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Elena Fogarolo

Atalanta l’oscura

Il problema della predestinazione in un'antica figura della mitologia greca

Da Miopia n.16, marzo 1993
Illustrazione rinnovata

Atalanta e Ippomene in una celebre tela di Guido Reni</em>
La gara tra Atalanta e Ippomene
in una celebre tela di Guido Reni

C’è, nella mitologia, un destino più tragico di quello di Atalanta?

Alla sua nascita gli oracoli avevano detto che, se si fosse sposata, sarebbe caduta in disgrazia presso la grande dea Cibele e trasformata in una fiera.

Saggiamente quindi Atalanta, da ragazza, pensa di non sposarsi. Si dedica al culto di Artemide, dea delle selve, della natura, della verginità, e va a caccia, corre, passa il suo tempo nei boschi.

Atalanta era figlia di Schenèo, re di Sciro, oppure, secondo una variante della leggenda, di Giasone e di Climène. Fu allevata da un’orsa e divenne un’esperta cacciatrice, così veloce nella corsa che nessuno era capace di raggiungerla.
Secondo la leggenda greca le disgrazie di Atalanta ebbero origine da una mancanza del marito Ippomène: fu lui infatti che dimenticò di rendere grazie ad Afrodite per averlo fatto vincere nella corsa con l’espediente delle mele d’oro. Afrodite abbandonò i due sposi al loro destino e non li protesse quando entrambi mancarono al culto di Cibele.

Il padre vuole che Atalanta si sposi, e lei, sapendosi invincibile nella corsa, promette che sposerà solo colui che la vincerà in una gara. Il pretendente, se sconfitto, verrà ucciso.

Ma l’uomo destinato ad essere il marito di Atalanta chiede il soccorso di Afrodite, che distrae la fanciulla mentre sta gareggiando, facendole cadere davanti tre mele d’oro. Così Atalanta perde la gara e deve sposare il vincitore.

Il matrimonio, come profetizzato, le porterà solo male: stregata dalla sensualità, Atalanta trascurerà gli onori dovuti alla dea Cibele e verrà trasformata in una leonessa.

Qual’è il significato di questo mito? Perché è così terribile il destino di Atalanta?

Cominciamo dal principio: Atalanta sa che il matrimonio la dannerebbe, e di conseguenza sceglie un’altra strada. C’è qualcosa di più ragionevole della sua scelta? Ma gli dei non si possono scegliere. Nel linguaggio della nostra religione monoteista, non possiamo scegliere di fare la nostra volontà, ma: “sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra”.

Nel libro di Giobbe è resa con accenti drammatici e stupendi l’impossibilità di un uomo di diventare buono fuori dalla volontà di dio: “mi sono fatto bianco come la neve e tu mi hai rotolato nel fango”.

Anche nel mitissimo, compassionevole Cristo ci sono queste condanne tanto irrevocabili quanto umanamente incomprensibili: “a chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”. Oppure pensiamo alla parabola della semente, che viene gettata sulla pietra, e non potrà germinare...

Sembra che la volontà divina, degli dei o di Dio, preveda appunto i dannati. E Atalanta è un esempio evidente di dannata. Qualsiasi azione salvifica le è preclusa fin dall’inizio. Fatalmente si sposa, e la sua tragedia si compie.

La dea Cibele punisce uno sgarbo che Atalanta, con tutti i mezzi possibili, aveva cercato di evitare. Ad Atalanta non sarà concessa alcuna scusante: la grandezza di Cibele è stata offuscata, e la colpevole deve essere punita.

Qual’è allora l’insegnamento di miti come questo?

Gli dei appaiono inesorabili: chi è nella loro luce, sarà benedetto, chi ne è fuori, non potrà far niente. Il mito riecheggia discussioni che hanno attraversato per secoli la cristianità (ma anche, per esempio, la filosofia indiana): l’agire umano serve a qualcosa? O non siamo sempre predestinati?

Se ora di questi argomenti non si parla più, è perché il senso religioso si è talmente intiepidito che la Chiesa stessa non s’arrischia ad affrontare temi spinosi, che metterebbero in crisi anche la poca fede rimasta (ammissioni del genere si possono leggere persino su Famiglia Cristiana).

Jung, raccontando una sua esperienza giovanile, esprime la tragedia del cadere nelle mani del dio vivente. Egli in una bella mattina passeggia col cuore ardente per la città, pensa a Dio nel cielo che guarda giù e... per giorni non vuole pensare al seguito, per giorni vive nel terrore di bestemmiare. Poi, esausto, cede, pensando che quell’immagine non se l’è voluta lui, ma gli è stata imposta da una volontà più forte. Sollevato, lascia andare il pensiero, e vede scendere da Dio una montagna di escrementi. Jung ebbe così l’esperienza del lasciarsi andare a Dio senza che nulla di tremendo accadesse: ciò che lo tormentava era solo un pensiero banalmente sconveniente.

Jung ci ha raccontato la sua esperienza perché tutto sommato è positiva. Ma le esperienze che si rivoltano contro il senso profondo della vita, così come ci viene trasmesso dalla nostra cultura, quelle non ce le racconta nessuno. Oppure, in modo criptico, i pazzi.

Il mito di Atalanta dice il dolore, l’inutilità degli sforzi umani, quello che fino a pochi anni fa si definiva “il mistero del male” e di cui ora si preferisce non parlare più.

Atalanta è quindi semplicemente memento, ricordo; il suo significato al primo momento ci sfugge perché siamo abituati a scovare, anche nei miti più drammatici, un significato positivo. Ma qui la favola resta terribile dall’inizio alla fine.

Non c’è alcun sentimentalismo: il mito dice quello che sperimentiamo come verità, cioè che certi destini umani sono votati alla sterilità.

Che l’umanità abbia sentito il bisogno di esprimere la terribilità del proprio destino, questo sì ha un significato.

Alla fine, anche questo mito ha un messaggio benefico (ma non ottimista), richiamando la necessità di sapere il male nell’elaborare la propria vita, il proprio progetto esistenziale. Nel giudicare noi stessi, e soprattutto gli altri.

Davanti alla volontà degli dei che si manifesta in modo così crudele, noi restiamo sgomenti e la mente si allontana terrificata. La necessità di questo allontanamento è parte della lezione del mito: ci sono dei momenti in cui le parole devono cessare, perché sarebbero menzogna. Quando non comprendiamo, dobbiamo tacere e non sforzarci di giustificare il fato, o Dio.

Il famoso “non giudicare se non volete essere giudicati” è spesso usato poco a proposito: è infatti evidente che tutti noi per poter vivere dobbiamo giudicare in ogni istante, soppesare di volta in volta il gesto che ci pare migliore.

Ma questi giudizi hanno la nostra misura, non devono travalicare appunto il nostro momento, la nostra ora, la nostra vita. Pena la disperazione.

Il libro tibetano dei morti prescrive le pratiche per indurre l’anima del defunto a ripudiare ogni sua idea di Dio, perché, qualunque sia, è sbagliata.

Atalanta ci porta, col suo volto di leonessa, in quel luogo - fuori dell’umanità - dove le parole perdono di senso. Dove il senso non vuole nulla da noi, nemmeno che sappiamo se c’è ancora o no.

E allora, obietterà qualcuno, non si può far nulla? Si deve subire e basta?

Certo che si può, e anzi si deve fare. Ma, come sapevano bene gli antichi, tenendo sempre presente che l’esito delle nostre azioni non è mai interamente in mano nostra. L’ottimismo sociale, che dall’Ottocento in poi ci portò a sognare il sole dell’avvenire, si sta guastando in delusione che paralizza qualsiasi gesto, e scopriamo il duro prezzo pagato per aver voltato le spalle alla sapienza millenaria racchiusa nelle religioni.

Elena Fogarolo

(Cfr. Morelli, Dei e Miti, Edizioni Librarie Italiane)

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