torna a ....

Marcello Limoli

Viltà e arroganza

Da Miopia n.29, maggio 1997

Parlare della violenza sessuale sulle donne è, per un uomo, assai difficile; tentare di parlarne, poi, con altri uomini è impresa quasi impossibile: si proverebbe la dolorosa sensazione di venir scacciati in una sorta di “terra di nessuno”.

Espressione che già riesce a esprimere simbolicamente come l’identità sessuale maschile affondi le proprie radici sul possesso e il dominio su un territorio.

Credo che la riflessione di un uomo in merito alla violenza sessuale contro le donne non possa che partire dalla propria esperienza.

Dalle mie parti (la Sicilia) il senso comune sulla relazione tra i sessi si esprime in detti quali: “l’uomo è come il fuoco e la donna come la paglia”. Detti che tendono a esprimere (oltre l’evidenza) il fatto che, a fronte del soggetto attivo (l’uomo-fuoco), l’oggetto passivo (la donna-paglia) non può che subirne l’azione.

Si capisce come, a partire da simili “giustificazioni ideologiche”, la sopraffazione sessuale degli uomini sia stata e sia (molto spesso) considerata dai maschi come insita nelle cose e finanche voluta dalle donne: “se non vuole e fa la ritrosa, vedrai che poi (cioè durante lo stupro) ci sta”, è un altro modo di dire. E se ostacoli c’erano ad azioni del genere, erano più che altro dovuti alla preoccupazione per la reazione del padre-fratello-marito padrone.

In questo contesto si colloca la mia esperienza (singolare ma reale) che risale a oltre 30 anni fa; ed è relativa al racconto di due amici (12-13 anni come me, allora).

C’era una ragazzina senza padre né fratelli e che quindi veniva inesorabilmente considerata come quella che non poteva che starci. Varie storie paesane circolavano sul suo conto: fantasiose oltre che oscene. I miei amici mi raccontarono di aver trovato la ragazza da sola in campagna e di averla violentata. Però, oltre a non volere, lei aveva pianto e li aveva pregati di non farle del male; ma loro, pur colpiti da quella inaspettata reazione, non desistettero.

Questo racconto fu per me la rivelazione sconvolgente di un mondo del tutto diverso da quello che, nei discorsi di noi ragazzini, avevo immaginato.

Non ricordo se formulai la mia domanda - perché avessero compiuto quella violenza se la ragazza li aveva implorati di non farlo - o se rimase inespressa, ma questo è rimasto per me un interrogativo per lungo tempo senza risposta.

Ma un altro aspetto credo vada chiarito: perché la mia reazione fu così anomala rispetto alla “norma”? Certo non perché io fossi più bravo. Credo che il ruolo di mia madre e di mio padre sia stato fondamentale: loro non avrebbero mai tollerato dai figli atti di prevaricazione verso i più deboli e, più in generale, verso nessuno. Ma questa norma sarebbe, forse, rimasta lettera morta se non avesse trovato il suo equilibrio in un modello di vita concreto.

Resisteva allora tra gli abitanti del mio quartiere una pratica di mutuo soccorso (forse epigono demodé d’una solidarietà popolare mai stata, comunque, un modello vincente) poi, col progresso, scomparsa. Ricordo che mia madre mi mandava a portare dei dolcini, degli alimenti, qualche piccolo regalo a delle persone anziane del nostro quartiere. Scolpita nella mia memoria è rimasta una tenera coppia che mi accoglieva, con le loro favole e dolci sorrisi.

Sarà stato per questo retroterra educativo, ma l’immagine di quella ragazza che piangeva, vittima di una violenza antica di cui percepii una crudeltà che mi sgomentava fu come l’impatto con un universo sconosciuto. Quelle che nelle nostre fantasticherie giovanili immaginavamo come trofei da collezionare, “oggetti” di piacere, prede a cacciare (un primo esempio di come il linguaggio maschile affondi, spesso, le sue radici in un immaginario aggressivo), erano esseri, donne che venivano ferite e mortificate interiormente. Quella percezione è diventata, negli anni, consapevolezza che la violenza sessuale è frutto di un miserabile modo di concepire - da parte dell’uomo - i rapporti con le donne.

Essendo consapevole del fatto che la mia esperienza e le mie convinzioni non hanno (né potrebbero avere) alcun valore esemplare, penso che sia necessario per noi uomini cominciare a riflettere sulle cause profonde della violenza maschile.

Credo che uno dei cardini su cui poggia questa violenza sia il principio (che si è radicato nei secoli) di possesso (un altro è lo spinosissimo problema, che andrà approfondito, della negazione del lato femminile dell’uomo) che ha strutturato sul dominio e sulla sottomissione il rapporto dell’uomo con la donna. La capacità di generare e la sessualità femminile sono state forze oscure di cui appropriarsi e da mettere sotto il controllo del potere maschile.

Il lessico tradisce questa forma mentis, per esempio, in un verbo emblematico come “possedere” che significa condizione di dominio su proprietà, servi e terra; ma, al contempo, l’azione in cui la donna viene usata sessualmente dall’uomo.

Ed è sulla sottomissione della donna e delle forze naturali che viene edificato l’ordine gerarchico che instaura il dominio del più forte.

Un altro verbo che indica (paradossalmente, in apparenza) la stessa azione di possedere è “violare”. Si viola una proprietà o una legge, ma anche un donna. E qui le menti raziocinanti dovrebbero spiegarci come sia possibile con l’identico atto (squallido, sotto questo punto di vista) possedere e, allo stesso tempo, violare.

Ma che l’oggetto del desiderio, per l’autorità patriarcale, sia il dominio e la sopraffazione, si desume dalla brutale chiarezza di un proverbio dei capimafia: “cumannàri è megghiu ca fùttiri.”; coi due verbi (comandare, possedere) in ordine di gerarchica ferocia, per non lasciare dubbi.

La mia convinzione è che non sia possibile revisionare un potere strutturato sull’ordine gerarchico. Penso che sia necessario mutare i presupposti stessi su cui si fonda l’organizzazione sociale; con ruoli che siano distribuiti e alternati fra tutti i componenti della società senza deleghe fisse a presunti specialisti. Dal momento che a me pare che non solo la sessualità venga ridotta, dalla nostra cultura, ad “affermazione di potenza e competitività”, ma anche l’economia, la politica e ogni aspetto della società. Una cultura che, all’apice della sua potenza, riduce tutto e ogni essere a oggetto di scambio. La violenza viene occultata con begli eufemismi quali “flessibilità e “leggi di mercato”. Le bambine e i bambini del sud del mondo possono essere legalmente usati per produrre manufatti e gingilli per i consumi degli occidentali e anche essere consumati come oggetti di piacere. Piccole creature prive di diritti e dignità costrette a vivere in condizioni disumane.

La globalizzazione impone l’ultima delle divinità monoteistiche maschili: il Dio-Mercato la cui religione si fonda sulla flessibilità dei prodotti e delle categorie più deboli. A questo dio, osannato da un blob politico di sinistra-centro-destra, non ci resta che genu-fletterci.

Marcello Limoli

torna a ....