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Gastone Redetti

Maschi tra guerra e pace

Appunti sulla Bosnia

da Miopia n.17, giugno 1993.


LA GUERRA È SESSUATA

Mi sono imbattuto in passato in posizioni del femminismo che mi erano parzialmente incomprensibili. Per esempio un’affermazione come “la politica degli uomini è modellata sulla sessualità maschile”, che cosa voleva dire esattamente? I testi del pensiero della differenza, di Irigaray in particolare, avevano contribuito a chiarire molte cose, ma restavano zone opache alla comprensione. Per esempio l’interpretazione che vede un simbolismo fallico nelle armi, mi sembrava una dubbia forzatura psicanalitica.

La questione della differenza sessuale nei funzionamenti sociali di importanza cardinale, come la guerra, mi si ripropone ora in termini orribilmente elementari di fronte agli stupri di massa nei territori ex jugoslavi. La guerra è sessuata. Ed è un affare degli uomini.

Alla sessuazione della guerra non avevo prima mai pensato seriamente. Appartenendo a una generazione che non ha mai vissuto direttamente una guerra, le guerre mi erano sempre rimaste lontane, nel tempo o nello spazio. Un malanno storico che si sarebbe prima o poi estinto. Ero stato agitato anch’io come tanti altri dalla guerra del Vietnam, ma senza veramente comprenderla, acceso da una passione che si collocava tra ideologia e tifo di squadra, con poca immedesimazione, poca pietà.

Gli interrogativi sulla guerra rimanevano qualcosa di astratto e intellettuale. Ho conosciuto in seguito le argomentazioni di Virginia Woolf sull’estraneità delle donne all’intero meccanismo politico-militare. Ma anche quelle di Bertrand Russel sul ruolo svolto dalle donne nella propaganda interventista. E non sentivo il bisogno di approfondire contraddizioni di questo tipo. Se avessi dovuto esprimere un’opinione sul suicidio di Virginia Woolf, avrei detto che si trattava di una morte da depressione, non di una morte da guerra.

Non riflettevo che, se è vero (come sostiene Russel) che i genitori e quindi anche le madri hanno in certe occasioni spinto i figli alla guerra e alla morte, ciò che avveniva sui fronti di guerra era essenzialmente cosa di uomini e per uomini, e che l’opinione femminile era dovuta almeno in parte all’ignoranza in cui le donne erano tenute.

Non erano certo scattate ad uso delle mamme, per esempio, quelle atroci fotografie, cui si riferiscono le donne dell’UDI di Omegna nell’intervento pubblicato su questo stesso numero di Miopia, in cui soldati italiani (probabilmente ufficiali) impegnati nelle guerre d’Africa, esibiscono con espressione tronfia e soddisfatta la nudità delle loro schiave nere. Foto di questo tipo ne abbiamo viste più d’una, pubblicate negli ultimi anni sui giornali nazionali. Ambigue pubblicazioni, che aprono abissi di verità sulla natura delle guerre, e nello stesso tempo - a dispetto della melensa condanna morale delle didascalie - sono operazioni sadiche, che perpetuano il colonialismo sessuale rioffrendo queste immagini alla fruizione erotica di immancabili nostalgici ma anche dei maschi giovani (non saranno le donne o le ragazzine a masturbarsi su questi trofei).

 

TRA GUERRA E PACE

Ammettere finalmente la sessuazione della guerra riporta alla questione inquietante: quanto dell’intero funzionamento sociale è brutalmente “affare degli uomini?”, proiezione della sessualità maschile?

Farò un esempio che si colloca a metà strada tra pace e guerra: il servizio militare. Al servizio militare “in tempo di pace” veniva tradizionalmente attribuita, in modo abbastanza esplicito, una funzione sessuale. Si tratta di un fatto da tempo noto ed elaborato nella coscienza collettiva: il maschio giovane, andando sotto le armi, si staccava definitivamente dalla madre, “si faceva uomo”, e le famiglie approvavano tacitamente la sua iniziazione sessuale a spese delle prostitute, ricettacoli subumani della sessualità maschile. La durezza della vita militare aveva dunque - almeno in passato - un compenso o premio sessuale.

E fin qui, è tutto relativamente chiaro. Ma, pur avendo conosciuto l’asfissiante atmosfera di compressione sessuale di quel luogo di detenzione coatta per uomini che è una caserma, non mi era mai capitato di immaginare che cosa avrebbe potuto significare l’idea di un premio sessuale in caso di guerra.

Ciò che allora non potevo concepire mi è divenuto chiaro adesso, dopo la Bosnia. La retorica o patriottica o pacifista ha sempre velato alcuni fatti della guerra: “carne da cannone” o eroici liberatori, nessuno è propenso a rischiare di essere ammazzato senza l’idea di un compenso, di un possibile bottino.

È difficile rendere a che grado, nella mentalità e nei discorsi di una caserma, la donna sia “una cosa”. Tanto che l’idea di essere autorizzati a usare la forza, il potere delle armi, per prendersi le donne, sarebbe certamente elettrizzante in quel tipo di comunità maschile. Specie se le donne sono straniere, altre, fuori dal sistema delle parentele, cose appunto, o animali.

Ciò non significa, ovviamente, che i maschi vengano trasformati in mostri dalla vita militare. C’è una bestialità collettiva che sta sopra le teste di ciascuno e contrasta con il sentimento prevalente nei singoli: una straziante e a volte disperata nostalgia per la famiglia e per la dimensione affettiva; cioè per le donne, le donne reali e umane.

 

A PROPOSITO DI QUEL MILIZIANO SERBO

Che lo stupro, di guerra o no, sia un nodo della differenza sessuale, lo dimostra il fatto che per una donna risulta praticamente impossibile mettersi mentalmente nei panni dello stupratore: una donna non capisce come un uomo possa funzionare sessualmente in un contesto di dolore e morte. È qualcosa di troppo diverso dalla sua sessualità soggettiva. Non concepisce come il desiderio possa essere associato al dolore e alla morte.

Il miliziano serbo, stupratore e assassino di decine di donne, di recente processato in Bosnia, ha affermato di avere stuprato e ucciso solo per ordine dei superiori, e alla domanda del giudice (peraltro molto curiosa) “provavi piacere stuprando?”, ha risposto di no.

Probabilmente quell’uomo era convinto di dire la verità, e quanto al “piacere”, è noto che si tratta spesso di una percezione estranea alla risposta sessuale anche in contesti meno estremi. Ma quello che l’uomo diceva non era la verità. È difficile già sostenere di avere ammazzato vittime inermi, o operato torture con strumenti “solo per ordine dei superiori”, contro la propria volontà. A meno che non si sia veramente ridotti a macchine umane, come è avvenuto a molti prigionieri dei lager nazisti (e anche qui la questione non è semplice: per Primo Levi anche sopravvivere in un lager è peccato). Ma quando chi tortura fa parte del gruppo dei padroni e non di quello degli schiavi, e la tortura comporta, con lo stupro, una risposta sessuale, un consenso del corpo, significa che c’è una cooperazione del torturatore, un’adesione profonda a un progetto complessivo. Assistere a una situazione di violenza potrebbe eccitare involontariamente, ma tra un’erezione e un’azione di stupro c’è una differenza abissale.

Uno stupratore di guerra è inserito in un gioco di squadra. Certo, nel caso del miliziano serbo c’era l’ordine di un capitano, l’incitamento dei compagni, il terrore forse di mostrarsi non-uomo. Ma un capitano dell’esercito potrebbe trasformare un gruppo di uomini in uno squadrone di stupratori se la cosa non fosse già nell’aria, prefigurata, coltivata nella mente?

L’assenso di quel miliziano era venuto prima, quando era entrato nella grande squadra degli uomini.

Sconcertante, per noi uomini, è la consapevolezza che tutti avremmo potuto essere, a parità di condizioni, al posto di quell’uomo. Sulla normalità dello stupro di guerra o familiare c’era fino a ieri un muro che non sarebbe esatto chiamare di omertà: credo fosse una vera e propria rimozione, una serie di bugie inconsce che nessuno si prendeva la briga di svelare. Dopotutto lo stupro è stato un argomento tabù sino a che le donne occidentali non ne hanno fatto un argomento martellante, e certamente senza il femminismo la guerra bosniaca sarebbe rimasta una guerra tra le altre. Con distruzione, morti, bombardamenti, le immagini tradizionali (e false per incompletezza) di ogni guerra.

 

PARLARE MASCHILE DI STUPRO

Lo stupro, di guerra e non, è diventato improvvisamente un argomento molto dibattuto, e corre sulle bocche di molti maschi, televisivi in particolare. Sentire un uomo che blatera di stupri in TV, di solito mi dà un certo disgusto. Il primo pensiero è che l’argomento dovrebbe essere gestito solo da donne, e mi chiedo anche se sia lecito per me parlarne o scriverne.

Nei resoconti maschili avverto spesso una nota di compiacimento, un’insistenza verbale, proprio un riempirsi la bocca con le storie di violenza sessuale. Sarebbe da analizzare uno di questi servizi TV, e vedere quanto nel commento maschile c’è di ridondante rispetto alla notizia. Questo vale ovviamente anche per molti articoli di cronaca.

La compiacenza riguarda di solito le storie di stupro privato. Invece lo stupro di guerra provoca eccessi retorici: solo qui si leva alta l’indignazione morale degli uomini. In entrambi i casi, quello che urta non è tanto il fatto che l’uomo in questione non dica: “del resto potrei essere io lo stupratore”, ma la consapevolezza evidente, quasi tangibile, che chi parla pensa che non potrebbe mai essere LA stuprata. Di qui un senso di sicurezza, una mancanza di empatia con la vittima. Gli uomini sembrano non sentire mai lo stupro sulla loro pelle. Pare non riguardarli veramente.

 

STUPRO PRIVATO, STUPRO DI GUERRA

Lo stupro privato è visto dagli uomini come opera di uomini devianti. Così lo stupro commesso dall’altro può occasionare fantasie sessuali rese possibili dalla malafede per cui “io in realtà non potrei mai essere quell’individuo che ha stuprato”. Così l’uomo per bene può “tranquillamente” proiettarsi nello stupratore. E poi, è vero delitto? La punibilità della violenza sessuale privata è ben lungi dall’essere interiorizzata.

Invece nello stupro di guerra è evidente che gli stupratori non sono devianti, ma uomini che agiscono “normalmente” in condizioni particolari, nelle quali noi uomini occidentali non ci troviamo solo per un caso fortuito. Ma nelle stesse condizioni di guerra e di conflitto etnico, come negare che potremmo agire nello stesso modo?

È questo che ci turba e ci rende muti oppure iperaffabulanti e disturbati in tema di stupro?

Quanti uomini parlano in realtà dello stupro e contro lo stupro? Quando, dove? Se non in TV e in quel modo?

Sulla violenza sessuale stiamo zitti. Come stiamo zitti sulla prostituzione, sull’importazione di mogli filippine, e soprattutto sulla natura della pornografia.

Va chiarito, a questo punto, un possibile equivoco. La potenzialità di stupro non è inevitabilità di stupro, non è qualcosa da incidere sulla pietra della differenza sessuale, col rischio di diventare un’ambigua bandiera maschile. Parlando prima dello stupratore pluriomicida processato in Bosnia, ho omesso di dire che nella situazione in cui egli era, un uomo che non stupra non sarebbe solo un uomo disprezzato ma forse un uomo morto. In altre testimonianze è emerso come in piccoli gruppi dediti allo stupro sistematico di mussulmane bosniache, i miliziani serbi di religione mussulmana fossero obbligati a stuprare per primi: è evidente che non si trattava di un onore ma di un oltraggio e che quei soldati sarebbero stati probabilmente uccisi se non avessero cooperato. Ma riconoscere che a parità di condizioni, di cultura, di coazione, noi potremmo comportarci come gli uomini dell’esercito serbo, non toglie nulla al fatto che ci sono cammini maschili che a un certo punto si scostano irreversibilmente dal gioco maschile di squadra, e che per molti di noi lo stupro sarebbe impossibile.

 

LE DUE PORNOGRAFIE

Alcuni anni fa Ted Bundy, condannato a morte negli Usa per una serie di stupri con omicidio, descrisse molto lucidamente la funzione che ebbe la pornografia hard-sadica nella formazione della sua sessualità violenta («La pornografia più dannosa è quella che mostra la violenza sessuale. Violenza e sesso: quest’unione provoca desideri terribili»). Malauguratamente ogni campagna antipornografica, che nacque in quella come in altre occasioni, viene accolta come bigotta e “di destra”, e investe solo frange del femminismo e non il pensiero progressista nel suo complesso. Eppure quelle di Bundy non erano considerazioni moralistiche, ma un’analisi corretta e oggettiva dei meccanismi che portarono un individuo da un immaginario sessuale violento, indotto dalla cultura, a un comportamento sessuale effettivamente criminale.

Attualmente circolano due forme di pornografia, ed entrambe raffigurano esclusivamente la via maschile dell’accesso alla donna.

La prima forma risolve il problema maschile raffigurando una donna totalmente consenziente, incoraggiante, benevolmente seducente ecc. (vedi il mito della “puttana buona”, diffusissimo nei film occidentali). In questa forma rientra, per esempio, la pornografia soft-core ormai largamente diffusa in tutti i nostri varietà televisivi.

La seconda forma è sadica. Non mi riferisco alle sceneggiate cosiddette sadomaso, ma a tutte le rappresentazioni, spesso mascherate, in cui si suggerisce l’idea di un donna in balia di un uomo o di una squadra di uomini.

Questa è la forma più potente e più occulta di pornografia, che si aggancia a fantasie maschili primordiali. Le cronache poi ci rivelano sempre più chiaramente l’esistenza di una pornografia sadica hard-core, la cui efficacia si basa sulla realtà effettiva delle violenze filmate.

Esiste un mercato clandestino, ovviamente perseguito legalmente, di questo sadismo reale, in cui ci sono torture vere e anche morti vere, che importiamo dal terzo mondo come importiamo il sangue, gli organi da trapianto ecc.

Questo commercio da noi è criminalizzato, ma non è che l’ovvia prosecuzione di un tipo di rappresentazione sessuale, che non è criminalizzata.

Bradley A. Te Paske, psicologo junghiano statunitense, nel libro Il rito dello stupro (red edizioni, 1987) si affanna a contestare come priva di fondamento scientifico l’affermazione delle femministe americane per cui “ogni uomo è uno stupratore potenziale” (lo stesso psicologo parla però della vitalità eterna e irrinunciabile dell’archetipo dello stupro!).

Il fatto è che quell’affermazione delle femministe, anche se poco articolata, è fondata, come è fondata “l’arrabbiatura” contestata dallo psicologo. Quella generalizzazione enunciata dalla soggettività femminile va presa sul serio. Se le donne ci percepiscono come potenziali stupratori, è inutile imbastire contestazioni, dobbiamo interrogarci.

Sulla differenza sessuale e sulla dialettica tra natura e cultura discuteremo credo fino alla fine della nostra vita.

Ma la potenzialità aggressiva degli uomini, non come platonica eventualità ma come minaccia continuamente incombente, è un dato di fatto che non si può mettere fra parentesi, e deve invece essere affrontato subito e sempre.­

Gastone Redetti

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