definite da parole maschili, particolarmente rozze e brutali. La madre certamente non è trasparente agli occhi di Kafka: egli le serba affetto, comprende la sua difficile situazione in famiglia, squassata com’è dagli eterni conflitti che si svolgono tra il marito e il figlio, tra il marito e le figlie; egli vede anche con lucidità come la madre sia riuscita, unica nella corte del tiranno, a ritagliarsi uno spazio dl autonomia e di rispetto, un risultato ottenuto con le ultime energie disponibili. Ma in fondo non le perdona l’inevitabile inefficacia, la sostanziale impotenza a difendere realmente i figli.
La madre a Kafka appare indissolubilmente legata, in ultima istanza, al punto di vista paterno.
La questione è complessa. Da una parte c’è il fatto che il padre non poteva sopportare nessuno in famiglia, ad eccezione di sua moglie, che era la sua unica sorgente affettiva. Non che egli avesse amato “solo lei” (amò anche le figlie, sporadicamente e in misura della loro sottomissione), ma di lei aveva un bisogno assoluto, primario, e certamente da lei assorbiva, anche a scapito dei figli, cure materne.
D’altra parte la madre accettava questa priorità del marito come figlio tra i figli. Da un punto di vista freudiano il matrimonio dei genitori di Kafka non era un cattivo matrimonio.
La madre, abbiamo visto, era sollecita con il piccolo Franz, lo coccolava e lo “viziava”. Ma per esempio nell’episodio citato, in cui il padre chiuse Franz fuori casa, che parte avrà avuto lei? Probabilmente avrà sofferto per il figlio e per la rozzezza del marito, ma certamente non aveva l’autorevolezza per intervenire fattivamente, per modificare la situazione.
Kafka riferisce due episodi, simili ma svoltisi a distanza di anni, che mi sembrano importanti per capire il nucleo della sua sofferenza. Nel primo, vediamo Franz adolescente che, mentre passeggia per strada con i genitori, avvia nervosamente tutto in discorso sulla questione sessuale, fa delle rimostranze perché non gli si è parlato di cose che “per fortuna” ormai ha appreso dai compagni ecc. È angosciato, ma il suo discorrere butta sugli aspetti pratico/sanitari del rapporto sessuale, in certo senso è lui che proprio mette fuori pista il padre, il quale non comprende l’angoscia di Franz e si mette a dare consigli pratici – prendendo il figlio alla lettera – su come evitare le malattie e via di seguito. Il figlio è scandalizzato da quello che gli sembra cinismo del padre, e anche da quella che gli sembra connivenza della madre, che è presente e non ha nulla da obiettare. Direi che Franz interpella i genitori insieme, non tanto perché gli mancherebbe il coraggio di interpellare il padre da solo, ma perché gliene mancano le motivazioni. Rivolgendosi ai genitori non è di questioni sanitarie che vorrebbe sentir parlare: vorrebbe piuttosto cogliere il segreto del loro amore e dell’amore in generale.
Il secondo episodio è relativo a un’orribile scenata che il padre fa a Franz, ormai da lungo tempo adulto, a proposito di Julia, l’ultima fidanzata: lo accusa di essere stato accalappiato come un babbeo da una che chissà quali arti seduttive ha usato:
«Quella si dev’essere messa addosso una camicetta elegante, le ebree di Praga ci sanno fare, e tu naturalmente hai deciso subito di sposarla [...] Io non ti capisco, insomma, sei un uomo maturo, vivi in città e non sai far di meglio che sposare la prima arrivata. Non credi che ci siano altre soluzioni? Se hai paura, vengo lo conte».
La madre assiste all’inizio della scena, poi esce. Kafka sembra appena accorgersi che l’uscita della madre potrebbe essere un dissenso a ciò che va dicendo il marito. Aggredito verbalmente dal padre, è confuso e umiliato, come tramortito. È sconvolto per l'idea che gli viene suggerita dei rapporti tra uomo e donna, dallo sproloquio paterno in presenza della moglie, esattamente come nell’episodio di vent’anni addietro. Ovviamente per noi è impossibile sapere come le cose fossero davvero andate, ma forse la madre era rimasta molto turbata. Anche se lei stessa appoggiava l’opposizione del marito al nuovo progetto matrimoniale di Franz, certamente non poteva farle piacere sentire il marito che si offriva di accompagnare il figlio al bordello.
È parlando di questi episodi che Kafka riferisce la fantasia citata sopra: lui e il padre sono soli al mondo, la purezza finisce con il padre, la sporcizia comincia con il figlio.
Franz si sente buttato nella sporcizia dalle parole del padre. Gli sembra impossibile che il padre abbia potuto un tempo agire secondo gli orribili consigli che ora dà a lui. Gli sembra impossibile che il padre sia stato con prostitute. È confuso dal fatto che il padre esibisca questi argomenti davanti alla moglie. Non comprende il conflitto che su questo può esserci tra i genitori, la sofferenza o la rimozione della madre, e l’eros che c’è tra i due nonostante il conflitto. La visione del padre gli fa confondere eros e prostituzione e lo induce a persistere in una visione infantile e idealistica dell’amore coniugale:
«anche il matrimonio mi sembrava una cosa sporca e mi era impossibile applicare ai miei genitori ciò che in genere avevo udito al riguardo.»
E come gli sfugge la dimensione sessuale dell’amore dei genitori, Kafka si sforza di cancellare la dimensione sessuale dal matrimonio in generale. Per quanto sia ovvio che la Lettera contiene, oltre a corrosive verità, una certa dose di menzogne destinate al padre per farsi ben volere, è sconcertante che un’intelligenza come quella di Kafka – con la sua istintiva ripugnanza per un certo tipo di retorica e di sentimentalismo – se ne esca con proclami tipo:
«Sposarsi, fondare una famiglia, accettare tutti i figli che possano giungere, provvedere a loro in questo mondo cosi poco sicuro, dar loro anche qualche direttiva, questo è il traguardo più alto, ne sono convinto cui può arrivare un uomo».
Il guaio è che questa menzogna, questo occultamento della sessualità reale, anche la propria, è stata ben interiorizzata, e spiega anche troppo bene la frigidità di Kafka verso le donne, o almeno verso le sventurate prescelte di volta in volta, sempre con esiti catastrofici, per l’attuazione del nobile scopo del matrimonio.
Kafka cercò in fondo di attuare, fino all’ultimo, una versione idealizzata dcl patriarchismo di suo padre. Figlio sfortunato di un patriarca di tipo medio, persistette nell’impresa impossibile di essere a sua volta un patriarca illuminato. Nel suo dolore, nel fallimento dei suoi progetti, egli è stato tuttavia un uomo molto diverso dal suo stesso ingannevole ideale, e ci ha lasciato rari frammenti di verità.
Gastone Redetti
1) Franz Kafka, Lettera al padre, Feltrinelli 1993. Traduzione di Claudio Groff