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Gastone Redetti

Se le relazioni vengono al primo posto

da Miopia n.35, maggio 2000, numero monotematico UNO SGUARDO AD ORIENTE,
(Titolo originario: Quale intelligenza, quale politica / Se le relazioni vengono al primo posto)


 

Siamo abituati a pensare che è necessario “avere un’opinione”, sostenerla, discutere, forzare l’intelligenza ai fini della dimostrazione. Il che è tutt’uno con l’imperativo di “farsi valere”, essere competitivi.

Ma gli aspetti più vitali dell’intelligenza, l’intuizione, la creatività si sviluppano - come oggi è ben noto - nel rilassamento, mentre si atrofizzano nella tensione coatta della competizione.

Il buddhismo ha tra l’altro il merito di intaccare quella radicata abitudine (non solo occidentale) ad aggrapparsi all’opinione, al pensiero, e invita a rivolgersi ai dati dell’esperienza più diretti, intuitivi, non inquinati.

I maschi occidentali sono, di solito, fortemente sollecitati fin da bambini a reprimere gli aspetti intuitivi e a sviluppare invece doti utili all’autoaffermazione. La volontà o l’ansia di autoaffermazione può concretizzarsi, tra altre forme, in un bisogno coattivo di dimostrare la propria intelligenza.

“Nell’uomo è l’intelligenza che conta”, recita un vecchio adagio. Ma che tipo di intelligenza veniva/viene chiesta socialmente ad un uomo? Direi un’intelligenza analitica senza oggetto, polemica, “sofistica” cioè sganciata da un consapevole impegno emotivo. E’ richiesta un’intelligenza strumentale, produttiva. Il pensiero è posto al servizio della competizione, in tanti campi. Il gioco degli scacchi è un esempio di pensiero analitico non verbale finalizzato alla competizione: tra due giocatori di scacchi, apparentemente serafici e dediti pacatamente a un rito comune, corre una forte tensione, un’aggressività silenziosa: ognuno vuole sopraffare l’altro, non soccombere, imporre la propria superiorità intellettiva, poter annunciare lo scacco dell’altro con apparente distacco. Senza il premio di questo piacere perverso, nessuno giocherebbe a scacchi (e infatti la diffusione di bellissimi programmi per computer grazie ai quali chiunque può “battersi” agli scacchi con il computer a qualsiasi grado di difficoltà, anziché rilanciare il gioco, sembra averlo affossato definitivamente).

La psicologia buddhista non si sofferma soltanto sul pensiero analitico-competitivo: contempla anche il rimuginare, la recriminazione, il desiderio per cose impossibili ecc. Mi sembra però che il pensiero analitico-competitivo abbia un ruolo speciale in quella che i buddhisti chiamano identificazione con le proprie opinioni. Un’opinione non è altro che un’opinione, ma un’opinione che considero “giusta”, migliore delle altre, e sulla quale non ho una traccia di dubbio, una riserva, è già un seme di futura violenza, non solo verbale.

Parlo per esperienza diretta, perché da ragazzino ho sofferto anch’io come moltissimi altri di un certo agonismo teso a dimostrare o confermare l’intelligenza analitica che ci si aspettava da me. Questo agonismo prendeva spesso, temo, la forma della saccenteria, ma anche di un’ironia caustica verso le persone, che assumevo da modelli che mi erano vicini.

Mi sono trovato a pensare che questo orientamento mentale era in qualche modo omogeneo a un lato “serio” della vita, cioè alla politica militante, in cui mi sono trovato coinvolto giovanissimo, anzi bambino (avevo 10-11 anni). L’eccessiva semplificazione che i temi politici possono avere in una mente troppo giovane, era incoraggiata da un clima politico che, già allora, era molto “semplificato”, basato su una contrapposizione di blocchi.

La politica degli uomini

Direi che alla base dello stile politico che ho conosciuto da giovanissimo c’era una forte “identificazione con la propria opinione”, anzi con un’opinione collettiva giudicata “giusta” senza alcuna riserva. Tuttavia, un militante non avrebbe mai detto di muoversi in base a un’“opinione”, bensì in base a delle “ragioni”. Ciò conduce al culto dello schieramento, al senso di “battaglie” che devono essere condotte, al gusto della polemica, alla demonizzazione degli avversari, fino alla legittimazione della guerra.

L’avversario politico era, ed è ancora, qualcuno che ha torto, e che, allora come oggi, potrebbe essere guardato con simpatia se cambiasse bandiera, se diventasse “uno dei nostri”, se abiurasse.

Se leggiamo gli atti del processo dell’Inquisizione contro Galilei, ci sgomenta la violenza, l’accanimento ecclesiastico contro quell’uomo solo, vecchio, malato, fino a che non viene estorta l’abiura, cioè il ritiro di un’opinione. Eppure nella politica militante, come io l’ho conosciuta (e come la vedo ancora nello stile dei dibattiti in TV), c’era qualcosa di quel terribile furore ideologico, la stessa mancanza di compassione, la stessa cecità umana da cui, dove le circostanze lo hanno consentito, è scaturito l’uso dell’intimidazione, del terrore, della tortura.

A chi “faceva politica” non era richiesta solo la presenza, la partecipazione costruttiva, ma una certa agitazione e animosità, che veniva usata non solo contro gli avversari, ma anche contro gli alleati, che, se fossero stati veramente a posto, si sarebbero iscritti al “nostro” partito e non a quell’altro o, peggio ancora, a nessun partito (la qualifica di “cane sciolto” non era certo un complimento).

Se uso termini e riferimenti propri della sinistra marxista, è perché voglio riferirmi alla mia esperienza diretta della politica. Non credo però che si possa addebitare al marxismo la responsabilità di tutto uno stile politico. Lo spirito di aspra contrapposizione, la demonizzazione degli avversari ecc., animavano anche le altre parti politiche (uno spirito diverso, non guerresco e realmente moderato avrebbe reso una politica automaticamente minoritaria, oggi si direbbe “perdente”). Il terrorismo ideologico cattolico era meno individuabile perché la società ne era impregnata, vi era assuefatta. Il dogmatismo ideologico occidentale ha del resto radici lontane almeno quanto la fondazione - con Costantino - dell’impero teocratico e le dispute teologiche.

Inoltre credo che si debba riconoscere come alla base dei movimenti della sinistra ci fosse un’autentica esperienza della sofferenza sociale, lo sfruttamento patito da molti, la speranza di un riscatto umano, di rapporti più alti di quelli che la società considerava normali.

Ma alle istanze di una solidarietà profonda, sentita con il cuore perché aveva le radici nella sofferenza, si sovrapponeva un “collante” di altro genere, l’ideologia, un credo basato su un’interpretazione molto semplificata e rigida della realtà. Senza una forte identificazione con l’ideologia, con la linea collettiva, non sarebbe stato possibile il dovuto grado di animosità contro gli avversari.

Anche i rapporti interpersonali tra compagni erano condizionati negativamente dall’identificazione con l’ideologia. Ciò che era extra-ideologico restava nell’ombra, e spesso contro quest’ombra si combatteva apertamente. Alcuni militanti esprimevano il pensiero: “non può esistere amicizia tra compagni”. La compassione era fuori luogo: poteva essere una caratteristica personale, o forse una debolezza sentimentale, ma non doveva intralciare la via. Il fine giustifica i mezzi, se si è convinti senza alcuna riserva della “bontà” del fine. Non che la compassione fosse negata in linea di principio, ma era spostata dal momento presente a un piano generale, astratto, nello stesso modo in cui tutti i problemi “non politici” sarebbero stati risolti nella società che “il socialismo scientifico” avrebbe definito.

Le malattie dell’io erano in definitiva cronicizzate dalla militanza politica, che rendeva vane le potenzialità terapeutiche offerte dalle relazioni interpersonali profonde. L’amicizia, l’amore, erano visti con sospetto dalla mentalità politica. L’amore era accettato come inevitabile realtà fisiologica, e doveva comunque essere confinato strettamente nel privato. L’amicizia era già di per sè considerata più pericolosa. E l’amore con amicizia, la fedeltà personale erano sentite come una minaccia al funzionamento gerarchico.

Le donne, nella vecchia politica di sinistra, erano per lo più relegate alla realtà subordinata del privato. Per molti militanti maschi la famiglia e la donna non erano “ciò che veramente conta”. Prima veniva il partito. Le donne potevano cooptarsi alla militanza, ma se cercavano di far valere motivi più profondi tratti dalla loro esperienza, se avanzavano pretese, venivano respinte con autoritarismo. Ogni atteggiamento femminile personale, non conforme, poteva essere attaccato come “piccolo borghese”. Non a caso proprio nella sinistra c’è stata una fortissima resistenza al femminismo e al concetto “ciò che è privato è pubblico”, che le femministe sostenevano.

Nel pensiero femminista da anni si cerca una ridefinizione della politica, secondo un senso ampio della relazione. Molte donne non sopportano la politica del potere e cercano di cambiarla, senza un ripudio della politica in blocco, proprio perché hanno a cuore la polis.

La politica “degli uomini” non è solo un ricordo del passato. Il dogmatismo, la concezione gerarchica e guerresca e anche l’assenza delle donne dai luoghi della politica è ancora in scena. Quando si parla della disaffezione dei giovani dalla politica si dovrebbe guardare ai limiti di questa e alla cultura più complessa, relazionale, in cui le nuove generazioni crescono: a distanza di alcuni decenni, l’istruzione è diventata di massa; i viaggi con la famiglia e con la scuola ampliano la visuale, non è più possibile la ristrettezza mentale di chi non aveva mai altro orizzonte che il proprio paese, la propria zona; sono cambiati, soprattutto, i rapporti nelle famiglie: caduta la pedagogia autoritaria e l’educazione basata sulla violenza, ci si cimenta in relazioni basate sull’amore. In particolare le madri sono più libere di essere amorevoli. Le figlie e i figli che sono nati da questo mutamento antropologico non possono più identificarsi nella persistente rissosità della politica, anzi la evitano visibilmente.

 

L’importanza della relazione

Ho citato la politica maschile come luogo della nostra cultura in cui l’inflazione dell’io, le sue “malattie”, si presentano in modo particolarmente accentuato. Al militante politico vien chiesto di negare il carattere fondante della relazione, di accentuare la sua separazione dal mondo, come gli si presenta qui-ora: in un sogno di abbraccio universale, devono essere negate o svilite le relazioni reali.

Il buddhismo propone prospettive molto diverse, insistendo per esempio sulla realtà dell’interrelazione tra tutti gli esseri, e quindi sull’identità con quelli che consideriamo “gli avversari”. I buddhisti orientali impegnati politicamente sul tema della pace insistono sul pericolo che lo stesso pacifismo sia un altro modo di fare la guerra, e invitano appunto a identificarsi anche con gli “avversari”: rispondendo all’odio con altro odio si otterrebbe solo di aggravare il male, la confusione, l’animosità. Critiche analoghe al pacifismo militante sono state formulate anche dal movimento delle donne.

Tuttavia, nonostante l’attitudine a cercare le affinità con l’“altro” lontano, il buddhismo tradizionale mostra una certa sottovalutazione e mancanza di comprensione per alcune relazioni “vicine”, in primo luogo la relazione tra donna e uomo e quella tra genitori e figli, vistosamente evitate nella “semplificazione” della vita conventuale. L’evitamento della relazione, e più ancora il disconoscimento di relazioni di cui si fruisce, appare come un problema prettamente maschile. L’atteggiamento maschile coltivato in occidente può trovare in certi aspetti del buddhismo l’occasione di accentuare un’idea di separazione dell’io, di “distacco” ecc., sortendo cioè effetti opposti allo spirito di fondo del buddhismo. Alcuni maestri orientali, colpiti dalla freddezza occidentale, mettono in guardia proprio dal desiderio di “distacco”.

In occidente il problema della relazione è oggi particolare oggetto di discussione: come detto sopra, è una questione di fondo nella politica delle donne.

Anche in ambito buddhista la relazione è un problema dibattuto. Scrive per esempio, a questo proposito, Corrado Pensa:

«A questo punto occorre fare una breve digressione per domandarci se non sia eccessiva l’insistenza che finora abbiamo posto sulla relazione (con se stessi, con gli altri). Io penserei di no, per le seguenti ragioni: a) anzitutto questa sottolineatura si rende necessaria per riequilibrare la bilancia che, nel discorso sapienziale, sembra pendere troppo, in genere, dalla parte della meditazione solitaria e troppo poco su ciò che possiamo chiamare la consapevolezza in relazione ... b) se la via interiore, la consapevolezza, non deve essere solo per chi vive la vita difficile ma ordinata del monastero, allora, si sa, la relazione con gli altri e la continua sfida che ciò comporta per la nostra identità e dunque per la relazione con noi stessi si fa molto più presente e pressante, e la frontiera del lavoro interiore non potrà che passare per il rapporto; c) la consapevolezza in relazione è in sé una via alla trascendenza, a patto che non venga lasciata a un livello embrionale».

La correzione del buddhismo proposta dalle buddhiste femministe, nel senso di un riconoscimento della relazione (cfr. l’articolo di Elena su Rita Gross nelle pagine precedenti)*, è poi particolarmente preziosa perché aggiunge un imprescindibile discorso sessuato sulla relazione.

La relazione è un fattore potente di relativizzazione dell’io, dalla relazione viene un insegnamento “buddhista” che precede il pensiero buddhista. In realtà siamo vivi, possiamo continuare a vivere solo perché siamo nutriti dalle relazioni con altri esseri. Dall’amore (erotico, ma non solo) ci viene un insegnamento: il mondo non è fatto di tanti io separati, non è come ce lo ha presentato l’ossessionata filosofia occidentale da Cartesio a Leibniz a Kant. Non è né l’oggetto di un’unica coscienza né un’aggregato di tante coscienze incomunicanti.

Il pensiero buddhista insiste spesso sull’impermanenza di ogni felicità che non sia la pace dell’illuminazione, sulla fallacità della gioia ordinaria: ci sono esercizi tradizionali che consistono nell’osservare (o immaginare) la decomposizione di un cadavere, nel vedere il teschio sotto il viso della persona più cara ecc., una visuale non tanto diversa dal cupo “memento mori” con cui si è castigata l’umanità cristiana. Anche a proposito della gioia, della corporeità, della sessualità, l’apporto del femminismo buddhista è prezioso.

Certo la felicità non è tesaurizzabile, ma forse a volte sfugge che la felicità, anche quella “comune”, non è “avere quello che si vuole”, non è quello che viene descritto da varie esemplificazioni di chi tratta l’argomento (“voglio quel lavoro, quell’oggetto, quel riconoscimento, un amore”). La felicità è uno stato di percezione non ordinaria, legata spesso a un profondo rilassamento e alla caduta dei pregiudizi mentali. E’ uno svelamento, non l’appagamento del desiderio di potenza o di possesso dell’io. E anche se impermanente e non tesaurizzabile, la felicità è in fondo un fugace sguardo sull’eternità e sull’impermanenza, sul momento presente, sull’interessere; è sintonia con gli esseri, con gli animali, le piante, le rocce, con tutta la circolazione della vita. A questo proposito altre culture, come quelle amerinde, ci vengono in soccorso, ci insegnano la spiritualità della natura, ci rivelano che anche gli animali sono i nostri guru (e che in realtà non abbiamo una posizione privilegiata, una nascita particolarmente fortunata).

Si sente la necessità di una maggiore attenzione agli insegnamenti positivi della vita ordinaria: se è importante meditare sull’impermanenza della gioia, occorre anche imparare a dare spazio alla gioia, a coltivare la felicità. Non è valida solo la gioia che deriverà dalla meditazione, perché la gioia è di per sè un elemento spirituale che può essere condotto in un ambito di maggiore consapevolezza. Si tratta di riconoscere l’esistenza della felicità nella vita, il suo valore, le condizioni in cui può esistere e in cui no (anche un’insistenza eccessiva sull’equanimità, cioè la pretesa di indifferenza rispetto alle condizioni esterne, può essere uno dei modi in cui viene rafforzata una tendenza solipsitica maschile).

Certo vi sono molti aspetti della felicità; penso per esempio a quella attenzione alle cose, alla corporeità degli oggetti, un frutto, un bicchiere, a quei dati “sensuali” dell’esperienza, a quella gioia meditativa espressa spesso da Thich Nhat Hanh2.

Ma ciò che nel buddhismo, come in altre culture patriarcali, proprio non troviamo, è una “volontà di felicità” che è femminile, che non ha nulla a che vedere con l’inflazione dell’ego, con la volontà di potenza. Questa volontà femminile di felicità, che si attua persino nelle condizioni più dure e restrittive, è il nutrimento non riconosciuto della psiche collettiva. Riconoscere l’esistenza di questo nutrimento, accogliere l’autorità femminile, rimettersi all’estro non è secondo me solo la premessa di un’eterosessualità non patriarcale, ma anche di quella che viene chiamata una via spirituale.

Gastone Redetti

1) Corrado Pensa, La tranquilla passione, Astrolabio-Ubaldini, 1994, p.51.

2) Tra i numerosi volumi di Thich Nhat Hanh pubblicati da Astrolabio-Ubaldini, segnaliamo: Il sole il mio cuore, 1990; Essere pace, 1989.

*) L’articolo di Elena Fogarolo sopra citato è stato pubblicato nella sezione LIBRI degli archivi nel mese di settembre 2014.

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