Teresa Martini
Dall'università alla resistenza
Nel settembre 1943 una ragazza scopre un altro mondo
Da Miopia n.34, luglio 1999, intervista a cura di Elena Fogarolo
La mia attività clandestina è iniziata subito dopo l’otto settembre 1943. In un primo momento c’era il problema di tanti soldati italiani allo sbando, che avevano bisogno di abiti civili per scappare a casa. Poi un’amica che lavorava in Prefettura è venuta a sapere che nelle campagne c’erano militari alleati fuggiti dalla prigionia che vivevano nascosti nei fossati e avevano bisogno di cibo e vestiti.
Con questa amica ho cominciato ad aiutare questi uomini. All’inizio portavo da mangiare; sottraevo qualcosa a casa mia, era una famiglia benestante, e anche molto numerosa, e non si accorgevano di nulla. Avevo 24 anni ed ero iscritta alla facoltà di Chimica; la mia amica era sulla trentina... insieme andavamo, in bicicletta e con le borse piene, nella campagna subito fuori Padova, dove c’ erano questi ex prigionieri alleati. Mi spingeva un forte senso di solidarietà, una voglia intensa di aiutare, un senso cristiano. Presto mi sono confidata con due delle mie sorelle, che hanno reagito come me e si sono unite a questa attività di soccorso. Non ricordo di avere mai provato paura, eppure l’attività che facevamo era molto pericolosa: Padova era sede di un Comando tedesco e i soldati tedeschi erano numerosi.
I miei genitori all’inizio non sapevano nulla. Furono però presto coinvolti anche loro.
Si andava verso l’inverno e quegli uomini avevano bisogno di riparo, non potevano continuare a vivere nei fossi. Così anche nella soffitta di casa mia, in centro a Padova, furono ospitati due rifugiati. I miei genitori avevano molta paura, ma agiva, specie in mia mamma, una speranza, come una fiducia che, come noi aiutavamo questi ragazzi, così i suoi figli che erano in guerra in qualche parte del mondo sarebbero stati aiutati da gente buona.
Avevo quattro fratelli lontani da casa; Sandro, che era pilota, era disperso e non è più tornato; Giuseppe era in Africa, un altro, Domenico, fu prima in Iugoslavia e poi prigioniero in Germania. Un altro fratello era renitente alla leva e viveva in clandestinità.
Noi intanto eravamo ormai un vero e proprio gruppo. Eravamo in contatto con persone che agivano a Saonara, un Paese del padovano. Capitò poi che una mia sorella dette lezioni a un ragazzo che era a contatto con una rete della resistenza, e così ci collegammo con il gruppo di Meneghetti.
Il nostro compito principale divenne quindi quello di aiutare a far uscire dall’Italia i militari alleati, dato che era sempre più pericoloso ospitarli nelle case. Andavamo al “Santo” (1) da un frate che era collegato alla resistenza, da cui ci facevamo dare delle foto degli ex-voto... noi, che conoscevamo i ragazzi da aiutare, le sceglievamo in base alle rassomiglianze. Con queste foto qualcuno, con cui noi non eravamo in contatto diretto, faceva delle carte di identità false per i militari alleati. Questi venivano accompagnati a piedi da Saonara fino a una stazione secondaria di Padova, dove le mie sorelle ed io li aspettavamo per accompagnarli in treno fino a Oggiogno, un paese del lago di Como, da dove loro guadagnavano il confine svizzero, mentre noi tornavamo indietro. I soldi per i il treno ce li davano al Santo, penso che fossero fondi gestiti dal Vaticano.
Di solito questi viaggi li si faceva in due, in compagnia di questi marcantoni alti alti, neozelandesi, sudafricani e altro. In treno, per diminuire il rischio, fingevamo di non conoscerli, caso mai succedesse qualcosa...
Tra le persone che da Saonara accompagnavano questi ragazzi a Padova (spesso dopo averli anche ospitati), ricordo una ragazza, Delfina Borgato, che aveva allora 17 anni, e sua zia Maria, che era zoppa e faceva tutta la strada col rosario in mano, però mica si tirava indietro... Dopo, per tornare, doveva farsi ancora una decina di chilometri a piedi. Abbiamo fatto parecchi di questi viaggi, mettendo in salvo molti uomini.
Le mie sorelle Lidia e Liliana erano coinvolte direttamente, come me, ma in casa anche le altre sorelle davano una mano, erano di aiuto in qualche modo. Abbiamo avuto anche altri incarichi, pure rischiosi, come la distribuzione di volantini. Nel frattempo ero diventata più cosciente anche del mio desiderio di oppormi ai tedeschi.
Sono stata arrestata il 14 marzo del 1944, insieme con Liliana. Eravamo a casa da sole, noi due e una domestica. Vengono due delle SS, vanno a controllare la radio, per vedere se eravamo in collegamento con le emittenti inglesi, vanno qua e là... ci dicono “vestitevi, che andiamo via”. Ci portano in Prato della Valle, dove ci caricano su un camion con altra gente arrestata.
Quel giorno mia sorella Lidia, che era andata a fare uno dei soliti viaggi, aveva perso il treno con cui doveva tornare a casa, e ha telefonato: così si si è salvata, perché la domestica ha potuto avvertirla di non tornare. Lidia ha avuto ospitalità a Milano nell’estate del ‘44, ma poi è stata comunque arrestata e detenuta a Bolzano.
Dunque in camion ci hanno portato a Venezia, alle Carceri di S. Maria Maggiore, dove sono stata per quattro mesi in una cella singola, praticamente in isolamento. E’ stato un periodo molto duro, le cimici impedivano di dormire e il mangiare... lasciamo stare... però potevo leggere e lavorare a uncinetto e a ferri. Ricevevo pacchi da casa e anche corrispondenza, naturalmente con le cancellature della censura. Verso la fine di luglio ci portarono “fuori”.
La speranza era sempre quella di tornare a casa... invece ci spedirono al carcere di Bolzano... un carcere schifoso anche questo, però almeno qui si stava in celle grandi, ero con Liliana e le amiche del gruppo, Delfina e sua zia. Ci facevamo coraggio, ci eravamo di sostegno. Siamo state trattenute a Bolzano per un paio di settimane.
Abbiamo subìto diversi interrogatori... non sono mai stata picchiata, mentre Liliana, che era di corporatura più robusta, sì. Non abbiamo subito molestie sessuali... le esperienze peggiori in questo senso le avrei avute più avanti a Mauthausen, con la vergogna della depilazione fatta davanti a tutti, per mano di uomini, e poi con la promiscuità forzata del campo di smistamento.
All’inizio di agosto ci trasferirono di nuovo. Questa volta verso l’Austria, su un treno a scartamento ridotto, non un carro bestiame, comunque...
Alla stazione di Mauthausen arrivammo alla sera, c’era la luna... le sentinelle ci fanno scendere dal treno, guardano sotto i carri che non ci sia qualcuno che vuole scappare... fucilate... in una fila lughissima ci fanno salire su in collina fino al campo... si vedevano luci disseminate intorno, ho saputo dopo che erano le luci di altri campi di concentramento. Nella fila vidi dei sacerdoti malmessi. Se uno zoppicava o cadeva, erano bastonate, oppure lo uccidevano. Questa marcia preparava l’animo al momento in cui si arrivava davanti alla porta del campo, alta, illuminata, guardata da sentinelle.
Ho avuto un pensiero, “qui si entra e non si esce più”... lo ricordo come se fosse ora. E’ stato un momento di completo sconforto, di desolazione. Ci hanno divisi, le donne da una parte e gli uomini dall’altra. Siamo passati per il locale delle “docce”, che era in realtà quello - come abbiamo saputo dopo - delle camere a gas. A Mauthausen sono rimasta molto poco.
Siamo stati presto portati in un campo di smistamento, che era proprio un obbrobrio di affollamento, di mescolanza di gente di tutti i tipi, di promiscuità fisica. Fummo assegnate entrambe, Liliana e io, al campo di lavoro di Linz, perché un bombardamento aveva causato decine di morti tra i prigionieri lavoratori, e c’era bisogna di un rimpiazzo: un caso che, a noi, ha salvato la vita.
Mi venne un forte mal di gola: avevo la difterite. Fui ricoveratata all’ospedale di Linz, dove passai il miglior periodo di tutta la prigionia: dormire tra vere lenzuola! Fui anche curata bene, con accorgimenti che in Italia ancora non si usavano con la difterite.
Mia sorella intanto era già a lavorare nella fabbrica a cui ero destinata anche io. Io lavoravo a una fresa elettrica, e Liliana a un tornio idraulico, con turni di 12 ore, un lavoro durissimo, senza nessuna protezione, a causa del quale si ammalò dopo la fine della prigionia, e dovette fare due anni di sanatorio.
Anche a Linz fu una grande fortuna dormire in camerata con mia sorella e le amiche del gruppo. Venne l’inverno. Abbiamo patito molto il freddo. C’era comunque molta solidarietà anche con le donne di altre nazionalità. Un’amica slava mi fece un cappotto con vecchie coperte. La fame era tanta, ma soprattutto il freddo... ricordo che una volta, mentre ci conducevano a lavorare ho guardato un termometro: venticinque gradi sotto zero.
Una notte uscimmo in due dalla baracca a cercare legna da ardere sotto la neve.., non so cosa ci avrebbero fatto se ci avessero sorprese, ma era proprio una questione di sopravvivenza.
Negli ultimi mesi di prigionia, a causa dei frequenti bombardamenti, la fabbrica e il personale furono trasferiti da Linz a Grein Donau, nei sotterranei di un grande castello. Da noi la liberazione arrivò solo il 9 maggio del ’45. Furono gli americani ad arrivare, ma eravamo vicini alla zone dove erano arrivati i russi. Abbiamo avuto subito il problema di dover mangiare con cautela perché, disabituati, si poteva morire per una pastasciutta.
Ci trasferimmo a Mauthausen, in paese, non al campo, perché lì c’ era il comando alleato. Per le strade trovavamo rivoltelle, armi di vario tipo, tutta roba abbandonata dai tedeschi in fuga.., da noi non c’erano state le distruzioni e l’infierire dei tedeschi, che si erano verificate in altri posti. Abbiamo conosciuto altri ex prigionieri, anche russi, che risultavano essere stati trattati nel modo più bestiale.
Unitamente a un bel gruppo di prigionieri di guerra italiani, riuscimmo a procurarci un camion, adesso ci mancava solo un lasciapassare per tornare in Italia. Sono andata io al comando alleato, con un bigliettino dove mi ero scritta in inglese quello che dovevo chiedere, sapevo un po’ l’inglese, ma non parlarlo.
C’era scritto “Siamo in 27, abbiamo un mezzo, ci servirebbe un lasciapassare ecc.”... così ottenni il foglio dagli alleati e fui una specie di “capa” della spedizione, anche perché sapevo la geografia. I ragazzi del gruppo visitarono le fattorie dei dintorni procurando cibo, persino un pollo! Il viaggio durò un paio di settimane. Vicino a Innsbruck dovemmo fare un breve periodo di “quarantena”.
Arrivate infine a Padova, non avevamo il coraggio di andare direttamente a casa. Allora andammo al Santo in cerca di padre Cortese. Ci accolse un frate molto giovane, che ci guardò male e ci disse “ma non si viene in chiesa in calzoni” (eravamo in tuta da lavoro). Gli risposi “se sapesse da dove veniamo, non ci direbbe così”. Padre Cortese però non c’era, era stato arrestato. Come sapemmo dopo, era stato portato a Trieste e torturato fino a morirne (ne sono sicura perché solo qualche anno fa ne ho avuto conferma da un’amica che si trovava nel carcere delle SS a Trieste, contemporaneamente a lui).
Teresa Martini
1) A Padova la Basilica di Sant’Antonio è chiamata da tutti “Il Santo”. La basilica era, ed è, territorio dello Stato Vaticano.