torna a ....

Serenella Gatti

Donne e carcere

Donne viste da una donna

Da Miopia n.26, dicembre 1995
Illustrazione aggiornata

Alberta dovrà stare in carcere fino al 2005, non so esattamente perché: non mi interessa. E’ una mia coetanea e solo il pensiero di trascorrere il prossimo decennio in un luogo di questo tipo mi fa rabbrividire. Certo ognuno ha il suo “carcere” e la vita stessa lo è... però, nel senso concreto del termine, si tratta, secondo me, di non-vita o illusione di vivere. La figlia di Alberta, Erika, è morta due anni fa di aids e suo figlio si sta spegnendo per lo stesso motivo all’estero e forse non riuscirà a vederlo per l’ultima volta. Il nipotino di quattro anni è sieropositivo... lei è uscita dalla droga recentemente. Può bastare? Alberta ha ottenuto, con me come insegnante, la licenza media in carcere, con le cosiddette “150 ore”. Quando sono uscita da lì, la mattina degli esami, ho pensato che io vivevo al posto suo “fuori”, che avrei viaggiato e girato, mentre lei sarebbe sempre stata lì “dentro”, quasi per permettere a me la libertà e la gioia...

Copertina di DVD del film<br><em>Nella città l’inferno</em>
Copertina di DVD del film
Nella città l’inferno

Fabrizia ha un viso birichino, coperto di lentiggini, che sembra sorridere sempre: è appena uscita dal carcere, dove si è sposata con un detenuto conosciuto al corso di teatro. Mi ha fatto vedere con orgoglio l’album delle foto del giorno delle nozze. Nelle inquadrature, in cui la sposa era luminosa in un elegante tailleur-pantaloni rosa fucsia, stonavano solo le sbarre sullo sfondo. Lei e altre otto ragazze detenute hanno portato in scena: Il Piccolo Principe di Antoine De Saint-Exupéry.

Quando Maria Grazia, nella parte del pilota, ha tirato un grande respiro, prima di cominciare a recitare, spezzando il “ghiaccio” (come poco prima le aveva consigliato la maestra Rosanna), sarei saltata giù dalla mia sedia in prima fila, per abbracciarla, ma mi sono trattenuta a stento... Al termine, lunghi applausi e un velo di commozione, che calava su tutti, qualche lacrimuccia incontrollabile, nascosta quasi con vergogna...

Certo questo è un ottimo modo di fare scuola in carcere e non solo. La frase del libro che ha colpito di più le detenute è questa: “Non si vede bene che con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”. Le detenute hanno ringraziato gli spettatori tramite un biglietto rappresentante un famoso disegno creato da De Saint-Exupéry per Il Piccolo Principe, in cui si vedono tanti gabbiani, legati fra loro, che volano dalla Terra ad un altro pianeta, in mezzo agli astri. Ognuno di questi uccelli rappresentava una delle detenute, ma solo loro conoscevano quale esattamente portava il proprio nome: uno più vicino al pianeta futuro, uno più lontano. Il Piccolo Principe e il suo mondo fantastico hanno rappresentato per le detenute la realtà che unisce e getta un ponte fra loro e gli spettatori e, attraverso questi, con il “pianeta” esterno.

Quest’anno nel carcere bolognese è stato portato avanti un esperimento quasi unico di classe “mista” delle “150 h.”, in cui ho insegnato, che si è rivelato interessante e proficuo. Il carcere, costruito per 410 persone attualmente contiene circa 1200 detenuti, di cui solo una trentina è costituita da donne. Durante un corso di aggiornamento, tenuto da una psicologa, la dott. Brunori, per gli insegnanti del carcere, insieme agli agenti, al primo colpo era evidente che “tutte” le insegnanti erano donne e “tutti” gli agenti uomini. Un caso? Non credo proprio. Un’insegnante ha dichiarato che, un giorno uscendo dal carcere con una collega, ha distintamente sentito un agente dire ad un altro: “Se mia sorella volesse insegnare in carcere, glielo impedirei, perché chi entra qui è una di facili costumi”! (il solito concetto, quest’ultimo di donna o santa o perduta, ribadito anche da alcuni detenuti maschi). Fra i problemi, elencati dalle insegnanti nel gruppo di lavoro, separato da quello degli agenti e scritti su un grande foglio, si leggeva, fra l’altro: “Come mi vesto in carcere? Posso mettere la minigonna? E’ possibile veramente ricominciare? Come migliorare la comunicazione con gli agenti? Come ridefinire confini reciproci? Quali sono le fatiche psicologiche delle insegnanti? Qual’è il valore della scuola in carcere? Chi è il detenuto? Cos’è il carcere?...”. Fondamentalmente, veniva studiato il rapporto “dentro-fuori”. Per quanto mi riguarda, non ho notato delle enormi differenze, anzi spesso mi sono trovata meglio con certi alunni “dentro” che con altri “fuori”. Lo scarso valore attribuito alla scuola in Italia è sembrato identico sia “dentro” sia “fuori”. Anche se alcuni agenti, soprattutto i più giovani, tentano di cambiare e di essere non solo secondini ma anche educatori, la struttura carceraria rimane maschilista, gerarchica, burocratica e fobica, in cui tutto viene amplificato e ingigantito. Ad esempio, il concetto di “tempo” ha un significato particolare in carcere, è più lento. In generale, è emerso che da parte dei detenuti, le insegnanti sono viste come “buone” e gli agenti come “cattivi”. C’è una tendenza tipicamente italiana a mantenere staccati il “pianeta-carcere” e il “pianeta-scuola”, mentre bisognerebbe intensificare e migliorare i loro rapporti.

Le caratteristiche generali, che ho notato nel gruppo-donne-insegnanti sono di essere: giovani, acculturate, di voler andare dal sud al nord d’Italia, di puntare al futuro. Quelle del gruppo-uomini-agenti sono di essere: giovani, non acculturati, di volere tornare dal nord al sud di origine, di aver ancora una mentalità tradizionale.

In ogni caso , il rapporto con i cosiddetti “diversi” aiuta a crescere.

Serenella Gatti

torna a ....