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Maria Luisa Martinelli

Il bambino

(Da Miopia n.31, marzo 1998 - Numero monotematico IL DIO, LA DEA)

Riporto qui la registrazione fedele del racconto che mia madre un giorno volle farmi sulla sua esperienza religiosa, bambina prima poi donna fatta. Lei non era a quel tempo ancora debilitata dalla malattia, quindi parlava lucidamente e volentieri di sé, convinta dalla mia insistenza perché lo facesse.

«Sono nata nei primi anni del secolo e, come forse per molte donne della mia generazione, il rapporto con la religione è stato difficile o meglio diciamo la verità, divenne causa di grande sofferenza. Nel migliore dei casi abbiamo nel tempo conquistato una religiosità personale, ma pur sempre patita!

Perché? Perché l’educazione religiosa non era soltanto basata su una serie di precetti mandati a memoria dal catechismo come forse tu credi. Era soprattutto l’impatto con un Dio-immagine dal grande occhio sempre vigile che controllava tutto e non perdonava mai niente. Neanche me, bimba di sette anni, che appena arrivata nel collegio del S. Cuore di Firenze cominciai a piangere forte dopo la partenza di papà e mamma e dalle suore venni chiusa per castigo in una camera buia.

Mi avevano infatti accompagnata da Modena, un viaggio in treno lungo e spesso pauroso dentro tante gallerie scure e fuligginose e lasciata nelle mani di suore che mi si rivolsero subito in francese perché cercassi di capirlo e di parlarlo in breve tempo.

Più tardi, durante il grande terremoto di non so quale anno del secondo decennio del secolo, per una notte intera le suore obbligarono noi bambine spaventate a morte a pregare in ginocchio l’immagine di quel terribile Dio dal grande occhio che calava giù dal soffitto della cappella. Era lui, ci dicevano, che faceva tremare forte la terra per punire gli uomini cattivi.

Ma la mia educazione in collegio a quel tempo doveva essere anche una palestra di buone maniere per “diventare una brava padrona di casa che sa comandare” come diceva mia madre.

A questo scopo ero stata spedita in quell’ambiente esclusivo frequentato dalla nobiltà e dall’alta borghesia dell’epoca, io che appartenevo solo a una famiglia di grossi agrari emiliani.

Però anche le buone maniere venivano impartite in modo severissimo: i rapporti con le compagne, gli affetti, la vita insomma non erano degni di attenzione, anzi potevano essere trascurati. Dovevamo essere modeste noi bambine, questo ci dicevano le suore, e noi capivamo solo che il nostro corpo andava coperto, ma non ci era chiaro cosa volesse dire essere modeste dentro.

Il bagno per esempio lo si faceva in vasca completamente vestite di un largo camicione, la suora fuori dalla porta ci attendeva con un grande accappatoio entro cui entravamo in fretta.

Pensa che con una ragazza amica non ci si poteva mai appartare per chiacchierare, si doveva stare sempre in gruppo. Addirittura le sorelle più grandi che vivevano in un’ala del collegio diversa dalla mia, potevo incontrarle solo una volta alla settimana!

Sembrava proprio che il contatto col nostro corpo e con quello delle altre bambine ci fosse proibito, quasi fossero indegni!

Più tardi, molto più tardi, dovetti fare i conti con quel corpo che nessuno mi aveva mai insegnato a conoscere e ad amare.

Fu quando persi il secondo bambino che mi fu sacrificato perché io fossi salva.

Anche in questa occasione vissi una violenza che non mi riconciliò certo con la dignità del mio corpo. Le metodiche ostetriche di quei tempi non andavano molto per il sottile con le donne! Non si faceva il taglio cesareo. Sì, me l’hanno ucciso e fatto a pezzi perché la mia vita era in pericolo poi mi hanno proibito di avere altri figli.

Distesa sul tavolo di cucina, così come stavo, mi macellarono per niente perché dissero che il bambino era già morto, ma io sono convinta che l’abbiano ucciso per salvare me.

Per non so quanti anni i preti non mi diedero l’assoluzione quando confessavo che evitavo di avere altri figli per non mettere in pericolo la mia vita.

La domenica a messa con mia madre e le sorelle si vedeva benissimo la mia assenza all’altare nel momento della comunione!

Alla fine ho incontrato un prete intelligente (c’erano anche allora sai delle persone aperte all’interno della Chiesa) che mi ha convinto del mio diritto a vivere e a non rischiare per la figlia che avevo.

Io credo però che quell’esperienza abbia lasciato un segno sul mio corpo che ha acquistato da allora (mi credi?) un non so che di rigido, quasi avesse perduto la sua morbidezza femminile! E poi fu un grosso senso di colpa quello che mi accompagnò per tutta la vita!».

Fin qui la confessione lucida di mia madre in un raro momento di abbandono.
Alcuni anni dopo, nel suo ultimo mese di vita, fuori ormai da qualsiasi autocontrollo a causa della malattia e dei farmaci, lei è riuscita a rielaborare il proprio vissuto in modo forse risolutivo.
Ho annotato le sue osservazioni che in parte io stessa ho provocato, lasciandomi coinvolgere con grande trepidazione da un linguaggio così lontano ormai, così altro da quello quotidiano!
Questo il colloquio frammentato che ne è uscito.

“In questa stanza c’è sempre una bambina che mi guarda” dice “ecco adesso è di fianco a te… ma che ci sia davvero?” mi chiede con aria interrogativa.

“Chi può essere?” rispondo io con un’altra domanda.

“Non so ma tu la vedi?”.

“Non importa che io la veda, se tu la vedi ci sarà” dico io con una logica non molto stringente.

“Chi sarà?” riprende lei. Allora io la incalzo perché si sforzi di identificare questa figura infantile che a suo dire è sempre presente nella stanza:

“Forse una bimba che tu avresti voluto accanto a te, forse un’altra figlia”?

I suoi occhi si dilatano quasi a rispondere di sì. Le risposte che non mi dà passano attraverso i suoi occhi chiari come nuvole veloci nel cielo.

Vede spesso una serie di piccole figure “di fumo” indistinte ma non tanto da non intenderne i contorni: delle presenze aleggianti con una piccola mano alla fronte (descrive lei) posta a riparo degli occhi quasi la luce della stanza fosse troppo viva. Altre volte stanno nella poltrona accanto oppure di fronte a lei, tutte occupate a guardarla mentre appoggiano la guancia sulla piccola mano, là sul bracciolo.

E più tardi dopo alcuni giorni parla di un bambino avvolto di luce bianca con la manina sul viso quasi a schermarlo, a mascherarlo lei dice.

E a questo proposito:

“Quel bimbo cambia ogni tanto la mascherina: ora è una maschera triste ora è una maschera allegra” (segno forse dei suoi umori alterni?) .

“Segue spesso la persona che attraversa questa stanza... ma poi ritorna da me” dice con una punta d’orgoglio “c’è una grande intesa tra il vecchio e il bambino, si capisce dallo sguardo, ma è una figura di fumo” aggiunge con rimpianto .

“Che sia un bambino conosciuto che ti è stato molto caro?” le ho chiesto .

“Bepi?” subito lei alludendo al suo bambino nato morto.

“Forse” le ho risposto in un soffio.

E oggi è arrivata all’identificazione. È esplosa così: “Speriamo che nasca bene!”.

“Chi?” le chiedo io.

“Il bambino”.

“Ma chi è la madre?” intuendo che è arrivata alla soluzione del mistero.

“Io”.

Pausa, silenzio.

“E perché non dovrebbe nascere bene?” dico io stando al gioco .

“Perché non posso fare strapazzi, che pazzia stare qui, dovrei essere a letto!”.

“Sei contenta che nasca?” presa anch’io da un’atmosfera di complicità.

“Sì” e si illumina tutta.

Poi dice: “Magari fossero due! Oggi ci sono mezzi diversi da un tempo, si può salvare sia la madre che il bambino”.

Il giorno prima di morire il peso di quel ricordo doloroso si scioglierà nell’evento finale del parto.

“Tu sì che sei brava” dirà osservando il mio affaccendarmi attorno al letto, collegando la mia figura china su di lei a quella dell’ostetrica di allora che “le aveva ucciso il bambino”.

“Perché?”.

“Perché tu me l’hai salvato il bambino” sussurrerà con occhi colmi di riconoscenza.


Oggi mi illudo di aver contribuito a riconciliare in qualche modo mia madre con se stessa, di averla portata a ritrovare nel suo corpo quella presenza del sacro che non aveva mai potuto riconoscere.

Maria Luisa Martinelli

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