torna a ....

Lilla Consoni

Vassilissa la bella

Una bambola come benedizione materna

Da Miopia n.26, dicembre 1995


E rieccomi a frugare tra le fiabe, paziente cercatrice d’oro, fedele alla Dea e vogliosa di sorelle e compagne! Questa volta ho pensato a “Vassilissa la bella”, una straordinaria versione russa di “Cenerentola”. Per chi non la conoscesse, eccone un sunto:

In un villaggio viveva un mercante, la cui moglie morì quando la loro unica figlia, la bella e buona Vassilissa, aveva otto anni. La mamma, morendo, lasciò alla bambina un dono portentoso, una bambola che l’avrebbe aiutata in caso di difficoltà.

E ben presto la nostra eroina ne ebbe bisogno, giacché il padre si risposò con una donna perfida, madre di due bimbe altrettanto perfide. Il mercante era spesso in viaggio, e così il terzetto ne approfittava per tiranneggiare la povera Vassilissa, ordinandole di eseguire i lavori più sporchi e faticosi. La bambola, però, sbrigava le faccende al posto della padroncina, che così poteva continuare a crescere in età e in bellezza, senza risentire fisicamente delle angherie subite.

Una volta, quando Vassilissa era ormai quasi una donna, il mercante partì per un paese lontanissimo, e la mercantessa si trasferì con figlia e figliastra ai margini di un fitto bosco, dove abitava la Baba Jaga, un’orrenda strega antropofaga. Ora con una scusa, ora con un’altra, la matrigna inviava Vassilissa nel bosco, sperando che la Baba Jaga se la mangiasse; ma lei ritornava a casa sempre sana e salva, perché la bambola le indicava la strada, e non la faceva avvicinare alla capanna della strega. Una sera però le sorellastre, su ordine della madre, lasciarono spegnere ogni fonte di luce e di calore: il camino, la candela, il lume. Presero allora Vassilissa per le spalle e la spinsero fuori, nell’oscurità, gridandole di andare a chiedere il fuoco alla Baba Jaga. La ragazza s’incamminò, facendosi guidare dalla bambolina, che teneva sempre in tasca. Andò e andò, finché cominciò a farsi chiaro, e un cavaliere bianco, su un cavallo tutto bianco, la superò. Andò e andò, e il sole era alto nel cielo; un cavaliere rosso, su un cavallo tutto rosso, passò al galoppo. Giunse finalmente alla casa della strega, proprio mentre calava la sera; un cavaliere nero, su un cavallo tutto nero, guizzò accanto a lei e sparì. Vassilissa si guardò intorno, spaventata. La capanna era circondata da uno steccato di ossa umane, al posto della serratura aveva una bocca dentata, e poggiava su due zampe di gallina, che talvolta si muovevano, facendole compiere una giravolta. Le ossa del recinto recavano in cima dei teschi, i quali di colpo s’illuminarono: la Baba Jaga stava arrivando. Vassilissa la vide stagliarsi nel cielo e poi planare; era seduta su un mortaio, con una mano reggeva, a mo’ di remo, un pestello, e con l’altra una scopa, con cui cancellava le tracce del suo passaggio. “Cosa vuoi?” gridò la vecchia. “Solo del fuoco, nonnina” rispose la ragazza. “Te lo darò se lavorerai per me”. Così Vassilissa rimase, ed ebbe diversi incarichi, fra cui preparar da mangiare, fare il bucato, ramazzare; ma soprattutto dovette vedersela con compiti inconsueti, come separare il grano dal loglio e i semi di papavero dalla sporcizia. Naturalmente, era la bambola a fare tutto. Tre misteriose paia di mani, poi, apparivano, ritiravano le scodelle coi chicchi di grano e i semi di papavero, e svanivano nel nulla. Una sera la strega chiese a Vassilissa: “Perché non parli mai? Non c’è niente che vorresti sapere? Ma ricòrdati: chi molto sa, presto invecchia”. La ragazza, allora, le domandò chi fossero i tre cavalieri che aveva incontrato lungo la strada. “Uno è il mio Giorno Chiaro, l’altro è il mio Solicello, il terzo la mia Notte Fonda. C’è dell’altro?”. Vassilissa avrebbe voluto chiedere delle mani che comparivano e scomparivano, ma la bambola prese a saltarle nella tasca, e così lei capì ch’era meglio tacere. La vecchia la lodò, perché aveva posto domande su ciò che aveva visto fuori dalla casa, e non su ciò che aveva visto dentro. Poi volle sapere come aveva fatto a svolgere il lavoro assegnatole. “Grazie alla benedizione di mia madre”. “Benedizione? Non voglio figlie benedette qui! Prendi, ecco il tuo fuoco, ed ora va’ via senza dire più nulla”. E la spinse fuori, mettendole in mano un bastoncino con un teschio, al cui interno brillava una luce inquietante. Vassilissa portò a casa il bastone; le orbite cave del teschio sembrarono animarsi, fissare le sorellastre e la matrigna, seguirle ovunque. Il mattino dopo, delle tre donne malvage era rimasto solo un mucchietto di cenere.

Fin qui la storia, o almeno una delle sue versioni (esistono, infatti, varianti in cui Vassilissa, dopo molte peripezie, sposa lo zar).

Si tratta d’una fiaba insolita e, direi, quasi impressionante nella sua profondità, intensità, simbologia. Ruota intorno alla figura della Baba Jaga, presentata come strega e cannibale, ma rivelante in realtà i caratteri di una dea, e che dea! Il mortaio, il pestello, il grano, i semi di papavero, le ossa umane, i tre cavalieri, le tre paia di mani: tutto fa pensare ad una dea della vita/morte/vita, o, in altre parole, alla Grande Madre. Le antiche dee, come Iside o Demetra, avevano in sè il duplice aspetto dell’Alma Mater (la Madre che nutre, alimenta, dà la vita) e della Distruttrice. Questo è anche la Baba Jaga, Signora del grano, ma anche delle ossa, Signora del giorno, ma anche della notte. Una potenza enorme emana da questa Grande Madre Selvaggia, che vive nel bosco e regna su forze oscure e primordiali. E quella bocca con denti umani che fa da serratura alla sua porta? Come non pensare alla “vagina dentata” degli incubi maschili? (Ah!, Ah!, Ah!).

Due parole sui simboli. I chicchi di grano e i semi di papavero simboleggiano le anime dei morti e gli spiriti degli antenati. Nell’antica Grecia si mettevano accanto al focolare dei vasi contenenti, tra l’altro, del grano; i vasi stavano ad indicare le viscere della terra nelle cui profondità riposano i morti, e venivano scoperchiati una volta l’anno, per una festività durante la quale il Regno dei Vivi e quello dei Morti entravano in comunicazione. Il mortaio e i pestello indicano una trasformazione di tipo materiale-alimentare, ma rimandano anche ad un processo di polverizzazione, di morte di una forma, di trasmutazione in senso spirituale-metafisico. Il bianco, il rosso e il nero sono “i colori della dea”, ed hanno a che fare non solo con i momenti della giornata (alba, giorno, notte), ma anche - e soprattutto - con il corpo femminile. Scrive Clarissa Pinkola Estés nel suo Donne che corrono con i lupi: “Parecchie anziane cantastorie mi hanno detto che il simbolismo del nero, del rosso e del bianco deriva dal ciclo mestruale e riproduttivo delle donne. Il nero rappresenta il materiale perduto dell’utero che non è gravido. Il rosso simboleggia sia la ritenzione di sangue nell’utero durante la gravidanza sia la macchia di sangue che annuncia l’inizio del travaglio e dunque l’arrivo di una nuova vita. Il bianco è il latte materno che fluisce per nutrire il nuovo arrivato”. La stessa Estés ricorda la “Nigredo” (fase nera), la “Rubedo” (fase rossa) e l’“Albedo” (fase bianca) dell’Alchimia, e si chiede se gli alchimisti non abbiano tentato di creare, con il loro crogiolo, un recipiente simile all’utero... L’ipotesi è suggestiva, ma ci allontana dal nostro tema. Torniamo allora alla Baba Jaga, e occupiamoci delle tre paia di mani. Nella fiaba non ci viene svelato il loro mistero, ma abbiamo degli indizi. Le mani appaiono, chiamate dalla loro Signora, quando bisogna portar via le scodelle con i chicchi di grano e i semi di papavero. Abbiamo visto, inoltre, che è meglio non far domande su questa oscura faccenda... Le mani, allora, hanno a che fare con la trasmutazione, con la vita e con la morte, con il mistero dei misteri. La Dea non tollera che si ficchi il naso in questo suo aspetto di morte, anche perché sa che gli umani sono facili ai fraintendimenti e agli smarrimenti (chi troppo sa, presto invecchia!). Sarà bene, quindi, che pure noi ci teniamo a rispettosa distanza dall’argomento, e ci volgiamo ad altri pensieri. La casa sulle zampe di gallina, per esempio!

Non è una “trovata” di questa storia, la si può incontrare in molte altre fiabe. Ma qui è un tocco bellissimo, perché indica gioia prorompente, allegria, follia positiva, in un contesto dove proprio non ce l’aspetteremmo, in mezzo ai teschi e alle ossa umane. Questa casa viva, che sta su un paio di zampe e, di tanto in tanto, fa una bella piroetta, è come una risata, come una danza, come un canto alla vita. Fra le ossa. Nel buio. Nel bosco.

L’ultimo commento è per la bambola di Vassilissa, che rappresenta l’istinto, la voce interiore capace di dirci dove dirigerci e cosa evitare. Questa bambola è un dono della madre, un testimone che passa da donna a donna, una continuità di sapere e di potere che attraversa le genealogie femminili... Sono troppo amara se concludo: purtroppo “Vassilissa la bella” è solo una fiaba?

Lilla Consoni

Le mie informazioni su Vassilissa vengono prevalentemente da due libri: - Il femminile nella fiaba di Marie-Louise von Franz, Boringhieri, 1983 - Donne che corrono coi lupi - Il mito della Donna Selvaggia di Clarissa Pinkola Estés, Frassinelli, 1993.

torna a ....