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Elena Fogarolo

La dea che è sogno, la dea che è mito

Da Miopia n.31, marzo 1998, numero monotematico Il dio, la dea (Estratto)


La dea Afrodite su un cigno in volo, pittura vascolare greca</em>
Afrodite su un cigno in volo
Pittura vascolare greca
(Fonte it.wikipedia-org)

In quella fine di autunno del 1967, ero a Trento e avevo ventun anni. Ero iscritta al terzo anno della facoltà di sociologia, ed ero molto infelice per problemi personali e - soprattutto - per l’atmosfera che si respirava all’università.

Una notte ebbi il seguente sogno:

Sono su un colle, insieme con della gente vestita di tela di sacco. Davanti a noi c’è un albero. Stiamo tutti aspettando che fiorisca. È un avvenimento straordinario, perché l’albero fiorisce ogni millennio se non ogni due. Tutti sono consci della fortuna di esseri spettatori.

Poi i boccioli si aprono formando dei grandi fiori bianchi, sul tipo di quelli della magnolia. Dentro ad ogni fiore c’è una donna, visibile dalla vita in su. Ogni donna sa dell’esistenza delle altre, ma non riesce a vederle. Le donne tendono le braccia, cercano di sporgersi, ma tutto è vano: io vedo la loro sofferenza, mi volto verso i miei vicini per commentarla ma mi accorgo che tutti son presi dalla bella novità e non colgono quello che per me è l’essenziale: le donne si sentono sole e ne soffrono.

... Sono al mercato nella piazza di una tipica cittadina murata. Dalla porta nord, quella che dà verso i monti, entra un gruppo di donne: i loro visi sono seri, solenni come il loro modo di camminare. Comprendo che sono le donne dell’albero. Sono contenta che si siano liberate, ma mi stupisco che nessuno si chieda chi sono.

Arrivate al mercato, le donne si dividono, si infilano tra la gente, ognuna trova un uomo e va via con lui.

... Ora sono su una terrazza con una di queste donne, che è diventata una sorta di madre-maestra. La donna mi sta spiegando che mi deve lasciare, io protesto vivamente, lei mi dice che purtroppo è inevitabile: “vedi? - mi mostra il viso - sto diventando verde: è il segnale che devo tornare dentro l’albero. Solo così posso continuare a vivere”.

... Sono sopra un poggio dominante il villaggio dove le donne vivono. È una domenica mattina. Gli uomini si sono alzati presto e sono andati verso est, a pescare. Le donne dell’albero escono verso ovest. Le raggiungo quando stanno salendo la collina. Indossano cappotti blu. Chiamo la “mia” donna. Al mio richiamo, si girano tutte: sono tutte uguali! Impossibile individuare la mia. Sono sgomenta. Di nascosto continuo a seguirle.

Ora le donne hanno quasi raggiunto l’albero, ma si bloccano perché attorno all’albero sono accampati degli studenti di botanica inglesi, vestiti con abiti di foggia settecentesca, corti calzoni stretti e scarpe con il tacco. Non parlo con le donne, ma so che si vergognano tremendamente. Per loro è impossibile entrare nell’albero finché ci sono gli studenti. Nell’attesa prendono riposo in casette abbandonate che sono nei dintorni. Ma gli studenti non vanno via. Così le vedo morire una alla volta, con le braccia scheletriche appoggiate ai vetri.

Quando l’ultima donna è morta, comincio a scendere a valle straziata dall’esperienza. A un certo punto sento della gente che canta. Sono esterrefatta: dopo una cosa del genere, cantano? È evidente che non sanno.

Mi faccio da parte per lasciarli passare: sono uomini e donne del villaggio, non si sono accorti di nulla.

Mentre le persone mi sfilano davanti, ecco che all’improvviso riconosco una delle donne dell’albero. Lei ha un guizzo: sa che io so. Non è ritornata all’albero perché ha un arto ingessato. Teme che io la smascheri. Mi limito a dirle: “capisco, per vivere bisogna mutilarsi”.

E qui mi sveglio in un grande pianto.

È una vita che cerco di capire davvero quel sogno. Anche se allora non capii praticamente niente, pure riuscii sull’onda del sogno, entro poche settimane, a lasciare la vita da studentessa e a trovarmi un lavoro. Mi avvicinai al PCI, che mi interessava perché - a differenza del movimento studentesco - vi operavano anche esseri umani non ascrivibili alla miracolante categoria dei “giovani”. Non fu un percorso facile, e le difficoltà si tradussero in una malattia piuttosto seria che troncò quella scelta di attivismo. Dopo di che trovai una mia strada. Certo, mi ero “mutilata”, anche se allora non lo sapevo.

Racconto quel sogno perché sono consapevole che molte persone ancor oggi ritengono che, dietro l’interesse di molte donne per il divino femminile, vi sia un atteggiamento artificiale e intellettualistico. Come se si fosse spinte dall’esigenza di una sorta di parità teologica: “tu hai il tuo dio, bene, io voglio la mia dea”.

In Guglielma e Maifreda (La Tartaruga, 1985) Luisa Muraro narra la vicenda di Guglielma, una donna del XIII secolo che asseriva di essere l’incarnazione della divinità e che faceva al femminile quello che aveva fatto lo stesso Gesù Cristo. Le sue seguaci e i suoi seguaci furono perseguitati; i più importanti uccisi sul rogo.

Il disagio per l’insufficienza di un simbolismo divino sessuato al maschile è ormai avvertito anche nella sfera cattolica. Per esempio il gesuita José Ramos Regidor così si esprime sulla divinità di Cristo:

“Nella comunità di S.Paolo fuori le mura, qui a Roma, stiamo discutendo intorno al fatto che, se tu continui a dire che Gesù Cristo è Dio, anche nella sua corporeità, allora la donna sarà sempre inferiore all’uomo, perché la realtà sessuale del maschio viene divinizzata” (da un’intervista pubblicata su Una città n.60 di giugno-luglio 1997).

Nelle religioni che si basano su una incarnazione maschile della divinità, oppure su una tradizione profetica esclusivamente maschile, la situazione delle donne si è fatta estremamente difficile. In un ambito meno dogmatico e in un più fluido rapporto tra clero e laicato, il mutato ruolo sociale delle donne può invece influire senza soverchi traumi anche sulla struttura religiosa, in tutti i sensi. Questo avviene oggi, mi pare, nel Buddhismo, almeno nella forma che esso sta assumendo rapportandosi all’Occidente.

Per tornare al sogno sopra riportato, la sua caratteristica principale è di essere molto sessuato: donne nell’albero, uomini che le sposano, uomini che vanno a pescare, uomini che studiano la natura in modo classificatorio, donne che si vergognano del loro rapporto necessario con la natura.

Per me è notevole che un sogno così sessuato mi si sia presentato proprio in un periodo in cui la mia ideologia (e il mio femminismo) erano ancora ispirati ad una concezione “neutra”.

Riporto, sintetizzandolo molto, un altro sogno di qualche anno dopo:

Un uomo sghignazzante fa certe operazioni intellettuali per cui una dopo l’altra, fino all’ultima, spariscono bellissime chiese di varie religioni. Poiché sono disperata, l’uomo mi consegna alcuni fogli fitti di scrittura e mi dice di fare quel che ha fatto lui, ma all’incontrario. Piangendo mi reco presso una divinità femminile che si trova dentro una buca quadrata. La divinità mi ascolta e partorisce una pagina dove, concentrata in poche parole c’è la formula che farà risorgere le chiese... dopo una serie di varie traversie, pronuncio le parole della formula e un grande tempio d’oro, quadrato, sorge dalla terra...

Se i sessi sono due, l’immaginario religioso è doppio. Lo si sapeva anche nel passato, e infatti il rapporto con Cristo veniva proposto alle donne come rapporto amoroso, e addirittura come un matrimonio che sostituiva quello con un uomo in carne ed ossa. Alcune donne si serbavano caste per lo sposo divino. Questa operazione psicologica ha perso credibilità fra le giovani generazione di donne: un boy friend, francamente, non ha il valore simbolico di uno sposo ideale...

Nel piccolo spazio di un articolo, mi preme ribadire che la dea non è una costruzione intellettualistica. Del resto al bisogno di una simile a sé da venerare e da pregare, nel cattolicesimo si è provveduto tramite la Madonna e le sante.

Personalmente ho sempre avuto scarsa attrazione per il cristianesimo. A essere più precisa: non ho mai avvertito, in nessun momento della mia vita, attrazione per Gesù Cristo. Quando ero molto piccola, mi sforzavo di aderire, visto che questo era ciò che il mio ambiente mi chiedeva; poi c’è stato un naturale distacco. Sia chiaro che non avevo proprio nulla contro Gesù Cristo. Solo, mi era distante. Come gli altri maschi. Quando mi parlavano di lui, porgevo un’attenzione “non del cuore”. Mi pareva che niente, della sua vita, rispecchiasse la mia. E la corda, che veniva toccata secondo me anche troppo di frequente, di Gesù come sposo divino, mi suscitava una sorta di ripulsa: vi avvertivo come una mancanza di serietà, e molto sentimentalismo.

Conobbi poi le teologie che parlano di un Dio oltre le rappresentazioni antropomorfiche. Qui, sì, provavo anche emozioni e risonanze. Soprattutto una tensione: “questo mi riguarda”; ma poi tutto si sfaceva nel nulla.

E qui si sviluppò la mia passione per la mitologia greca. O meglio: per la componente femminile della mitologia greca. Le mie poesie che hanno per argomento e soggetto eroine o dee greche (che hanno sempre radici in culture pre-elleniche e pre-patriarcali), vengono a volte travisate, come se fossero il frutto di un esercizio letterario gratuito. In realtà ho preso molto sul serio le figure femminili di quella mitologia, che per me sono oggetto di una passione profonda, non di un semplice interesse erudito.



Di tante donne mitiche, ne prendo qui una per esemplificare: Medea. Chi è Medea? Nipote del Sole, è addetta fin da bambina al culto, che abbandona quando si innamora di Giasone. Per unirsi a Giasone tradisce i valori della famiglia natale. Fugge con lui e cerca di fondare un regno, cioè una nuova famiglia, lontano. Rimane incinta più volte, e ogni volta prende il neonato e lo deposita sull’altare perché la divinità lo renda immortale. Il bambino, immancabilmente, muore.

L’amore di Giasone per Medea finisce, e lei si vendica uccidendo la nuova donna, che lui ha scelto, e diventa pazza. Guarisce, torna a casa e si dedica al culto di Ecate.

Qui non c’è patriarcato che tenga, questa è la storia di una donna libera. È una donna libera che soggiace al fascino dell’erotismo; è una donna libera che partorisce ed è sgomenta di partorire degli esserini così fragili; in un gesto di orgoglio li affida alla divinità: “o ne fai qualcosa di meglio, o falli pure morire”. È una donna libera che si infuria con la diminuzione della sua sessualità, che crede di rimettere le cose a posto eliminando la donna più giovane, che impazzisce perché non sa più che altro inventare.

Medea ha un alto senso di sé, e, se tradisce, tradisce (come Arianna) per sé, non per sottomissione all’uomo.

Le ragazze, nel patriarcato, il rischio di una simile indipendenza facevano fatica a correrlo, tanto erano segregate: e, nel caso, diventavano non delle eroine ma delle puttane (magari delle puttane collaborazioniste, cui si rasava la testa per oltraggio).

L’episodio del ciclo di Medea che io trovo più sconvolgente è quello relativo ai figli: proprio perché in questo campo niente o quasi niente ci viene insegnato e siamo lasciate alla mercé delle nostre fantasie, del nostro istinto stravolto, di un ipotetico amore materno che persisterebbe per tutta la vita.

Medea siamo noi. Medea sono io. Non è difficile decifrare il suo gesto di abbandono dei figli alla divinità: in altri modi lo fa la madre che uccide il neonato e lo fa la madre perfezionista. Partorire esseri fragili, questo è il nucleo del dramma. Non i dolori del parto, non l’allattamento e tutto il resto con cui si cerca di coprire l’evento numinoso: le donne partoriscono figli che si ammalano, che piangono, che forse era meglio non nascessero affatto.

Il gesto di Medea è il gesto di tutte: i figli vengono da tutte affidati alla divinità con il medesimo aut aut. Il figlio immaginario muore; rimane il bambino reale.

Medea invecchia e diventa sacerdotessa di Ecate. Ecate, come abbiamo visto nel numero precedente di Miopia (*), è, nella trinità Persefone-Demetra-Ecate, la dea che rappresenta la donna in menopausa: dopo aver combattuto invano con l’idea di invecchiare, Medea ne trae motivo di forza, diventa sapiente.

Elena Fogarolo

(*) Chi è Ecate, Miopia n.30, Settembre 1997.

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