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Lidia Menapace

Peregrinazioni con sosta a Pechino

Una viaggiatrice, la geografia e i conflitti di genere

Da Miopia n.35, maggio 2000 - numero monotematico UNO SGUARDO A ORIENTE

Oriente ed Occidente - come è noto - sono nozioni vaghissime e senza alcuna attinenza alla geografia. È ammesso che il Giappone, dal punto di vista economico, è “occidentale”, addirittura più della Spagna, la quale, per i punti cardinali, è il più occidentale paese d’Europa; così come è nota la battuta di Andreotti, “girando girando, chi era a sinistra rientra da destra e viceversa”. Anche le nozioni di destra e sinistra sono non meno incerte, pur se la loro origine parlamentare ha almeno un fondamento storico, che stranamente si mescola con una antica tradizione religiosa: per gli Ebrei antichi, come per i Greci o i Romani da destra venivano segni fausti (Giove tuonò da destra), (sedetevi eletti alla destra del Padre), da sinistra infausti.

Ho fatto apposta un po’ di confusione, per riaffermare che nozioni come quelle che attribuiscono ai popoli particolari caratteristiche (il genio di un popolo) oppure alle persone in gruppo altre (gli infidi orientali) sono solo generalizzazioni che - quando va bene - producono una fitta serie di proverbi sui pregiudizi, o barzellette sugli stessi (dall’avarizia degli scozzesi alle storie di Moni Ovadia), altrimenti anche razzismo. Comunque nei confronti delle donne pregiudizi proverbi e attribuzioni di caratteristiche negative (inferiori o superiori, disprezzate o temute, serve o streghe) è universale, a dimostrazione del fatto che il conflitto di genere non conosce né destre né sinistre né occidente né oriente e questo lo differenzia da ogni altro conflitto o discriminazione o marginalità (cosa che appare incomprensibile a Laura Balbo ministra per le pari opportunità tra uomo e donna, la quale dice sempre che vuole allargare le pari opportunità a tutte le discriminazioni, elencandole). E’ la giusta sorte di nozioni incerte, quando non vengono sottoposte a criteri di giudizio precisi. Dopodiché si può pur sempre usarle, in modo più allusivo sfumato o ironico.

Ad esempio nel corso del Forum delle ong, riunite a Pechino - Huairou durante la quarta conferenza mondiale delle NU (1995), venne fuori che appena si parlava di globalizzazione (correttamente chiamata col suo nome scientifico e non con l’insensata definizione giornalistica) cioè del PAS, (programma di aggiustamento strutturale) le donne del sud del mondo erano molto preoccupate e tra loro prima di tutte le giapponesi, le sudafricane e le australiane. Ridevamo un po’, perché certo tutti e tre questi gruppi nazionali vivono in paesi ricchi, e allineati dal punto di vista politico ed economico con il citato Occidente. Ma replicavano le giapponesi, noi non abbiamo alcun diritto sancito e in qualsiasi momento, dato che il lavoro non è garantito e le condizioni di esso possono essere appesantite in modo non tollerabile e non compatibile con la riproduzione lato sensu (attraverso il toyotismo), noi siamo donne del sud del mondo: dove stanno dunque? ad occidente, come vuole il loro governo; ad oriente, come vuole la geografia; o al sud, come pensano di essere loro?

Passeggiando per Pechino e curiosando nei mercatini lungo le strade principali notavo - e così nei supermercati, negozi, magazzini - che le donne sembrano avere un potere significativo. Ci veniva anche magnificato nei cartelloni esplicativi nel corso della conferenza. Ma poiché sapevamo che il governo cinese aveva molto da farsi perdonare e che ci teneva - del resto non solo il governo cinese: a leggere i documenti ufficiali sembra che le donne siano al sommo dei pensieri e dei provvedimenti in ogni parte del mondo, per fortuna che possiamo incontrarci e dirci come stanno veramente le cose - non abbiamo mai attribuito molta considerazione ai dati ufficiali. Mi colpirono molto, negli scaffali delle librerie nel corso del forum, i libri della ferita (arrecata durante la rivoluzione culturale) e della recuperata salute e della riconciliazione: spesso di scrittrici, spesso racconti di relazioni tra donne, rese difficili dall’intrusione di politiche autoritarie persino quando dichiaratamente rivolte alla loro liberazione. Questo fu notato anche durante i dibattiti sugli abiti femminili. Ricordo una iraniana, allora esule a Parigi, raccontare il seguente episodio. Appena cadde lo sciah, come le altre studenti universitarie, indossò spontaneamente e orgogliosamente il chador, per dimostrare che era contraria alla politica di allineamento occidentale (rieccoci con l’occidente) imposta dalla dinastia. E che la madre, la quale aveva dovuto portare il chador per obbligo religioso era scoppiata a piangere e diceva “figlia mia, tu non sai che si nasconde sotto quel velo”.

Ma, per tornare alle cinesi, litigano di continuo, alzano la voce, comandano come furie, sembrano presentissime nei commerci, sia quelli importanti, dirigono molti grandi magazzini, sia quello minuto e contadino dove espongono una quantità inverosimile di cose, in canestri carrettini cesti scalette, giornali frutta chiodi viti spaiate vecchi copertoni d’automobile cibi bevande ciabatte sigarette all’infinito. Non mostrano curiosità troppo forti, forse ciò è dovuto alla loro educazione: al massimo si viene interpellate con un hello e poi si cerca di capirsi con grandi sorrisi e una pazienza che sembra non avere limiti.

A Pechino - sarà stata la mia proverbiale curiosità che supera ogni paura - non mi sono mai sentita fuori, estranea, guardata con diffidenza, o con eccessiva attenzione, nemmeno quando mi sono messa a far ginnastica nel piazzale dell’albergo (la facevano tutti e tutte per strada, alle fermate degli autobus, certo, la loro: ma perché io no, dato che era molto meglio all’aperto che in camera?): ho camminato di notte per strade e quartieri a me sconosciuti, ho preso dei taxi che non trovavano il mio albergo e fermavano per strada chiunque la notte, per chiedere informazioni, anche donne in cammino tranquillamente, le quali non mostravano la minima preoccupazione per essere fermate da una macchina. Se penso che a New York ho ansie e timori anche a mezzogiorno a Times Square, mi domando da che cosa mi venisse tale agio: del resto anche a Singapore, che però è molto occidentalizzata, una Svizzera asiatica tenuta così da una repressione selvaggia e molta ipocrisia: affermano che non vi è prostituzione e subito penso che non ve ne è di visibile; danno multe salatissime a chi butta in terra una cicca; non si può fumare da nessuna parte, se non negli angolini appositamente attrezzati con bidoni portacenere per strada, al chiuso nemmeno pensarci; e anche a Bangkok, che invece lo è molto meno.

A Pechino allegrissime le bambine, paffute, con occhi lucenti e grandi sorrisi: debbono essere molto benvolute, dato che la legge regolamenta duramente le nascite e per tradizionale pregiudizio si pratica l’orrendo aborto selettivo: chi è nata era davvero voluta, attesa.

Volendo dare una minima spiegazione a ciò che ho provato in varie occasioni di viaggio (tutti viaggi politici per prendere parte a convegni congressi e simili, non turistici) mi sono venuta convincendo che non si tratta di oriente oppure di occidente, ma di cose più profonde, legate alle religioni presenti nelle varie aree. Ove imperano le religioni del libro (ebraismo cristianesimo e islam, tutte figlie di Abramo, tutte religioni del padre, tutte monoteiste e rigide nel definire osservanza dogmi riti ecc.) sembra che la condizione delle donne sia magari migliore, ma in qualche modo dipendente da forme culturali “razionali”, stabili, sicure di sé, difficili da scalzare e da correggere. Dove vige una forma di religione che ha piuttosto caratteristiche sapienziali, formative ed etiche, ma senza riferimento a una divinità chiamata con un nome e definita con criteri di assolutezza, sembra che possa esservi - anche se la condizione delle donne è per solito più tremenda - una sorta di spazio per la saggezza delle donne, per la loro intrusione nei commerci del mondo. Il che fa trapelare alcune caratteristiche culturali comuni. Del resto i luoghi nei quali l’oppressione è più forte e indiscutibile, poggia su convinzioni sostenute da ordini religiosi, sono quelli dove si è impiantata una qualche religione definita, in ispecie l’islam, ma non solo.

Certamente per capirsi è stato più utile fare affidamento appunto sulla saggezza delle donne sagge, (coma da nota parabola, non tutte siamo sagge, vi sono anche quelle folli, che non risparmiano e si trovano sprovvedute di fronte ai casi della vita) che non su distinzioni rigide e dibattiti predefiniti. Huairou ha segnalato e messo in scena molte forme della comprensione. Ne racconto alcune delle più significative.

Intorno alla violenza sessuale la conferenza si è molto chiaramente espressa e ha avuto al centro la conclusione di una estenuante lotta delle donne coreane verso il governo giapponese, per gli stupri perpetrati dall’esercito nipponico occupante la Corea durante la seconda guerra mondiale. In breve, le donne coreane lamentano di essere state obbligate a fare le prostitute per i militari invasori. Nella lunga controversia il Giappone per molto tempo non ha voluto riconoscere i torti delle sue truppe, e questi soli - tra tutte le distruzioni che sono state oggetto di trattativa internazionale per i danni di guerra - non ha voluto in alcun modo ammettere e risarcire. Le donne coreane si sono fornite di avvocati giapponesi e di pareri di donne giudici nei vari ordinamenti e a Huairou hanno tenuto l’ultimo vittorioso atto della loro lunga e orgogliosa pazienza. Infatti nel corso degli anni immediatamente precedenti la conferenza il governo giapponese aveva infine accettato che gli stupri erano avvenuti in grande quantità e senza condanna, anzi organizzati come bordelli coatti: le donne coreane avevano allora avanzato una richiesta di risarcimento per danni di guerra (analogo itinerario negli anni cinquanta in Italia per le stuprate dagli eserciti alleati): il governo giapponese aveva aperto una sottoscrizione popolare, rifiutata dalle coreane, che volevano magari uno yen, ma dal governo e piuttosto che molti yen dalla carità.

Si tenne a Huairou l’ultima seduta del tribunale e alla conclusione, dopo i nostri applausi, le coreane dichiararono che non era finita: una giovane cantante era pronta, vestita di bianco (il loro colore del lutto) per cantare una assai bella canzone di compianto delle infelici donne stuprate. Ma ancora non era terminata la parte politica della questione. Invitate ad uscire sul piazzale davanti alla sala in cui era stata tenuta l’udienza, ci sono sfilate davanti le danzatrici nel loro sgargiante costume nazionale di organza di seta con un corpetto appena sotto il seno e una larghissima gonna a corolla di colori molto contrastanti (verde e cioccolata, rosa e violetto, rosso e verde), portavano tamburi campane e altri strumenti e un rotolo di seta bianca. Danzavano e ci invitarono a unirci a loro, le africane non ebbero nemmeno bisogno di invito e così le latino-americane, le asiatiche subentrarono quasi subito con movenze aggraziate: restie, imbarazzate, restammo solo noi occidentali, chiuse e impedite nei nostri abitucci di colori sobri e di taglio stretto. Comunque loro danzavano e anche alcune tra noi, poi ci fecero mettere tutte lungo i due bordi della pezza di seta bianca che avevano srotolato e la danzatrice che conduceva l’azione, infilandosi sotto la seta, la lacerò col petto da un capo all’altro, lasciando due margini interi. Così noi ci disponemmo in cerchio dispiegando la seta e si capì che la lacerazione terribile e luttuosa dello stupro era simbolicamente lenita dalla solenne e vitale danza di tutte le donne del mondo. Questo segna una differenza tra oriente e occidente? Forse non proprio, ma piuttosto tra culture che temono il corpo e culture che lo tengono in grande considerazione.

L’altra questione che ci angustiò era quella delle mutilazioni sessuali femminili. Già trattata a Nairobi dieci anni prima, si era conclusa senza trovare un accordo e ci si ripresentava a Pechino, non senza una lunga e approfondita riflessione. Dieci anni di paziente lavoro di interpretazione coranica, di ricostruzione storica dell’origine di tali pratiche, e infine la formula giuridicamente efficace sulla quale si è convenuto, anche se i governi non sembra l’abbiano davvero recepita e l’opinione pubblica non ne è informata, come si deduce dai dibattiti televisivi ricorrenti. La formula recita: l’integrità fisica è bene non disponibile, che segnala una grande intelligenza, perché afferma l’intangibilità del corpo e nello stesso tempo non formula però una nuova costrizione, un nuovo divieto, e persino - al limite - non obbliga nessuna a sottrarsi, se non lo vuole, a una tale forma di fedeltà culturale e religiosa. Come nessuno potrebbe vietare alle suore cattoliche di decidere di rimanere vergini.

E ancora una cosa voglio dire: come ci si comportò per un dibattito contro il militarismo, in preparazione alla stesura del documento finale che - è noto - si apre con la folgorante dichiarazione: “le spese militari sono la principale causa della povertà nel mondo e in cambio non danno nemmeno sicurezza”. Presiedevano alcune indiane, la relatrice principale era una canadese. Prima di cominciare ci furono distribuiti dei sassi levigati di vario colore peso e forme e ci fu detto di manipolarli per un po’, poi furono accesi degli incensi e una delle indiane fece una breve danza intorno al tavolo della presidenza, alla fine fu dato inizio ai lavori, col dire che non si poteva parlare di pace senza essersi disposte ad ascoltare con concentrazione e simpatia, in pace appunto.

Alla fine di tutto voglio ancora dire una cosa: che a me la possibilità di intesa comprensione e approfondimento è apparsa molto più forte significativa e profonda, quando ho avuto a che fare con popoli antichi. La prima volta che una occidentale un po’ sprovveduta citò il giubileo, cominciò la litania ironica delle cinesi che presero a iniziare i loro discorsi così: nei cinquemila anni di storia del popolo cinese ecc. ecc. Lo stesso fecero le egiziane, le iraniane, le native dell’America latina: insomma la storia è, ha, e dà un altro spessore, forse perché si sono già commessi quasi tutti gli errori possibili e viste tutte le possibili vicende; ma certo lo stupore un po’ infantile che fa levare gridolini di meraviglia alle americane e la loro capacità di misurare tutto solo con la conta del denaro, quantitativamente, appare davvero insufficiente, per occidentale che sia. D’altra parte il vituperato occidente repressivo e violento ha pure prodotto un corpus di leggi sui diritti delle persone, che spesso le donne di altre plaghe del mondo ci invidiano. In conclusione: il mondo è bello perché è vario e la differenza lo interpreta proprio perché è e resta differenza anche tra noi. Se ci piacciamo è perché la differenza è un miglior paradigma interpretativo e conoscitivo - appunto - del mondo.

Lidia Menapace

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