Elena Fogarolo
Quella musica estranea
A proposito del film “Music Box”
Da Miopia n.17, giugno 1993
Per chi non avesse visto il film, o lo avesse visto tempo fa e non ne avesse un ricordo chiaro, ecco la trama, semplicissima: Ann Talbot, una giovane e affermata avvocata, viene informata che il proprio padre, un ungherese immigrato in America nel 1952, è accusato di essere un criminale di guerra. Il padre vuole essere difeso dalla figlia, che riesce a farlo assolvere per insufficienza di prove. All’ultimo momento, alcune foto saltate fuori da un carillon (music box) dimostrano che il padre era veramente colpevole delle atrocità di cui era stato accusato. Ann spedisce le nuove prove all’accusa, e lascia il padre al suo destino.
Il film è molto bello: per la storia, per la regia, per la suspence che riesce a creare.
La prima volta che l’ho visto, sono rimasta sulla corda fino alla fine: il padre è colpevole oppure no? Mi portava a pensarlo colpevole la sua retorica, anche se non avevo altri elementi per giudicare.
Tiro fuori questo film in riferimento alle vicende della Bosnia, perché mi era rimasto molto impresso soprattutto per un motivo: l’ignoranza delle donne per quanto riguarda la vita maschile.
Non so se descrivere questa ignoranza fosse un chiaro intento di Gavras, o se gli sia venuto per così dire naturale.
Ann all’inizio, quando sente che il padre è accusato di essere un criminale di guerra, persino ride: “ma avete sbagliato persona!”; e al padre: “io ti salverò”.
Il riso di Ann avrà però breve durata; appena si metterà a consultare seriamente la documentazione, in suo possesso, dei crimini orribili che un uomo (sia o non sia suo padre) ha commesso, Ann perde l’innocenza direi innaturalmente infantile che la pervadeva: il male esiste davvero. Il tenace affetto che lega Ann al padre, l’astuzia di lui nel tenerla sotto il suo dominio psicologico facendo la parte del bambino indifeso, del povero contadino, di quello che si era arruolato in polizia per la bella divisa e le belle musiche, il sorridere del padre ad Ann nel mostrarsi così sciocchino, così candido, sono tutti elementi che portano Ann ad ancorarsi all’idea dell'innocenza paterna.
E tuttavia Ann, appunto, non sorride più: entra un po’ alla volta nelle pieghe di una psicologia che le è estranea, di un uomo che è troppo intelligente per essere chiamato mostro. L’affetto dice “impossibile!”, ma la ragione, un poco alla volta, dice “possibile”.
Alla fine, quando le capiteranno in mano le foto di un padre giovane, col viso duro, i gesti tronfi, la rivoltella puntata ora sulla testa di un uomo inerme, ora su una bambina, lo stupore di Ann sarà solo parziale: una parte di lei “sapeva” già.
Fino a poco tempo fa io sostenevo l’accesso delle donne all’esercito, non tanto come un diritto ma come un dovere: pensavo che se è vero che le donne sono intrinsecamente più pacifiche, questo agli eserciti non avrebbe fatto che bene. Pensavo inoltre che l’altra metà del cielo dovesse vedere la guerra da vicino, per capirla.
Ora penso che fare il soldato non sia l’unico modo per capire la guerra: ma che dobbiamo, anche noi donne, capire la guerra, questo mi sembra ancora un imperativo, e sempre più pressante.
Fare le infermiere e portare soccorsi alle vittime è certo umano e meraviglioso, ma ci relega ad un ruolo subalterno, l’eterno ruolo di sempre: curare i feriti che i maschi hanno appunto ferito.
Bisogna invece impedire che i maschi feriscano e uccidano e distruggano.
Nel film che ho preso a pretesto per questa riflessione, l’attrice Jessica Lange forse non dà una interpretazione straordinaria: dà una discreta interpretazione da brava professionista che recita se stessa più che un’avvocata. Una se stessa tutta protesa verso gli altri, dai mille gesti/segnali di pace, affettivi: sorrisi, abbracci, parole. Ti viene da pensare: se a tutta questa capacità di capire il prossimo si aggiungesse la forza di fare politica, di dire no, che ricchezza sarebbe per l’umanità!
Abbiamo detto che i maschi fanno la guerra: ma quali, quanti maschi? In sostanza: i maschi giovani.
Ma più aumenta la scolarizzazione, più aumentano gli obiettori. Dietro ad un obiettore c’è spesso una famiglia che lo appoggia: un padre, un uomo adulto che rinnega la furia distruttrice dei giovani maschi, una madre, una donna matura che pure non vuole il proprio figlio ridotto a cane da guerra; una sorella, una fidanzata, che guardano con amore ad un giovane uomo che dice “io non voglio combattere”
Quando ero bambina, mio padre rievocava spesso la seconda guerra mondiale. E ricordo la tetra profezia: “ogni generazione una guerra”, e pensavo che avevo tre fratelli, e che avrei sofferto come una bestia. Odiavo la guerra, odiavo i film western dove piangevo per la comparsa più derelitta che cadeva colpita a morte in una parte marginale dello schermo: tanto più era derelitta, tanto più mi faceva pena. E, anche se tentavo, non riuscivo a convincermi che era finto: e piangevo.
Questa musica estranea alle donne che attrae i giovani maschi verso una festa di violenza e di sangue ha sicuramente perso molto del suo fascino: perché viene smascherata. Le bandiere, il cameratismo, la patria, sono ancora parole che hanno corso corrente, ma sempre più sono le persone che sollevano i veli, e mostrano fango, morti miserevoli, prevaricazione, caos, arroganza.
I film sul Vietnam hanno mostrato come nessuno prima l’orrore della guerra. Molti registi si erano cimentati anche sulle guerre precedenti, alcuni avevano voluto mostrare ad esempio l’orrore della vita nelle trincee della prima guerra mondiale. Ma la maggior parte dei film di guerra era del tipo commerciale-patriottico: ho visto un sacco di film sulla seconda guerra mondiale, non piangevo nemmeno tanto erano pulitini. Ogni tanto qualche scoppio di lontano, con qualcuno in primo piano che diceva “che dolore! Ma dovevamo farlo...”, “il nostro dovere è...”, “il nemico vorrebbe distruggerci ma noi lo colpiremo...”, ecc. ecc.
Quello che accade nell’ex Jugoslavia è orribile. Ma, forse sbagliando, io sono sollevata dal fatto che nessuno arda dall’intervenire, che non ci siano, mi pare per la prima volta, tanti falchi vogliosi - con parole piene di giustizia - di andar lì ad ammazzare i cattivi.
Certo un piano fulmineo, che bloccasse tutto e impedisse la guerra civile, chi non lo vorrebbe? Ma il piano fulmineo, e nessuno per una volta lo nasconde, non sarebbe abbastanza fulmineo da non fare comunque una strage.
Nel film Music box vediamo alla fine la protagonista che prende per mano il figlio dodicenne e lo porta su una panchina per spiegargli del nonno, del male che ha fatto. Cosa gli dirà?
Cosa diremo? Forse siamo estranee alla guerra, ma non siamo estranee né impotenti verso una cultura in cui la condanna alla guerra dipende ormai anche da noi. Perché ormai, anche se non sappiamo tutto, sappiamo abbastanza.
Il padre criminale del film assomiglia psicologicamente alla maggior parte degli uomini: non risponde a tono, parla di altro, i suoi sentimenti sono avvolti di retorica, deve trovarsi dei nemici da odiare visceralmente (i comunisti), e sembra essere convinto (anche se il suo pensiero è espresso in modo più elementare) che l’abito fa il monaco. Il tempo in cui indossava la divisa e faceva cose “normali” per un soldato... che ne può sapere la sua cara, brava Ann? Ora egli è un padre brizzolato, con il suo vestito borghese blu scuro, che ordina al figlio maschio di presentarsi in tribunale ugualmente ben vestito.
«Dove saranno quei mascalzoni in passamontagna, versione europea e giacobina del Ku-Klux-Klan... che irrisero, insultarono, gambizzarono in tutta Italia?». Con queste parole Ferdinando Adornato - nella prefazione a I giorni dell’ombra di Guido Petter - si riferisce alla violenza di alcune frange studentesche degli anni Settanta, e al trasformismo dei violenti. Ora leghisti o manager pubblicitari, quei giovani già «rivoluzionari» hanno cambiato vestito come il padre di Ann. E con il vestito nuovo hanno indossato una nuova coscienza.
Elena Fogarolo