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Elena Fogarolo

Elogio del bar

Da Miopia n.5/6, Maggio 1990

 

Questo testo, pubblicato nel numero 5/6 di Miopia (Maggio 1990) e firmato con lo pseudonimo Tomboy, è tratto da un capitolo del saggio inedito Le schiave, che Elena Fogarolo scrisse negli anni '80.

Nel più sperduto paese, nelle piccole frazioni dove non c’è nemmeno la chiesa ma solo una cappella dove il prete dice messa una volta l’anno, lì dove quattro case ad un crocicchio non fanno nemmeno frazione, c’è comunque un bar, che magari dà il nome a quell’agglomerato di case. Se non proprio il bar, ci sarà almeno un’osteria, magari con un banco dove si vendono anche un po’ di alimentari.

Il bar è forse l’unica struttura sociale che troviamo dappertutto, nel Nord Italia come nel Sud, nelle città come nei paesi. Chi frequenta il bar? Tutti i ceti sociali. Il bar è la testimonianza concreta che siamo in un paese democratico: al bar infatti vanno il possidente e l’alcolizzato pieno di debiti, il democristiano e il comunista e il fascista, quello che si interessa solo di sport e quello che parla solo di politica. Vanno gli scrittori e i pittori, gli intellettuali, i pazzi, i maniaci. Vanno gli operai i poliziotti i cassintegrati i disoccupati. Gli ingegneri gli assessori il sindaco gli industriali.

Sono tutti uguali, nei bar. Parlano di tutto, a voce alta e chiara. Si può ascoltare tutto.

Il bar assume però la sua intera e completa funzione democratica nei paesi: lì al bar ci vanno tutti, non esistono circoli più ristretti dove i potenti possono parlare perché di potenti ce ne sono troppo pochi, non ci sarebbe sugo.

In città o in campagna, il bar è comunque l’autentico centro umano dove, offrendosi un bicchiere di vino, le persone quotidianamente si incontrano, discutono, aggiustano le loro posizioni in un lavorio incessante e senza fine. Le differenze di censo e di lavoro sono messe tra parentesi: nel bar tutti si è uguali, si realizzano i valori più profondi della nostra democrazia. Anche le stranezze umane vi vengono accettate: c’è quello che è ubriaco alle sette del mattino, quello che si siede in un angolo col giornale e non dice una parola, quello che parla sempre, quello che tenta di scroccare cicche a tutti.

Nel bar si nota l’assenza di uno, si sa che è malato, magari poi muore. Nei bar si parla di ospedali, di malattie, qualche riflessione filosofica ci scappa sempre: dalla democrazia del bar si guarda con una certa superiorità alla società che in apparenza divide con le sue abitazioni più o meno lussuose, con le automobili più o meno di prestigio, ecc.

Nel bar si esercita la critica su tutto e su tutti. Così, per esempio, è difficile che i preti vedano di buon occhio il bar, perché anche il loro operato viene sezionato tranquillamente, senza alcun timore. Solo gli uomini molto praticanti si vantavano, fino a pochi anni fa, di non andare in bar. Gli altri, per quanto legati alla famiglia e risparmiatori, mettevano il costo di un’ordinazione al bar fra le spese necessarie.

 

Penso che si sia ormai capito dove voglio andare a parare: questa istituzione democratica, economica, o comunque in armonia con le finanze degli vicini abitanti, aperta dal mattino fino a notte fonda, dove la gente impara a rispettarsi e a discutere, questa egualitaria istituzione è tabù per le donne.

In un recente passato, si trattava di un tabù in senso stretto e concreto: se, donna, entravi in un bar, ti guardavano male. Diventavi, appena osavi varcare una di quelle soglie, una donna di tutti, una prostituta. Per scacciarti ti offendevano, ti ridicolizzavano, ti facevano fisicamente male scimmiottando delle orribili carezze sessuali. Sia in città che in campagna, il bar era dunque un luogo tassativamente vietato alle donne (non per legge però). Una donna seria non doveva farsi vedere in un bar altrimenti si sarebbe pensato che andava in un territorio maschile per vendere il suo corpo.

Ora, una donna può entrare in un bar. Se ci entri durante la mattinata venendo dall’ufficio vicino e ordini un cappuccino, va bene. Tra l’altro a quell’ora il bar è quasi deserto. Se nel pomeriggio entri a prendere una birra, va pure bene. In certi caffè del centro città una donna può entrare praticamente a tutte le ore; però una donna sola a mezzanotte eviterà sì delle male parole, ma gli sguardi se li tirerà comunque addosso.

Non dobbiamo pensare che il bar sia sostanzialmente cambiato. Semplicemente, in certe ore funziona come un punto di ristoro, anche per i ragazzini delle scuole che entrano a prendersi la merenda o il gelato. Per le donne e i bambini i bar tengono ora le paste, le brioche. I gestori insomma hanno aumentato il loro giro d’affari perché lo stesso locale serve a più usi. Il bar torna alle sue funzioni originali ed essenziali in certe ore precise: prima di pranzo, quando ci sono gli stuzzichini da consumare facendo quattro chiacchiere con gli amici; dopo pranzo, per il caffè. Prima di cena e soprattutto dopo, diciamo dalle nove di sera fino all’ora di chiusura.

In campagna il bar ritorna ad essere capanna degli uomini anche il giorno del mercato settimanale (il massimo è raggiunto alla domenica mattina, quando è difficile persino entrarci in certe osterie, da quanto sono affollate).

A cosa si mira, con queste descrizioni? Vogliamo forse occupare i bar con la forza, o piangere sulla povera donna scacciata da certe fetide osterie? Non so forse benissimo che nei caffè migliori una “signora” può entrare a qualsiasi ora senza essere disturbata, e che inoltre tutto il costume sta cambiando, come dimostrano, per esempio, le toilette dei bar?

Se infatti nei paesi o nei piccoli bar di periferia ti può capitare ancora di chiedere la toilette ed essere indirizzata ad un orinatoio maschile in quanto l’unico esistente, in molti bar le toilette sono pulite, moderne e doppie, per maschi e per femmine (o signore, come si preferisce). Le paninoteche, le pizzerie, le pasticcerie, sono evidentemente fatte per i due sessi.

Si tratta quindi di avere ancora un po’ di pazienza e anche le vecchie osterie di paese, considerate le entrate che porterebbe loro un look diverso, più unisex, si adegueranno ai modelli cittadini.

Scompariranno quindi le capanne degli uomini? Come in parte già avviene, molti uomini non sentiranno più la necessità di abbandonare la femmina alle sue faccende domestiche per recarsi con i compagni di tribù a parlare di cose maschili?

Attualmente le famiglie più colte stanno adeguandosi anche da noi al modello americano dove il bar non è la capanna degli uomini, anche se a volte può ospitare gruppi di uomini. Gli uomini sposati comunque non usano uscire la sera: le serate si passano con la moglie, a casa o presso amici.

Questa tendenza comincia negli ultimi anni ad essere statisticamente rilevante: tanto che si comincia a parlare di crisi dei bar.

Che tale modello americano, che tende in sostanza a restringere sempre più la vita sociale dei membri della famiglia mononucleare, presenti enormi limiti e sia tutt’altro che ottimale, è evidente da numerosi e gravi sintomi di disagio.

Disagio e tensione chiaramente mostrati, per esempio, da quel tipo di prassi e ricerca femminista che va sotto il nome di separatismo; nel caso specifico, le femministe separatiste non si sono proposte come obiettivo un inserimento delle donne nei bar ma hanno cercato invece di crearsi delle strutture alternative, delle capanne delle donne dove parlare e discutere, dove trovare quell’identità e quella socialità che, come abbiamo visto, il bar ancor oggi offre efficacemente ai maschi.

Le attuali capanne delle donne sono però rarissime e si trovano solo nelle grandi città. Inoltre non hanno, come il bar, la caratteristica essenziale di essere aperte a tutte le donne senza distinzione purché abbiano con sé quelle cinquecento lire necessarie a una consumazione. Le donne dei collettivi femministi hanno idee politiche molto precise, e la loro stessa situazione fa sì che spesso siano - anche contro voglia - molto settarie.

 

In questo contesto, quel che ora ci interessa chiarire è l’attuale situazione di isolamento delle donne.

Abbiamo visto che il più disgraziato dei maschi può trovare, con cinquecento lire in tasca, un luogo coperto e caldo nel pieno dell’inverno, quando la natura è ostile. Egli entra e nessuno gli fa domande, si può sedere in un angolo a guardare un gruppo che gioca a briscola, ascoltare altri che discutono, andare nella sala interna a vedere giocare al biliardo. Con cinquecento lire se ne può stare in quel luogo praticamente dalle otto del mattino fino all’ora di chiusura.

Ma anche senza scendere così giù nella scala della disperazione: basta che uno litighi con la moglie, abbia un nervo per capello, i bambini siano frignoni e lui voglia starsene in pace: ecco che prende su la giacca e a piedi o in macchina va al bar.

Cosa fa una moglie nell’analoga situazione? Ammesso e non concesso che trovi dove scaricare i figli, dove va di notte? Da un’amica? Ma bisogna dare spiegazioni, e poi si disturba. In un bar del centro le può anche andar bene, nessuno la disturberà ma si sentirà comunque un’estranea in mezzo a tutti quegli uomini, mentre avrebbe invece bisogno di sentirsi anonima e spersa negli altri, di assorbire il calore umano senza nome di una folla non ostile.

Anche perché molti di quegli uomini che sono al bar -se non quasi tutti- sono fuggiti da casa, sono fuggiti da una donna, dalle donne insomma. E non garba loro ritrovarsene una di nuovo nel proprio territorio. E dover stare attenti a quello che dicono, scusarsi per la bestemmia, e dire per favore. Sono uomini stanchi, uomini che vengono al bar per riposarsi di tutte quelle idiozie che rendono la vita impossibile, idiozie inventate metà dal capoufficio e metà dalle donne. Al bar si sta bene, fra uomini senza tante fisime, che non pretendono che tu capisca questo e quello, che non frignano, si tengono i fatti loro, se hanno voglia una bella urlata e basta.

Le mogli di questi uomini, si trovano sempre svantaggiate: i mariti se ne vanno al bar, si distendono, magari un avvenimento imprevisto, un succulento pettegolezzo li distrae tanto che gli va via il nervoso, neanche si ricordano che avevano litigato, tornano a casa con la voglia di trovare la moglie sveglia per raccontarlo anche a lei, quel che è successo, ma eccola là immusonita... ma cos’ha... ah sì... e non le è ancora passata? Ma ha sempre la luna ’sta donna? Ma non la può smettere? Che vipera ho sposato!

Lei il giorno dopo va a lavorare e nell’intervallo un po’ si sfoga con una qualche amica, che si sfoga a sua volta con lei “questi uomini... cosa vuoi... son fatti così”. Ma non c’è confronto con la valvola di sfogo che è il bar.

Tra le coppie colte, dove è in vigore il modello americano del “togetherness” ossia del sempre insieme caro/cara, durante le crisi lui approfitta del bar: di notte fa un giro in macchina, scende in un’osteria dove vendono sigarette, si ordina un liquore, sta lì una mezz’oretta. A questo tipo di uomo non dà fastidio se ci sono anche donne, lui non va in cerca della capanna degli uomini.

Questi irregolari consumatori di bar, non rinunciano comunque ai vantaggi del bar. Infatti in generale essi non ne hanno bisogno: la moglie è colta, gli amici e le loro mogli sono pure colti, si può discutere di tutto meglio che al bar. Non è infrequente che questi maschi rifiutino poi i bar proprio perché non ne accettano il carattere discriminatorio contro le donne, non amano questa volgare comunella degli uomini contro le donne. I bar li conoscono, han fatto parte della loro esperienza prima dell’attuale soddisfacente rapporto con questa donna. Sanno la superficialità dei discorsi, il calcio, le volgarità sessuali, il fanatismo politico.

Eppure, ripeto, anche se si tratta di una realtà umana bassa e volgare, è sempre preziosissima realtà umana cui le donne non possono ricorrere.

Che fanno alla sera le donne sole, le donne separate? Cercano strenuamente di farsi un giro di amicizie, eventualmente escono anche da sole, manca loro quel supporto cardine della nostra società che è il bar.

Sicuramente il modello americano che si sta diffondendo fra le coppie giovani è deleterio dal punto di vista sociale e politico; sicuramente uno dei motivi del cosiddetto riflusso è stato appunto questo diverso orientamento della socialità maschile. La moglie, la compagna, è più gratificante dell’osteria, più amica degli amici del bar, I giovani maschi sentono maggiormente il bisogno dell’introspezione, delle confidenze. La moglie, ma anche le amiche della moglie, creano un ambiente che sembra una lezione di psicoterapia tenuta da insegnanti democratici, con i seminari autogestiti.

La vita coniugale è molto più ricca di stimoli conoscitivi di quanto lo fosse un tempo, più simile all’amicizia platonica di ogni compagnia maschile.

“Io in bar e lei in casa con i bambini? ma ti sembra giusto? lavora anche lei, sai? eventualmente chiamiamo una babysitter e usciamo insieme”. Discorsi così non li senti solo sulla bocca di chi è il compagno fedele e contestato di una femminista. I giovani maschi tendono a vederla così: le oppressioni più manifeste non possono più essere accettate, pena la distruzione del modello di coppia che è a priori paritario (almeno nelle aspettative).

La vita sociale che si va intessendo in questi anni all’interno delle mura domestiche non è stata sicuramente energia sprecata. E’ una continua scoperta di meccanismi psicologici, di condizionamenti; son letture comuni che travalicano la coppia e tramite le amicizie si diffondono a macchia d’olio.

Certo che il tutto porta ad uno scarso scambio nel numero delle persone, sempre abbastanza basso, e nei ceti. Le persone laureate raramente frequentano persone con istruzione inferiore, e non per razzismo ma perché la cultura in cui gli altri necessariamente vivono è in conflitto con i valori estetico-morali della cultura più raffinata. Il modello del “macho” raramente passa gli esami universitari e il livello culturale della platea di un dibattito femminista è universitario in larga misura.

Si crea così una società informale di tipo elitario che ad uno snobismo intellettuale aggiunge una carenza più profonda e temibile: nella coppia improntata al modello americano c’è il rispecchiamento fedele, tra i coniugi, delle proprie manie di grandezza. Cavallerescamente essi si dicono “tu credi di me quello che io ti dico, ti comporti di conseguenza, e io la stessa cosa faccio con te”.

Ma se i litigi e i conflitti con la realtà portano ad un certo punto alla crescita forzata della coppia, ad una sua maturazione e a un progressivo distacco dalle immagini giovanili e patinate, nella cerchia degli amici si esige lo stesso amabile ricatto (io credo alle tue balle se tu credi alle mie) ma il tutto è più mistificato. Il vedersi qualche volta alla sera, con un bel vestito addosso e mentre i bambini dormono, il parlare di argomenti elevati ed appassionanti, rafforza questi pregiudizi iniziali.

Nella vita sociale finisce con il mancare quasi del tutto l’incontro con lo sconosciuto, con il diverso, ma non solo: nel momento in cui io divento a me stessa diversa e sconosciuta, non posso ricorrere a questi amici, che sono tali su presupposti completamente altri e che non mi riconoscerebbero in questa mia veste, tanto più perché sarei pericolosa alla loro immagine di sé.

Quando quindi la contraddizione scoppia, la persona si trova proiettata fuori non solo dalla famiglia ma da tutte le conoscenze per bene che si è costruita attorno.

 

Il bar, laico, indifferente, aperto a tutti, è la negazione costante di tutte le mode e gli snobismi in cui può rimanere incagliata la nostra personalità. Nel bar le miserie dell’umanità sfilano senza pudore. Nel bar restano vive quelle manifestazioni primitive ed elementari come il tifo calcistico e l’amore per una squadra.

Nel bar si sa che gli amori sempre felici esistono solo nelle fiabe, così come ogni uomo non è mai tutto perfezione, né mai tutta ignominia.

Il bar è lì, che ci aspetta tutti. Nelle più desolate contrade, dove non esiste neanche un negozio, un’osteria con qualche tavolo e qualche sedia e qualcosa da bere, ci ricorda che il più grande bisogno umano è quello di stare insieme agli altri.

 

Il bar ci ricorda che sono i maschi -nella nostra cultura- coloro che si possono fregiare del titolo di esseri umani; che come ai più miserevoli di loro è stato da tempo concesso di votare, così ai più miserevoli di loro è sempre stato lasciato il diritto di dire la loro. Le schiave nelle case non hanno questo diritto. A loro dal bar si guarda con compassionevole disprezzo: che è una donna se non può nemmeno andare una sera al bar come noi, fare quattro chiacchiere, sentire quel che accade?

E quando si parla del modello americano che si impone ovunque, non dimentichiamo questo aspetto: esso costituisce l’unica società dove la capanna degli uomini è stata abolita. Certamente esso -carico di tutti i limiti cui si è fatto cenno- fa parte di una fase di transizione, ma per ora solo nell’ambito di questo modello sociale è avvenuto che gli uomini hanno rinunciato al privilegio quanto mai caro e importante del bar a favore di un rapporto più implicante e più significante con le loro donne.

(tomboy)

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