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Eleonora Gianesin

La mia piccola preta

Da Miopia n.21, Settembre 1994

In maggio sono andata a Ferrara a sentire Anna Rosa Buttarelli e Ivana Ceresa che parlavano della trascendenza e del sacro in rapporto al pensiero della differenza.

Un pomeriggio, mentre riguardavo gli appunti, mi sono soffermata su un discorso particolare di Ivana e cioè sulla questione dell’accesso al sacerdozio cattolico da parte delle donne.

Lei sosteneva, in modo per me nuovo, che il reale problema non sta nel sì o no alle donne-prete, ma nell’attuale deformato e contestabile ruolo del prete in quanto tale. Egli è ora accentratore e amministratore di potere e non rappresenta quasi più la comunità di cui dovrebbe essere portavoce, anima propositiva e coagulante di un cammino collettivo di fede; è diventato guida indiscussa di un tessuto in cui non è più intrecciato.

Così io - proseguiva Ivana - in questo momento non farò una battaglia per dare il sacerdozio alle donne, ma per cambiare il ruolo del prete.


Illustrazione da Miopia n.21-una vignetta
Illustrazione da Miopia n.21

Solo dopo una obiezione, ha preso in considerazione l’eventualità di un suo coinvolgimento più diretto su questa tematica specifica se una donna significativa per lei avesse sentito la profonda esigenza di farsi prete.

Tale analisi mi aveva coinvolta come cristiana-cattolica e la reputai una angolatura così interessante che appena risalita in macchina per il ritorno, mi misi ad esporla facendola mia con entusiasmo, nonostante fino ad allora non avessi mai approfondito questo problema.

Le differenti posizioni delle mie compagne di viaggio (due non cristiane-cattoliche) mi mostravano come la tematica sia ampia e complessa.

Non si può - diceva Alice - impedire ad una donna in quanto tale di avere la voglia e il diritto di essere prete: in nome di cosa? Anche se ce ne fosse una sola al mondo che lo desidera ha diritto di trovare aperta questa possibilità. Inoltre solo il fatto che le donne possano accedervi porterebbe senz’altro grossi cambiamenti in questo ruolo così ormai mal definito. Pretendere di cambiare il ruolo in se stesso (e come?) rischierebbe solo di non canalizzare le energie in una meta più circoscritta, ma proprio per questo più raggiungibile.

Io accoglievo questa altra visione, ma non mi prendeva come la prima. La sentivo di spessore, ma come un giudizio esterno alla Chiesa.

Ero tutta raccolta in questi pensieri quando Irene (la mia piccola di quattro anni) piombò in studio.

Avevo voglia di comunicare e di avvicinarmi a lei, piccola donna, e di rilassarmi e così decidemmo insieme di fare il bagno.

Non sapevo come passarle almeno in parte il borbottio dei miei pensieri. Mi venne sulle labbra «Irene, sei contenta di essere donna?»

«Non tanto», risposta immediata.

Oddio! Subito mi si sono arruffati in testa diecimila sensi di colpa: quando non le ho trasmesso la mia sofferta ma gioiosa coabitazione con il mio essere donna? Quando non le ho mostrato abbastanza le nostre potenzialità e originalità?

Stavo per farmi sommergere da questa pessimistica autoanalisi, quando mi viene un’intuizione: perché non chiedo direttamente a lei il motivo?

«Perché Irene non ti piace essere donna?»

«Perché voglio diventare preta.»

Penso sia intuibile la mia meraviglia.

Lei, batuffola di un metro, si era inserita, inconsapevolmente ma prepotentemente, con la sua concretezza, nel mio filosofare e mi costringeva a non restare più nel teorico, nel generale. Mi chiedeva una opinione tangibile.

La mia conversione non poteva essere che immediata.

«Sai, Irene, la mamma farà in modo che quando sarai grande potrai diventare preta. Allora adesso sei contenta di essere donna?»

«Certo mamma!»

Eleonora Gianesin

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