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Augusta Baldioli

Il collo di op-skunz

Da Miopia n.14, settembre 1992.

La mia mamma mi parlava in italiano perché così aveva dettato il regime, ma qualche volta mi chiamava affettuosamente "cicio" e - nei momenti di verità - sbottava a dire "Fiola, fam mia gnì mata!" o "Cul che Dio vol, l'è mai trop" ed anche "Fiola, spusa mia un omm!" (1) che in genere era accompagnato da un sospirone.

Suo marito, mio padre, l'amava e rispettava molto, che diamine, ed io ero testimone del bacio-becchettata che le stampava sulla faccia all'andata e al ritorno dal lavoro o dal bar. Era serio, onesto e lavoratore e si faceva il segno della croce ogni volta prima di infilarsi nel lettone, anche quando di notte si alzava a far pipì, per riflesso condizionato: lei era riuscita ad imporgli quello che a tutt'e due era sembrato dignitoso per un socialista di vecchio stampo operaio che aveva sposato una cattolica osservante. La mia mamma mi raccontava che "da giovane" aveva sempre "portato il cappellino" - segno di grande distinzione all'epoca - e ne aveva ancora uno, fatto "a cacca di mucca" che si spiaccicava in testa alla domenica d'inverno, con il "paltò di velur" (2) che aveva "il collo d'op-skunz" (che io credevo fosse un animale saltatore, né ho ancora capito di che pelo si trattasse!).

Cappello e cappotto ed op-skunz erano tutti rigorosamente neri perché mia mamma "era una signora seria" avendo superato i quarant'anni, e comunque tutto doveva "durare molto" ed "andar d'accordo con tutto", quindi si era stabilito che il nero "andava d'accordo" con tutti gli altri neri ed in più era "distinto" e "non stancava".


La vignetta originale
La vignetta originale

Quand'era tutta così addobbata, apriva un cassetto della "scrivania" (che chissà perché stava in cucina e fungeva da credenza, senza che ci scrivesse mai nessuno), vi trovava una scatola di cartone rotonda con del borotalco che si chiamava "polvere Maga", vi sbatteva dentro un bioccolo usatissimo di cotone e sollevava una nuvola di polvere cercando di sbattersela tutta sul naso e sulla fronte, perché evidentemente "le belle donne distinte" dovevano aver la faccia infarinata... Quindi, "con i guanti di pelle" e la "borsetta di vernice", mi prendeva per mano ed andavamo in chiesa. Io ero inscatolata in un paltoncino ovviamente nero di finto astrakan che era stato un soprabito della zia ma che ora aveva un colletto bianco che simulava nientemeno che un ermellino con tanto di musetto e codino, un "orlo" di finto orso ed i prolungamenti delle maniche di finta volpe.

A completamento di tanta coraggiosa fantasia, in testa avevo la "cuffia verde" che - essendosi ristretta per la pioggia e per la crescita della mia testa - era stata allargata da una striscia di maglia marrone "a punto di riso", che si concludeva sul mio cocuzzolo con una specie di misero fiocchetto. Lei, la mamma, era alta, pettoruta e "distinta", io ero piccola, magra, smunta, con i "denti davanti" che crescevano tutti assieme l'uno sopra l'altro, gli occhi appiccicati dalla congiuntivite, le "croste" sotto al naso, le gambette stortissime ed i capelli dirittissimi che non stavano "nei codini".

Molti anni più tardi, il femminismo mi avrebbe interrogata sui rapporti con la madre, che nel frattempo era morta, ma l'immagine di quelle due figure nere, la sua grande ed un po' solenne e la mia striminzita, mi han sempre impedita una visione serena... Era stata "una buona madre"? Una pessima madre? Una madre così così? Non lo so ancora: è stata LA MIA MAMMA, adorata ed aborrita secondo i canoni classici; soltanto lei aveva nel collo quei "pirolini" di pelle e quel profumo di "polvere Maga" dei quali così raramente potevo inebriarmi, perché ai nostri tempi "non bisognava viziare i bambini", giacché i maschietti avrebbero dovuto diventare "baionette" e le bimbe sarebbero state "massaie"... Così son stata allevata da brava bambina diligente, diventando una ragazza in gamba, per esser poi una donna forte, di quelle che non si spezzano mai a costo di diventar rigide come tralicci, infatti... Ma quella mamma che non ho potuto "amare" come avrei voluto, mi è finalmente amica da quando ho capito il suo sbottare a parlarmi in dialetto così vero ed ironico: "Fiola, spusa mia un omm...".

Invece "ho sposato un uomo" che mi è ancora marito, ne ho amato altri ed ho capito ed amato anche il papà, son stata brava "come un uomo" e son rimasta vulnerabile e resistente come una donna. Quando, ricorrentemente, qualche donna mi dice "Tu non sei mamma, NON PUOI CAPIRE", chissà perché mi vien da sorridere, con complicità amorosa, alla mia mamma.

Augusta Baldioli

1) "Figliola, non farmi diventare matta", "Quello che Dio vuole, non è mai troppo", "Figliola, non sposare un uomo!".

2) Cappotto di velour (stoffa pelosa di lana, simile al cotone).

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