torna a ....

Maria Jazurlo

La differenza sotto la cenere

Da Miopia n.24, giugno 1995

Andare in fabbrica, stare in fabbrica, è stato per me e per molte altre donne una vera emancipazione: la verifica di saper fare, di poter guadagnare i propri soldi, la conoscenza e la vicinanza di altre donne che non si sarebbero mai scoperte se non lì, la percezione di avere dei diritti e di poterli difendere e proporre. Tutto questo ha radicalmente cambiato la condizione femminile e ogni singola donna che ne ha fatto l’esperienza.

Eppure molte cose ostacolano la presenza delle donne nei luoghi di lavoro. Non bisogna ignorare che la fabbrica, prima degli anni Sessanta, era stata sempre territorio maschile, fatto per loro e a misura d’uomo. Le donne sono arrivate, e si veniva a rompere quella solidarietà maschile.

Le donne sentivano di essere “fuori posto” e ci si arrangiava come si poteva per difendere le nostre posizioni, per restare là dove eravamo, e lottare per migliorare stipendi e lavoro.

Come? Ognuna metteva in atto le sue strategie.

C’erano quelle intimidite dal trovarsi in un luogo così diverso dalla casa, in mezzo a tanti uomini padroni di sé e dei luoghi di lavoro. Tante donne erano umili e servizievoli, pronte a capire le ragioni degli uomini, e si facevano da parte. Secondo me si costruivano delle nicchie invisibili per mettersi a riparo da tutto.

Altre giocavano sulla loro femminilità: farsi vedere e apprezzare, sollecitare il desiderio degli uomini per essere polo di attrazione, secondo l’antica regola della seduzione. Anche quella, per tante donne, era ed è una via per affermarsi e farsi valere.

Mentre altre poche - dico io - sfoderavano forza e coraggio e si mettevano in gara con i maschi. Si imparava a parlare come loro, di calcio, di sesso, per farsi accettare alla pari.

Una cosa ho imparato e ho capito: che la via maestra in fabbrica era conoscere i propri diritti, saper contrattare, e in quei momenti dimenticare di essere donne, lasciare a casa i mal di testa e le preoccupazioni per i bambini, essere “neutri”, né maschi né femmine. Chiamarsi “lavoratrice”.

Come lavoratrice entravi nella zona protetta del sindacato. Conoscevi poco per volta il valore della solidarietà di classe. Oggi neanche la sinistra vuole più sentire parlare di classi, invece è un valore immenso. Spesso tante donne lo ignorano, pensando che ci sia solo il bene della propria famiglia. Se non ci sono le lotte non ci sono i servizi sociali: asili nido, scuole a tempo pieno, assistenza ai malati e agli anziani. Questi servizi ci sono stati, e ci sono ancora, solo dove le donne sono scese a rivendicare e hanno ottenuto leggi, con la coscienza che essere lavoratrici era diverso da essere lavoratori. Questa diversità covava sotto la cenere. C’è voluto il femminismo per affermare che “produrre e riprodurre” sono due modi paralleli di sopravvivere per la specie umana, due modi che non si incontrano mai: ognuno procede con la sua logica e ignora l’altra, ma la presenza femminile nel mondo del lavoro è diventata tanto grande da imporre la riflessione sull’argomento. Vedi i consultori: certo negli anni Settanta le delegate sindacali chiarivano i disagi femminili, e della fatica e della doppia presenza.

Le donne del sindacato oggi in carica, sono state quasi tutte attraversate dal femminismo, e hanno raccolto il malessere di tante donne nel mondo del lavoro. Allora perché tacere? E sì che non siamo una minoranza, ma oltre la metà di questa società. Della mia generazione (anni Trenta) moltissime sanno appena leggere e scrivere, e questo è stato un freno al dire e al fare. Ma anche se qualcuna avesse avuto qualche capacità letteraria, dove avrebbe trovato il tempo per raccontare? Dico che, a dispetto del tempo, bisogna riuscire ad alzare le serrande del fiume in piena che sono le emozioni di una donna che lavora: l’occhio, l’orecchio attento, l’animo affamato di un po’ di giustizia, il cuore aperto al disagio proprio e altrui, spesso con la consapevolezza che era “un lusso” stare in fabbrica, ma con la capacità di tornare sempre daccapo a guardare le cose come stanno. Anche fuori dalla fabbrica.

Nonostante la fatica e tanti conflitti con la propria identità di donna, si può essere non solo madre, non solo lavoratrice, oppure pensionata, non solo sindacalista, non solo compagna delle compagne del Partito - allora cosa si può essere? - una come tutte, come le tante che soffrono e tacciono. Invece a me piace raccontare.

Maria Jazurlo

torna a ....