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Elena Fogarolo

Maestra d’amore

Miopia n.30, settembre 1997, numero monotematico Il tempo di Ecate.


Anna insegna a Maria, scultura in legno del XVI secolo
Anna insegna a Maria
Scultura in legno del XVI secolo,
convento Clarisse di Amiens
(Link da ste.anne.trinitaire.online.fr)

Quando nasciamo, viviamo grazie all’amore che ci circonda. Ma questo amore lo troviamo naturale, lo respiriamo come l’aria, senza vederlo. E lo ricambiamo istintivamente.

Ad un certo punto, diventiamo consapevoli di amare. Questa consapevolezza di persone amanti non è detto che si realizzi rispetto ai familiari. A me, è capitato di essere cosciente per la prima volta dell’amore, di chiamarlo tale, nei riguardi di una donna non giovane. Questa donna è stata la mia maestra in prima e seconda elementare. Fisicamente era simile a tante coetanee, un po’ ingrossata, con le gambe gonfie forse per la cattiva circolazione, vestita come una che indossa gli abiti al mattino e poi se ne dimentica.

Quando seppi di amare, come tutti gli innamorati ebbi bisogno di dirlo. Suscitai molto stupore perché lei non era giovane, non era bella, non era carina. E così imparai che una donna anziana non la si deve amare. E imparai a stare zitta.

Questa maestra mi preparò la strada per un rapporto facile con la scuola. Me la fece amare, la scuola. Tuttavia, quando lei era ammalata e veniva sostituita da una supplente, era come se la luce si spegnesse e le cose si appiattissero: non amavo la scuola, ma lei. Questa donna dall’età declinante e dalla salute cagionevole, di cui era certamente consapevole (sarebbe morta pochi anni dopo), incarnava per molti aspetti l’archetipo della vecchia saggia. Come tale amava la nuova vita e ne accettava benevolmente le ingenue manifestazioni di entusiasmo.

Era tranquillamente eccentrica, un po’ brusca, una che dava a Cesare quel che è di Cesare, e non di più. Veniva un ispettore? Non è che facesse finta di nulla, si comportava come bisognava ma senza tanto agitarsi. Nello stesso tempo si faceva come assente, e comunicava a noi che partecipavamo alla scena il suo senso di misurato distacco: “queste cose bisogna farle, ma non è detto che bisogna buttarcisi dentro!”.

Con le “orecchie” dei miei quaderni aveva lo stesso atteggiamento: non erano eliminabili ma sarebbe stato meglio che io le avessi ridotte, se non in tutti i quaderni (le sue richieste erano sempre molto realistiche) almeno nei quaderni “di bella”. E mi insegnò qualche trucco pratico, per fare meno orecchie.

Ricordo certe sue bruschezze generiche, non indirizzate ad alcuno, che non ferivano.

I bambini, come amano le porcherie alimentari (porcherie, schifezze, pasticci: il gergo per definire tutti i prodotti che ingurgitano i bambini con scarsi effetti nutritivi e molti effetti dannosi è variegatissimo), amano anche le porcherie sentimentali.

Questa donna mi insegnò a star lontana dalle porcherie sentimentali, non con il famoso esempio, non con le prediche, ma con il suo tono emotivo.

Ricordo, tra l’altro, che ero stata fortemente contagiata, fin dai primi giorni di scuola, dal trip che imperversa ancora oggi nelle classi: chi è la più brava della classe? E da un secondo trip, questo più tipico delle classi femminili: chi è la preferita della maestra? A queste domande non riuscivo a rispondere, avevo una golosità pazzesca di sapere (e ovviamente di sapere che ero io la più brava/la preferita!), ma lei eluse sempre la questione, fin che realizzai che questa brama di sapere il nome della più brava rientrava in quelle che ho chiamato “porcherie sentimentali”.

Questa maestra non mi elogiò dunque mai direttamente. Ma a volte, con dolcezza e ironia, qualche apprezzamento obliquo se lo faceva scappare. Così obliquo era l’apprezzamento, che stavo poi ad interrogarmi se era proprio un apprezzamento, mentre il cuore che batteva e il calore del viso mi inquietavano con una domanda più fonda, che alla fine assorbiva tutte le mie energie: “che mi accade? che è?”.

La maestra era una persona che incuteva molta soggezione: anch’io avevo soggezione di lei ma - come doveva poi sempre capitarmi quando amore e ammirazione mi nascevano nell’anima - avevo anche sempre una gran voglia, che mettevo in pratica, di pazziare. E lei me lo lasciava fare, a volte direi che addirittura con la sua comprensione mi incitasse a farlo.

Aveva una grande esperienza, una grande sicurezza. Uno dei primi ricordi che ho del mio rapporto con lei è questo: ci aveva dettato qualcosa, e poi aveva iniziato a passare tra i banchi per correggere. Nell’attesa, incantata dagli spazi chiusi delle “a”, delle “o”, delle elle, mi misi distrattamente a riempirli d’inchiostro. In questa operazione mi dimenticai di tutto. Quando la maestra arrivò al mio banco, mi riscossi improvvisamente e vidi con terrore una pagina tutta nera d’inchiostro. La guardai sgomenta ed interrogativa: cosa avevo fatto? Lei passò gli occhi dal foglio al mio viso, in una rapida riflessione. Poi senza dir nulla si allontanò verso il banco successivo. Lasciandomi con l’esperienza nuova e grande di essere “saputa”: quel che avevo fatto lei lo capiva, lo compativa e se ne inteneriva.

Un giorno venne a scuola con sua figlia, una ragazzina che studiava alle magistrali. Con fare quieto, severo ed amoroso insieme, coglieva i momenti in cui noi eravamo impegnate in certi esercizi per insegnare alla figlia il futuro lavoro. Io ero così attratta da loro due che non persi una parola, un tono di voce, mentre, davanti all’armadio spalancato, trattavano di registri, di compiti in classe, ecc.

Ricordo un giorno verso la fine dell’anno scolastico: il sole scottava ed erano state calate le tende di pesante tela marrone. Poi, improvviso, un temporale con un grande vento e una pioggia battente che in un attimo inzuppò le tende. Le tende schioccavano, la pioggia entrava nell’aula mentre tuonava e lampeggiava, io armeggiavo per tirar su una tenda, ci riuscivo malamente e mi lasciavo beatamente avvolgere dalla tela ruvida, bagnata. Ecco, ebbi l’impressione che quel temporale furioso completasse la scuola. I banchi, la maestra, ed anche il temporale che entrava in classe! Pazziai anche in quell’occasione. Sentivo che la maestra mi guardava, e quello sguardo acuiva la mia felicità.

In quegli anni di scuola la maestra mi insegnò perfettamente le tabelline e l’ortografia, ma mi insegnò soprattutto ad interagire, a modificare l’ambiente. Lei mi aveva dato la misura di cosa è un’insegnante. In seguito avrei cercato insegnanti simili a lei per eleggerle a mie maestre, ma non solo: la chiarezza del suo magistero era stata tale da rendermi in grado, quando ancora ero ragazzina, di sollecitare talenti semisepolti in insegnanti che al primo impatto apparivano meno sagge, ma erano potenzialmente molto capaci.

La scuola, la classe in particolare, è un luogo dove una donna può vivere in una dimensione che secondo l’ideologia corrente dovrebbe esserle mille miglia lontana. Questa maestra mi mostrò cosa può essere una donna.


Da quanto scritto sopra, potrebbe risultare una persona un po’ astratta. Non lo era: era capace di sobbarcarsi le più umili incombenze per aiutare la famiglia di una alunna di difficoltà. Come una fattorina andava per altri, che non sapevano farlo, a procurare carte e documenti. E poi non voleva essere ringraziata.

La mia famiglia cambiò di casa, e dovetti cambiare di scuola, con lacrime e strazi che furono scambiati per capricci. Pochi anni dopo, seppi che la mia maestra era morta. Ma non ci volli credere: avevo bisogno di sperare che la avrei rivista. In seguito, come ho già accennato, mi capitò ancora di amare insegnanti che come lei erano anziane, poco attente all’abbigliamento e per questo criticate e sottovalutate. Avevo imparato a tacere, che questo amore non si doveva dire. Ma, detto o non detto, l’amore delle vecchie sagge aveva fecondato la mia esistenza.

Elena Fogarolo

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