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Maria Jazurlo

Nelle pieghe della Storia

Da Miopia nn.17,18,19,20, giugno 1993-aprile 1994


[Nelle pieghe della Storia è una memoria autobiografica di Maria Jazurlo pubblicata sulla rivista Miopia in quattro puntate tra il 1993 e il 1994.
Maria ha raccontato la miseria del suo Abruzzo natio, la vita durissima di sua madre, l’emigrazione in Francia, la condizione dei minatori all’estero, le vicende che l’hanno riportata in Italia, la propria ansia di libertà e il conflitto con il marito, l’impegno sindacale e politico in una grande fabbrica milanese.
Il tutto in uno stile asciutto e avvincente, con una singolare capacità di piegare alla scrittura le forme della lingua parlata.
Maria Jazurlo è mancata nell’estate del 2012.]

***

Mio padre era abruzzese e i suoi genitori sono morti prima che io nascessi. Di mia nonna quando ero bambina avevo un grande ritratto con suo marito e i suoi tre figli maschi, zio Antonio, zio Marcello e mio padre che si chiamava Giuseppe.

Mio padre si è voluto sposare, contro il volere dei suoi, una trovatella che aveva sedici anni. Era ancora una bambina, ma allora si sposavano molto presto. Non ricordo l’anno di nascita di mio padre, però con un po’ di conti mio padre sarà nato nel 1890 o giù di lì.

Maria Jazurlo in una foto d'archivio del Comune di Cinisello Balsamo
Maria Jazurlo
(Foto di archivio del Comune di
Cinisello Balsamo)
(Link da: www.comune.cinisello-balsamo.mi.it)

Per questo matrimonio che non piaceva ai miei nonni, mio padre partì per l’America a fare fortuna, e la moglie-bambina è rimasta sola in un paese non suo, senza parenti perché da parte sua non ne aveva e i miei nonni non la volevano. Così dopo un po’ di tempo è fuggita con un uomo, e mio padre, dopo un dieci anni che era in America, se ne tornò al suo paese. Si era portato anche un po’ di soldi e si fece una casa con camera e cucina. Con i suoi genitori e con i tre fratelli era vissuto in un solo locale, ci mangiavano e ci dormivano, e così per lui farsi la cucina e la camera da letto era un conquista. In più aveva comprato sei pezzi di terreno buono, c’era tanta frutta, ulivi, vigne. Poteva essere un partito ambito, ma era già stato sposato e nel 1930 erano guai seri. Mio padre era analfabeta, però penso che fosse intelligentissimo, perché la sua terra e la sua capacità di far bene le cose erano grandi.

Mia madre invece è nata a in provincia di Campobasso, nel Molise. Il suo paese distava cinquanta chilometri da quello di mio padre: ora è niente ma quando ero piccola ci si andava a piedi, ci si può immaginare che fatica. I miei nonni materni, che ho conosciuti, abitavano in una masseria in campagna e avevano quattro figlie femmine e un maschio che, anche lui, appena sposato è partito per l’America e non è più tornato. Ogni tanto sentivo dire che aveva fatto fortuna e che le sue figlie si erano laureate.

Le mie zie e anche mia madre erano tutte analfabete perché questa masseria era lontana dal paese, e allora d’inverno le strade erano tutto fango. Questo era il motivo ufficiale per cui non erano andate a scuola, ma la verità è che allora i bambini lavoravano.

Mia madre era la seconda delle femmine ed è nata nel 1910. Nel 1925, quando aveva quindici anni, il marito della sorella, la quale aveva già tre figli, ha violentato mia madre. Quando lei lo ha detto, i suoi genitori a lui non hanno detto niente - per non togliere il marito alla figlia e il padre ai nipoti - e, invece di aiutare mia madre, la tenevano sempre emarginata. Pascolava le pecore sempre sola e con il freddo e con il caldo era sempre nei campi.

Così, con una vita così brutta, aveva dei problemi, nel senso che io me la ricordo sempre arrabbiata. Una sua paesana, che si era sposata al paese di mio padre, li ha fatti conoscere, e si sono messi assieme. Negli anni Trenta convivere non era una cosa facile, e mio padre aveva vent’anni più di mia madre.

Non credo che si siano mai amati. Mio padre ogni tanto quando beveva la picchiava, perché secondo lui non aveva molte capacità. Poi è arrivata la guerra, mio padre è stato deportato per due anni dai tedeschi, e per due anni non abbiamo saputo sue notizie. È tornato nell’ottobre 1944 malato di questa deportazione, e nel novembre del 1945 è morto. Io avevo otto anni, mio fratello sei, e mio padre aveva, quando è morto, cinquantacinque anni: proprio gli anni che ho io ora, e mia madre quando è restata sola con due figli aveva trentacinque anni.

Noi figli avevamo solo il cognome di mia madre, così i terreni lasciati non li abbiamo potuti ereditare. Mio padre però aveva fatto un lascito a mia madre, e dopo un anno che lui era morto mia madre è stata avvicinata da una famiglia poco di buono. Gente che poi è stata anche in galera perché rapinava, ma allora la prima truffa l’hanno fatta a danno nostro. Tutti i terreni li hanno comprati, ma dei soldi non hanno dato neanche una lira. Mia madre, analfabeta e anche un po’ esaurita per tutto quello che aveva passato, si è lasciata raggirare e poi diceva che quella famiglia le aveva fatto la fattura. Invece quelli erano furbi e ladri e lei po’ oca. Così si è ritrovata senza niente. Andava a lavorare in campagna a giornata quando la chiamavano, così mio fratello è stato messo come garzonetto presso una famiglia di contadini che lo picchiavano sempre: questo è stato per me un grande dolore, solo che ero piccola e non potevo parlare. Io da parte mia aiutavo la moglie di un mio insegnante. Questi avevano quattro figli, io lavavo i vetri andavo a prendere l’acqua alla fontana, allora non c’era ancora l’acqua nelle case. Per questi servizi mi davano un piatto di pasta da mangiare.

Quando io avevo dodici anni, nel 1949, mia madre ne aveva trentanove e aveva una relazione con un nostro vicino che era sposato con quattro figli e la moglie era sempre ammalata. Così questo tizio ha iniziato a venire sempre a casa nostra. Era più povero di noi, per il fatto che la moglie era ammalata. Lui e i figli lavoravano, ma non avevano neanche la casa e pagavano l’affitto, e mi ricordo che erano proprio poveracci.

Io nel ’49 ho ripreso ad andare a scuola. Avevo fatto la terza elementare ma poi mia madre non aveva i soldi per i quaderni e ho smesso. Nell’estate del ‘49 sono andata a spigolare e avevo raccolto spighe per due quintali trebbiati, mia madre mi disse che ero stata brava e mi ha mandato ancora a scuola. Avevo dodici anni, ma per via della guerra mi ricordo che in classe con me c’erano anche ragazze di sedici anni: avevano un po’ di vergogna ma ci venivano.

Dalla relazione di mia madre - che in un paese di tremila abitanti tutti sapevano - mia madre rimase incinta, e allora sui banchi di scuola ogni tanto mi trovavo dei biglietti (Maria sei figlia di una puttana).

I miei drammi interiori sono iniziati da qui perché spesso le compagne non volevano venire a casa mia. Ma il torto più grosso l’ho subito perché ero iscritta all’azione cattolica, e al paese l’unico svago era trovarsi la domenica pomeriggio. Prima, nell’asilo, si faceva un po’ di catechismo e poi si andava a passeggio per le vie del paese tutte assieme anche alle ragazze più grandi. Si andava a giocare a pallone e mi sentivo contenta. Per questo fatto di mia madre sono stata chiamata davanti a tutti e la presidente mi ha detto che forse era meglio che non andassi più alle riunioni. Queste offese a dodici anni sono gravi, sono diventata un po’ aggressiva con mia madre, e lei invece aveva troppo bisogno di me, e mi perdonava anche la mia aggressività.

Nell’aprile 1950 è nato mio fratello, per lui una grande tenerezza. In casa lo curavo bene, ma avevo vergogna a portarlo fuori, gli adulti ogni volta dovevano dire qualcosa contro mia madre e io mi convincevo che avevo per madre la peggiore di tutte. Però siccome avevo solo lei ogni tanto c’erano anche momenti buoni, così quella quarta elementare dopo la nascita di mio fratello l’ho finita a stento, perché mia madre aveva già quarant’anni doveva per forza andare a lavorare e io badavo al bambino e glielo portavo anche ad allattare almeno una volta al giorno, facevo chilometri a piedi con il bambino in braccio nelle campagne. Quel primo anno lei vendemmiava a settembre e il bambino aveva sei mesi. Dopo due anni, quando io ne avevo quindici, si era nel ’52, siccome parlavo quando ero da sola con un ragazzo di venti anni, ma non perché mi piaceva, perché questo ragazzo aveva la TBC e non lavorava, ma allora non si poteva parlare con gli uomini, così le vecchiette mi sgridavano e poi lo raccontavano a mia madre, così lei veniva fuori a picchiarmi. Io non accettavo le sue botte e mi ribellavo, però la moglie di un insegnante un giorno chiamò mia madre, e le disse “se non vuoi che Maria finisca male perché cresce e non ha un buona guida” di mandarmi in un collegio di suore dove c’era una sua cugina Superiora, a Loreto. Mia madre forse si è spaventata, e ha accettato.

Mio fratello, di due anni più piccolo di me era già da un po’ di anni a fare il garzone di campagna in una masseria in un altro paese e lo vedevo poco, poi ho saputo che lo picchiavano sempre e non c’era nessuno che lo difendeva. Quando mio fratello aveva sedici anni, per vendicarsi delle botte del lavoro che svolgeva senza essere pagato ha rubato in questa famiglia 150.000 lire. Non so nel 1955 che valore potesse avere questa somma: il fatto è stato che mio fratello si è dovuto fare cinque anni di correzionale, una specie di carcere minorile. Lui ha molto sofferto per questo, e quando è uscito è venuto in Francia, dove ero io, e si è messo a lavorare in miniera (poi è diventato capo-squadra e si è sposato con una francese).

Io invece sono andata in quel collegio, dove ho fatto varie scoperte. Più di metà delle ragazze venivano da altre regioni, le più erano marchigiane, una era di Roma, delle Puglie o abruzzesi nessuna; quella di Roma era stata violentata dal padre. Erano tutte ragazze abbandonate o orfane. Con la mia quarta elementare, in quel posto sembrava che avessi fatto l’università, tanto le suore mi utilizzavano in varie cose, come insegnare il catechismo a quelle analfabete, e poi la domenica scrivevo le lettere ai famigliari di alcune. C’era la mia amica del cuore, ma niente di morboso, solo sorellanza, si chiamava Donata, non era mai andata a scuola, ma era pulitissima, così io le scrivevo le lettere per le sue cinque sorelle (tutte sposate). Sua madre se n’era andata con un altro uomo e per lei era una pena questa storia. I primi tempi mi raccontava che la madre era morta, poi però quando mi ha conosciuta e dato fiducia, mi ha raccontato la sua storia. Con Donata c’era un sodalizio di questo tipo: io scrivevo e lei faceva anche le pulizie settimanali che toccavano a me.

In questo collegio c’erano suore di una congregazione francese, ma da noi erano tutte italiane. La nostra maestra era di Recanati, e suo padre era stato fattore in casa Leopardi. Questa suora si faceva chiamare madre degli angeli, ci seguiva in tutto ed era la responsabile. Poi c’erano altre suore che le davano il cambio, ma lei sicuramente era la più adatta. Aveva la stessa età di mia madre, ma era più raffinata, nel senso che non aveva fatto la contadina e aveva fatto solo la quinta elementare regolarmente, ma poi aveva fatto dei corsi speciali per essere abilitata a stare con noi. Era brava a ricamare e anche a disegnare il ricamo. Noi ragazze, in questo salone, eravamo una cinquantina, tra i dodici e i vent’anni, tutte assieme. Quelle più grandi si prendevano una più piccola che aiutava per esempio a pettinarsi o a controllare se le trecce erano pulite. Io quando sono entrata avevo quindici anni e così non ho fatto la "piccola", ma avevo una piccola, Nicoletta, e quando c’è stata in Belgio la tragedia di Marcinelle sono morti tanti italiani tra cui il papà di Nicoletta: una vera tragedia, io non sapevo consolarla, era il dolore dei poveri.

Quelle più sveglie, si ricamava delle tovaglie che venivano da una ditta di Firenze, erano in organzina. La stoffa, a volte era rosa e grigio, e il ricamo si faceva a punto raso. Una volta abbiamo fatto una tovaglia con tante carrozze e cavalli, gli uomini con vestiti dell’800 e le dame con vestiti con lo strascico: chiaramente era rappresentata la borghesia. Questa tovaglia ha vinto il primo premio, l’avevamo fatta io e un’altra, Concetta; le gradazioni dei colori e il disegno li aveva fatti però la suora. Su queste tovaglie stavamo otto ore al giorno. Alle sette di sera si cenava. Allora non c’era la televisione e alle nove si andava a letto.

Mentre noi si lavorava la suora ci leggeva Il padrone delle ferriere, la Bibbia, o la storia del figlio di Napoleone. Ogni tanto si facevano dei pezzi di teatro; io il primo anno ho fatto una particina e le ragazze più grandi di me facevano le parti importanti. Dopo un anno ho iniziato ad avere le parti da protagonista. Mi ricordo che ho fatto la Nemica. Non ricordo di chi era il pezzo, però impersonavo la figlia buona e la Nemica era la matrigna. Poi ho recitato Maria Stuard e Maria Antonietta di Francia. A scuola non avevo studiato la rivoluzione francese e così con queste commedie ho conosciuto questa Maria Antonietta e la sua brutta fine. Però penso che i nobili se la sono cercata, perché il popolo moriva di fame e loro vivevano negli stralussi. Anche ora è così, i poveri ci sono ancora, vedi Somalia.

In collegio la vita passava tra ricamo e teatro. Qualche volta ci portavano al cinema, ci hanno portato a vedere un film su Sissi. Questo film a noi povere ragazze ci ha fatto molto sognare, forse era meglio che ci facevano vedere qualche film su come i poveri devono esigere i propri diritti.

Comunque dal 1952 al 1956 sono rimasta lì e tutto sommato non era tanto male, facevo tre pasti al giorno, e questo con mia madre non era più possibile, e poi quel ricamo mi aveva dato l’illusione che oltre a fare la contadina si potesse fare qualcosa di meno faticoso, però le care suore, per far sì che il lavoro venisse svolto veloce, non ci avevano insegnato a disegnare, e poi mi sono accorta che ero una ricamatrice finita. In quanto al teatro, dopo due anni facevo le parti di protagonista, e questo fatto mi riempiva di orgoglio.

***

Un giorno - era il 1956 ed avevo 19 anni - la suora mi chiamò e mi disse che ci sarebbe stata un’occasione per me. A Loreto su in collina c’era l’Istituto Francesco Baracca, che era tenuto molto bene e con un certo lusso, rispetto a dove sono stata io, e dove c’erano i figli degli aviatori orfani. Le femmine ci stavano dalla prima elementare fino al diploma magistrale, o alla scuola professionale. Era tutto interno all’istituto; poi alla fine dell’anno davano l’esame di Stato. I maschietti invece rimanevano dalla prima fino alla terza elementare. Dopo venivano mandati a Firenze dove non c’erano più le donne, ma solo educatori.

A me questo Istituto aveva fatto conoscere il lusso, per esempio i ragazzi e le ragazze a tavola venivano serviti con i guanti bianchi, c’erano campi da tennis, un grande parco, palestra, cinema interno e poi si mangiava proprio bene. Io la prima banana l’ho mangiata lì dentro, al mio paese neanche le conoscevo.

In questo istituto sono andata a fare l’inserviente. Il mio lavoro consisteva in questo: c’era un’insegnante che si chiamava Anna, era napoletana e portava i tacchi a spillo, mi ricordo che aveva un aggeggio con cui si rigirava le sopracciglia. Io aiutavo questa Anna perché aveva i maschietti dalla prima alla terza, stavano tutti assieme sia in classe che nella camerata. Questi bambini si dovevano fare i letti da soli, ma te li immagini dei bambini di sei sette e otto anni che facevano le cose fatte bene? Così io li controllavo e poi dove non facevano loro facevo io i letti, li portavo a lavarsi e a vestirsi. Poi scendevano a colazione e dopo tutti in fila entravano in classe. Quando loro erano in classe andavamo, io e le altre ragazze come me, a fare la colazione e poi si tornava in camerata, si puliva i lavandini e i gabinetti e una scalinata di marmo bianco che era la mia disperazione. Si finiva alle 12 e 30 e a quell’ora si doveva servire i bambini a tavola, quindi ci si doveva cambiare perché il servizio a tavola andava fatto con guanti bianchi e grembiule nero. Noi si pranzava alle 14. Dopo si faceva un’ora di ricreazione, e poi noi di solito si andava a pulire i polli. C’erano sempre delle cose da fare in cucina e i bambini studiavano. Alle 19 e 30 la cena. Noi di sera non si usciva, anche perché si era un po’ staccate dal paese. Avevamo una camerata e lì ci mettevamo a chiacchierare. Comunque con le ragazze studentesse non c’era nessun rapporto, queste con noi non parlavano mai, a me per fortuna erano toccati i bambini e così loro non avevano la puzza sotto il naso. Le ragazze invece, specialmente quelle dell’ultimo anno, si sentivano superiori e con noi non si degnavano. Qui ci sono rimasta poco.

Guadagnavo 12.000 lire al mese e mi venivano versati i contributi. Poi, nel maggio ’57 mia madre mi scrisse se volevo andare con lei in Francia. Avevo vent’anni e la Francia per me era un po’ un miraggio, poveretta me. Mi sono licenziata e sono tornata al mio paese per farmi il passaporto. In quegli anni in collegio ogni volta che finivo una tovaglia mi regalavano diecimila lire, che le suore mi mettevano via. Ma erano tovaglie con ventiquattro tovaglioli e in due ci si metteva più di un mese a farle. Ogni volta che mi dovevo comprare un paio di scarpe dovevo prelevare da quei soldi. Fra i risparmi del collegio e i soldi guadagnati a Loreto, mi restavano 130.000 lire. Con quei soldi dovevo pagare il biglietto per me, per mia madre e per il mio fratellino di sette anni. Comunque in giugno siamo partiti per la Francia, senza informarci quanto costava il biglietto da V. a Milano. Siamo partiti tutti insieme, siamo arrivati la mattina alle otto e siamo subito andati a fare il biglietto per la Francia, ma subito è scoppiato il dramma, ci mancavano poche lire per tutti e tre i biglietti così io prima mi sono messa a piangere, ma subito ho delle risorse come i gatti, mi sono ricordata che la mia amica Donata (quella a cui scrivevo le lettere) aveva una sorella a Milano, e a furia di scriverle le lettere sapevo l’indirizzo a memoria, il treno partiva la sera per la Francia e così ho cercato questa famiglia. Abitavano a Porta Ticinese, ma l’uomo stava in una baracca con altri muratori, come ora gli extracomunitari, e la moglie presso una famiglia dove faceva la domestica. Non mi hanno dato nessun aiuto economico, forse non si fidavano, però mi hanno suggerito di andare alla Protezione della giovane per trovare rifugio, così sono tornata alla stazione, ho fatto partire mia madre e mio fratellino e io sono rimasta sola a Milano.

Non ho ancora detto che mia madre aveva una sorella che stava da tanti anni nel Nord della Francia, perché suo marito lavorava in miniera. Nell’anno precedente si erano riviste perché mia zia è venuta in Italia, e ha chiesto a mia madre se si voleva sposare con un calabrese vedovo con otto figli che viveva in Francia, e mia madre a quarantasette anni aveva voglia di essere moglie, lei che non era stata mai sposata, e perciò è partita. Io di questo non sapevo nulla, pensavo che mia zia ci proponesse del lavoro.

Comunque mia madre e il mio fratellino sono partiti e io sono andata a cercarmi la Protezione della giovane, però a mia madre ho dato l’indirizzo di questa sorella di Donata, se per caso mia zia mi potesse mandare i soldi per raggiungerli.

Alla Protezione della giovane, per non accumulare debiti, mi sono subito offerta di pulire. Era un po’ come un pensionato per ragazze, le suore hanno capito il mio guaio e mi facevano fare le pulizie e mi davano un piatto di minestra e il dormire. Dopo dieci giorni che mia madre era partita, dato che non si poteva comunicare, stavo perdendo le speranze che i soldi arrivassero. Dei conoscenti non avevo troppa fiducia, dato che vivevano in modo molto precario, e se vogliamo mi sono dovuta fidare per la disperazione, ma non li conoscevo. Così volevo trovarmi un lavoro come domestica, che era l’unico che mi garantiva vitto e alloggio.

Mia zia, quando mia madre è arrivata da lei e le ha raccontato cosa era successo e che io ero rimasta a Milano, si è molto arrabbiata, anche perché i soldi non li aveva, e così ha fatto una bella pensata. Aveva due giovani a pensione in casa sua, solo a mangiare, perché in quel posto di minatori davano baracche di legno, e i giovani che non sapevano cucinare andavano nelle famiglie a mangiare. Mia zia allora a uno di questi ha detto che aveva una nipote giovane e carina, però povera, che era rimasta a Milano: “se mi dai i soldi per il viaggio ti prometto che sarai tu il suo fidanzato”. Questo giovane era di Cagliari, non so perché ha accettato questo baratto, e ha dato i soldi per il viaggio e in più ha comprato una bicicletta da donna per regalarmela al mio arrivo.

Così a Milano sono arrivati i soldi, e sono partita per la mia avventura. Avevo spedito un telegramma e quando sono arrivata alla stazione ho trovato mia zia e il mio fratellino, perché mia zia mi aveva visto quando avevo dodici anni e quindi non aveva idea di come io fossi. Quando ci siamo salutate da parte mia molta euforia, da parte di mia zia molto grugno perché mia madre con il calabrese con otto figli non aveva concluso niente perché questo, quando ha saputo che mia madre non era vedova, ma diciamo ragazza madre, non ha voluto combinare il matrimonio. Così mia zia era preoccupata di quante persone si doveva accollare, e mentre si faceva il percorso dalla città a questo villaggio di minatori chiamato Solitude, mi ha raccontato la storia dei soldi e chi glieli aveva dati. Io sono rimasta secca, ed ero troppo arrabbiata per piangere, e mi sono detta dentro di me che la mia famiglia era inaffidabile. Anche questa zia, che era stata regolarmente sposata, aveva una figlia sola che a quel tempo aveva solo quindici anni ed era già fidanzata. Comunque non ero in condizioni di parlare, ho chiesto solo se si poteva trovare qualche lavoro, ma figurarsi, così nel pomeriggio ho conosciuto questo tale, fisicamente non era brutto, ma la domenica mi ha chiesto se gli scrivevo due lettere, una alla mamma e una alla sorella, perché lui non sapeva leggere e scrivere. Io in quattro anni di servizio avevo scritto tante lettere alla famiglia di Donata, che mi sentivo un’esperta, così gli ho detto a questo Giovanni di dirmi cosa voleva dirgli ai suoi parenti, che pensavo io a mettere giù lo scritto. Quando gli ho letto la lettera, Giovanni si è infuriato, e ha fatto tutte e due le mie lettere a pezzetti, e li ha scagliati a terra. Ricordo questo gesto, non ricordo le cose scritte. Il suo gesto mi è sembrato talmente sproporzionato che sono rimasta turbata, e ho detto a mia zia che questo tipo non lo volevo come fidanzato e mia zia si è infuriata con me, perché il matrimonio di mia madre non era andato in porto, ora mi ci mettevo pure io, e lei non voleva tenerci sul groppo, e lì non c’era lavoro, e non avevamo neanche i soldi per tornare in Italia. Allora io questo tizio non lo guardavo mai, lo ignoravo come non mi fosse davanti, ma lui per via di quei soldi si sentiva il mio padrone.

Un giorno mia zia ha voluto fare la festa di fidanzamento di sua figlia e ha invitato dei suoi paesani. Erano tutte coppie, mentre il suo futuro genero ha portato due suoi amici e paesani. Questi ragazzi avevano ventitré anni. Poveretti, erano vestiti con il vestito nero, erano gli unici abiti un po’ decenti, e già erano un po’ tristi, non parlavano mai. Erano vestiti così ed erano anche scuri di pelle. Questo ha attirato la mia attenzione e curiosità, uno dei due poi è diventato mio marito.

Allora quel giorno, un po’ per far dispetto a Giovanni, ballavo: ma non so se ballavo, ho saltato, non avevo mai ballato. Fatto sta che facevo la spiritosa e guardavo spesso Andrea, così lui si è subito acceso, e dopo due giorni me lo ritrovavo sempre dov’ero io. Così ho capito che gli piacevo, e ho fatto in modo che mi avvicinasse. Mi sembrava più bello così, non come aveva fatto mia zia per me.

Un giorno mi ha fermato e mi ha detto che gli piacevo, che però era un carattere orgoglioso e non voleva essere rifiutato, di dirgli subito se mi piaceva pure lui. Io in quel momento ero in una condizione di confusione, dato che tutto quello che avevo attorno però gli ho detto di sì che mi piaceva, pensando che poteva essere lui il mio salvatore (benedetta ignoranza) e così gli ho detto subito la storia di Giovanni e dei soldi, che lui aveva pagato il viaggio per me, ma avere scoperto che era analfabeta mi aveva messo disagio, perché pensavo che se uno è troppo ignorante poi è anche cattivo, ma questa era una mia teoria, era stato quel gesto che mi aveva impressionato. Andrea, quando gli ho raccontato tutto questo, è rimasto molto turbato, si è fatto rosso rosso, e non ha parlato per tutta la sera. Ma poi ha deciso di affrontare Giovanni. Gli ha ridato lui i soldi, però dicendogli di mettersi da parte. Giovanni è andato su tutte le furie e voleva picchiare sia Andrea che me. Io di tutto questo avevo solo una gran paura, però Giovanni si è deciso ed è andato via da casa di mia zia, ma lei ha preteso che Andrea prendesse il suo posto come pensionato. Lui è venuto a mangiare a casa di mia zia, ma era dispiaciuto perché viveva nella baracca insieme al suo amico e si facevano da mangiare insieme, avevano ventitré anni, e un buon appetito, mia zia per guadagnare gli dava sempre un po’ di insalata e un po’ di salciccia e Andrea sempre più affamato brontolava con me, io non contavo niente, per guadagnarci da vivere mia madre faceva la lavandaia, lavava i panni sporchi dei minatori, erano così unte quelle tute, e quanto a me, mia zia era andata nelle case degli italiani che avevano le figlie da sposare e chiedeva se volessero qualche lenzuolo ricamato, così mi portava lenzuolo e federa da fare. Io a ricamare ero brava e veloce perché avevo gli occhi perfetti, spaccavo la mezza trama. Quello che non sapevo, era fare il disegno, lo facevo ma ci mettevo molto, e quindi dentro il mio cuore mandavo gli accidenti alle suore, che non mi avevano dato la possibilità di imparare tutto di questo lavoro. Dalla mattina alla sera ricamavo, e smettevo solo quando Andrea tornava dal lavoro, lui faceva sempre il secondo turno e tornava alle undici di sera, veniva a cena da noi, io parlavo un po’ con lui, e poi lui era stanco e andava a dormire. La domenica pomeriggio quando ha iniziato a fare bello andavamo a passeggiare in un grande bosco che sta tra la Francia e il Belgio. Ogni volta gli raccontavo le cose della mia famiglia, lui era a disagio e forse voleva anche fare marcia indietro perché lui veniva da una famiglia - sia da parte della madre sia dalla parte del padre - di rigidi costumi, e poi sua madre era del 1900 e quando è nato lui aveva trentaquattro anni, è stato il primo figlio dopo due parti andati male (aveva i parti lunghi e difficili e gli morivano alla nascita) quindi Andrea era il figlio beneamato.

***

Date le condizioni in cui si viveva a casa di mia zia, abbiamo deciso di sposarci, nell’agosto del 1958.

Abbiamo iniziato il nostro matrimonio con tante difficoltà economiche. A novembre, quando ci hanno dato la casa (la direzione della miniera dava la casa alle giovani coppie qualche mese dopo il matrimonio), avevamo solo il letto. Avevamo la casa ma ci mancavano le cose più essenziali, ogni volta che Andrea prendeva la paga compravo una padella, e abbiamo dovuto comprare a rate due stufe a legna. Andrea dopo otto ore di miniera doveva farsi cinque chilometri a piedi di notte, e così un giorno sono uscita, ho dato 10.000 lire di anticipo e poi ho firmato cambiali tutta da sola e gli comprato una bicicletta; dato che non ci sapevo andare, anch’io ho fatto cinque chilometri a piedi, tutto un pomeriggio, a portarmi questa bicicletta a casa per fargli la sorpresa, e poi sempre a rate ho preso un giubbotto tutto foderato, che non sentisse il freddo, ma lì eravamo al Nord, faceva tanto freddo ed eravamo proprio poveri, ma eravamo giovani e specialmente io avevo un carattere ottimista e pensavo che prima o poi le cose sarebbero andate meglio, ma così non è andata.

Ai primi di dicembre sono rimasta incinta di Sara, e quando sono andata a farmi la visita di controllo, mentre uscivo dalla ginecologia passava per caso il fidanzato di mia cugina e paesano di mio marito. Lui allora viaggiava in Lambretta, la macchina non ce l’aveva nessuno fra noi emigranti. Così Nicolino mi ha dato un passaggio sulla Lambretta e mi ha riaccompagnata a casa, mio marito era al lavoro. La sera, quando è tornato, gli ho dato la buona notizia della mia gravidanza, e poi del passaggio. Lui si è tanto arrabbiato perché sono salita sulla Lambretta, che mi ha appioppato due schiaffoni che mi hanno fatto girare la testa. Per quei due schiaffi ho pianto tanto, e già mi sentivo infelice. La gelosia di mio marito è stata sempre patologica, e io non riuscivo a capirlo e non ho mai sopportato.

Il nostro rapporto di coppia andava avanti molto agitato, forse per la nostra giovane età, ventuno io e ventiquattro mio marito, ma anche perché le difficoltà, soprattutto economiche, erano tante, eppure avevamo la casa e per riscaldarci ogni due mesi ci davano un camion di legna e carbone. Mio marito mi rimproverava sempre che non ero una brava massaia, mentre sua madre era perfetta, così diceva lui. Io di questo mi mortificavo, però riflettevo che quando a casa mia si cucinava e nelle feste si cuoceva carne e dolci ero troppo piccola per aver imparato qualcosa, e quando sono diventata più grande, mia madre aveva appena pane e pasta e non tutti i giorni, spesso mi sono mangiata solo pane con qualche pomodoro, e perciò non sapevo fare da mangiare e il paragone con mia suocera era sempre a mio svantaggio. La madre di Andrea è sempre cresciuta nel loro paese, aveva cinque fratelli e due sorelle, così gli uomini facevano i contadini e le donne si occupavano della casa, e poi, anche quando si è sposata, mia suocera è rimasta vicina alla casa di sua madre, io purtroppo sono stata penalizzata nell’arte di imparare e così lui aveva sempre dei rimproveri da farmi, io a volte chinavo la testa e piangevo, a volte mi ribellavo e lo mandavo a quel paese, e così volavano le sberle.

La mia gravidanza andava avanti, però avevo sempre tutti i nove mesi le nausee e quindi ero anche un po’ nervosa. Una settimana prima che nascesse Sara è arrivato mio fratello maggiore che era uscito dal riformatorio ed era andato a casa di mia madre [tornata nel frattempo in Abruzzo, dove viveva in miseria] e lo spazio vitale per lui proprio non c’era in quella casa, così ha pensato di venire in Francia. Prima, mio marito aveva rotto i ponti con mia zia perché di quelli della mia famiglia non gli piaceva nessuno, aveva forse ragione, ma il suo difetto era che giudicava sempre tutti. Comunque, quando è arrivato mio fratello, mio marito gli ha detto che se voleva stare in casa nostra non doveva più parlare con la zia perché era una gran pettegola. La sfortuna ha voluto che la sera prima che nascesse Sara mio fratello è uscito a fare un giro e ha incontrato mia zia, e questa ha voluto per forza che andasse a casa sua a salutare suo marito. Così si è trattenuto a cena, senza ricordarsi di quello che gli aveva detto mio marito. Quando Andrea è tornato dal lavoro e mio fratello non era in casa, la prima cosa che ha fatto è stata di andare a spiare sotto le finestre di mia zia. Quando ha sentito la voce di mio fratello, è tornato a casa imbufalito, dicendomi che lo avrebbe buttato fuori dalla sua casa, al che io gli ho risposto male, e così senza un minimo di scrupolo per il mio stato ha preso a picchiarmi e io tanto mi sono spaventata per la sua reazione che sono fuggita per il villaggio e piangevo, invocavo il mio bambino, e della sfortuna di metterlo al mondo così. Poi Andrea, dopo questa sfuriata di violenza, cercava di avere ragione e mi diceva che ero io e la mia famiglia a farlo diventare violento, così più tardi mio fratello, quando è tornato e ha visto che per colpa sua era successo tutto questo dramma, se ne voleva andare, ma intanto sono iniziate le doglie e la mia Sara è nata l’indomani. Ma sua madre a soli ventidue anni si sentiva già infelice. Lei, per quello che ho potuto, le ho dato tutto l’amore. Noi non usavamo nessun contraccettivo, tra me e mio marito eravamo proprio ignoranti, così Francesca è nata un anno dopo e Franco un anno dopo ancora.

Con queste tre gravidanze ero molto presa con i piccoli e stavo bene con loro. Certo mio marito lavorava tanto, i problemi economici c’erano, ma in Francia gli assegni erano per tre figli quarantamila vecchi Franchi, la metà del salario di un minatore.

Con quei soldi riuscivo a tenere i bambini bene. L’unica cosa di cui non sono mai stata rimproverata è stata quella di aver fatto la brava madre, almeno una cosa l’ho fatta bene, ma la buona volontà non basta, se ci sono anche i drammi, che ora dirò.

In casa nostra mio fratello è rimasto, si è messo a lavorare anche lui in miniera e a ottobre, quando Sara aveva due mesi, è arrivato anche il fratello di mio marito, lui aveva diciannove anni e non poteva lavorare in miniera perché aveva problemi di vista e in miniera non si poteva portare occhiali. Così si è messo a lavorare con il fidanzato di mia cugina, nella falegnameria, e io per due anni ho accudito tre uomini e nel frattempo è nata anche Francesca: due piccoli e tre uomini, e ogni tanto prendevo sberle. Non mi aiutavano, e quando non arrivavo a fare qualcosa si lamentavano e così mio marito per far vedere, specialmente a suo fratello, che lui era uno che si faceva rispettare, mi dava ceffoni. Poi aspettavo Franco, e mio fratello è andato a vivere con un suo amico in baracca, e due mesi prima che nascesse Franco mio cognato se ne è andato in Germania.

Un giorno, nel novembre del 1961, Andrea non è tornato a casa. Ho aspettato fino all’una di notte, e poi ho chiamato una vicina e lei è stata con i bambini, e io e suo marito in moto siamo andati a vedere perché Andrea non tornava.

Era caduto tanto carbone e aveva chiuso l’uscita, e non potevano tornar su, dieci minatori erano rimasti bloccati, comunque da sopra non è che si capisse bene come erano le loro condizioni, in quei casi si pensa sempre al peggio. Ho fatto un telegramma a mio suocero, che io non conoscevo, e lui è venuto. I minatori sono rimasti tre giorni e tre notti chiusi, non sono morti soffocati perché c’erano dei grandi tubi e passava un po’ di ossigeno. Sono venute le squadre di soccorso dal Belgio e dall’Olanda e sono riuscite a rimuovere le tonnellate di carbone e a fare un passaggio, si sapeva che la lotta era contro il tempo, i minatori per fortuna avevano le borracce con l’acqua.

Quando è successo questo io avevo ventiquattro anni e Andrea ventisette e c’erano questi tre piccoli bimbi, e anche se prendevo le sberle da lui, era sempre colui che lavorava per darci da mangiare a tutti, e perciò speravo solo che l’incubo finisse. Quando sono tornati su, sono dovuti andare in ospedale in osservazione per otto giorni. Poi, quando tutto è finito, mio suocero ha detto che suo figlio non sarebbe più sceso in miniera, alla mia domanda cosa avremmo fatto, mi ha detto di tacere, perché la vita non la rischiavo io ma suo figlio. Siccome mio suocero era anche un uomo burbero, non ho più aperto bocca, e ho lasciato che pigliassero loro le decisioni.

E la decisione è stata di venircene in Italia, dove, per un periodo, ci avrebbe ospitato mio suocero e la sua seconda moglie, matrigna di mio marito.

[Segue il racconto dei mesi passati in Sardegna nella casa del suocero, e dei difficili rapporti con questa famiglia. Ora troviamo Maria subito dopo il trasferimento suo, del marito e dei tre bambini in un podere a duecento chilometri dal paese del suocero]

Mi sono guardata attorno, e la sera scendeva un silenzio tombale, con una montagna che sembrava uno spettro. Ma la mia angoscia era perché in quel luogo per la famiglia non c’erano scuole, eravamo nel 1962 e non avevano costruito una scuola in questo posto. Sara in Agosto avrebbe compiuto tre anni e io volevo che andasse anche alla scuola materna. Nel viaggio di ritorno, ho fatto notare tutte queste cose a mio marito, e solo al pensiero di essere impedita di mandare i miei figli a scuola, inorridivo. E così abbiamo preso la decisione di andare a C.

Mia suocera, quando ha sentito la nostra decisione, è andata su tutte le furie, e un giorno mi ha insultata dicendomi chi mi credevo di essere, sua nipote che era stata a Londra si era adattata, e io invece che possedevo solo il mio culo e niente altro mi permettevo di rifiutare, e poi aveva preso l’abitudine di dirmi una frase offensiva, mala accudita, che significa “brutta forestiera”, come oggi si dice extracomunitaria.

Nel mese di luglio tutte le mattine mi svegliavo e vomitavo, e dopo un po’ mi sono dovuta arrendere all’evidenza, ero di nuovo incinta. Apriti cielo con mia suocera, che allora, proprio perché le davamo apertamente fastidio ha iniziato a darsi ammalata, se ne stava a letto anche un mese e non voleva neanche il dottore. Il mio mangiare spesso lo rifiutava, e mangiava solo la sera quando tornava suo marito dalla campagna e le preparava un po’ di pastina. Mio suocero se ne stava sempre più zitto e forse pensava che aveva fatto un errore a farci venire in Italia: a mettere insieme i vari componenti di una famiglia, se non c’è amore tra di loro, è difficile che stiano bene.

Un giorno, anche se ero incinta, ho detto che se mi si permetteva di andare a lavorare con Andrea al caseificio avrei potuto prendere anche la maternità. Ma di nuovo mia suocera mi si è messa contro, dicendo che delle donne sposate in quel paese nessuna andava a lavorare, se una era sarta lavorava in casa, oppure insegnante, ma operaia mai. Io non ho insistito, anche perché , se fossi andata a lavorare, dei bambini se ne sarebbe occupata lei.

Così un giorno, di quei giorni che sei triste e non hai niente che ti aiuta, e la speranza che sia uno spiraglio non la vedevo, la mia mania di scrivere si è rivelata di qualche utilità. Mi sono messa a scrivere alle ditte milanesi, Motta, Alemagna, Azienda trasporti Alfa, e indirizzavo senza conoscere l’indirizzo, ad esempio “Direzione Generale Alemagna” (e poi ho scritto al presidente della Repubblica allora Antonio Segni, sassarese, e al Vaticano). Alle ditte chiedevo lavoro, perché in paese era precario, e al Vaticano e al Presidente un pacco dono da neonato perché il bambino che mi doveva nascere secondo me aveva il diritto di mettersi delle cose nuove: così la pensavo, a mali estremi estremi rimedi. Il pacco con tanta bella e buona roba dal Vaticano mi è arrivato per posta, e il pacco del presidente mi è stato recapitato personalmente da una sua guardia del corpo sarda. Non ti dico le facce di mia suocera, che ormai con i vicini sprezzantemente mi chiamava l’abruzzese.

Una mattina del marzo 1963 con il mio pancione e tutti e tre i bambini dietro ero dal fruttivendolo a comprare un po’ di verdura, e mentre stavo pagando ho avuto la prima fitta. Ormai ero una veterana, sono tornata a casa e ho cucinato. Mia suocera era di nuovo a letto. Ho pulito tutta la casa, ho fatto il bagno ai miei figli per lasciarli puliti, e poi sono andata a chiedere chi mi poteva tenere i bambini, uno in un posto, uno in un altro e quando è tornato mio marito dal lavoro abbiamo noleggiato una macchina e siamo andati all’ospedale di Sassari. Alle tre di notte è nata Rosanna, pesava tre chili e somigliava tutta a Sara. Quando sono tornata dopo una settimana ho trovato i bambini che non stavano bene, e l’Alemagna aveva risposto al mio appello. Nella lettera c’era scritto di presentarsi senza impegno da parte loro il 23 marzo. Mio marito era indeciso, ma io ho detto di tentare questa carta.

Rosanna purtroppo non ce l’ha fatta a vivere, dormivamo tutti e sei in quell’unica stanza da letto a nostra disposizione e i fratellini erano influenzati e non c’era spazio per tenerli separati. Tra la sera e la mattina si è sentita male e il 16 marzo è morta. Non ti dico il mio dolore. Il 17 abbiamo fatto il piccolo funerale e il 18 mio marito, anche lui molto addolorato, è partito con 40.000 lire in tasca ed è venuto a Milano. Fino ad allora era sempre partito in compagnia, era la prima volta che partiva solo, e una gran paura che i soldi non gli bastassero. Quando è arrivato a Milano c’era la Fiera e così non ha trovato subito una pensione e, per una settimana, di giorno ha lavorato all’Alemagna con contratto a termine, e la sera dormiva alla Stazione Centrale. Dopo, tramite agenzia, ha trovato una pensione familiare, e stava con altri due nella stanza.

Io, in Sardegna, con il dolore della morte di Rosanna e i bambini che non stavano ancora bene, e poi è venuta anche la pertosse, a volte mi vomitavano tutti e tre insieme, io ero sfinita.

In febbraio di quell’anno, quando io avevo ancora il pancione e Andrea non era ancora partito, venne al paese un nipote di mia suocera per farsi dei documenti per il suo nuovo lavoro di steward. E’ venuto a farci visita, e vedendo i nostri bambini e me con il pancione, era rimasto molto turbato e ad Andrea aveva detto “speriamo che quando torno ancora vi trovo più sistemati di come siete ora”. Ma in aprile, quando Rosanna era già morta e Andrea partito per Milano, il pilota dell’aereo dove lavorava Luigi, mentre sorvolava il Terminillo, ha sbagliato a calcolare l’altezza della montagna, così è precipitato e sono morti tutti.

Lui era un gran bel ragazzo, ed è stata una disgrazia per la sua numerosa famiglia. Anche mia suocera ha chiuso tutte le persiane, e quando siamo partite per Cinisello quelle persiane erano ancora chiuse. Per me era un vero supplizio - nonostante sia dispiaciuto anche a me di Luigi, se non altro nei nostri confronti è stato capace di dire una parola buona - ma dover vivere al buio era troppo, io che amo il sole, il mare, la luce.

Scrivevo lettere sempre più accorate a mio marito, che riuscisse a trovare un buco, che poi una volta lì avrei trovato di meglio io.

Andrea, all’Alemagna, ha fatto i lavori più duri, come quello di entrare nelle celle frigorifere quando lavorava in gelateria. Eravamo proprio carne di poco valore per gli industriali milanesi, ma allora era tale il nostro bisogno che ci sembrava una vincita al lotto quando è stato assunto per sempre, così si pensava. Dopo l’assunzione ha iniziato a guardarsi attorno per cercare casa e così, con orrore, ha scoperto il razzismo dei milanesi. Nelle case da affittare c’era scritto “non si affitta ai meridionali”. Il mio ottimismo a mio marito dava ai nervi, io non volevo vederle queste cose, sembrava che non mi importasse. Dopo estenuanti ricerche è approdato a Cinisello e qui, città aperta a tutti, è riuscito a trovare un locale più servizi, ancora in costruzione quando lo ha prenotato. In giugno siamo arrivati tutti a Cinisello, prima di venire però ho scritto a mio cognato in Germania e ci ha mandato 200.000 lire per il viaggio.

Mio marito aveva comprato tre brande e tre materassi, una tavola in formica rossa e cinque sedie. Quando siamo arrivati questa casa sembrava più un accampamento, ma mi sono messa sotto e l’ho pulita tutta appena sono arrivata.

Alle cinque della sera arrivava in piazza a Cinisello il pullman da Milano e io con i bambini andavo incontro a mio marito che tornava a casa. Ma lui, o perché era stanco, oppure forse perché la sua malattia iniziava a manifestarsi, spesso non ci guardava neanche, e guardava lontano, pensavo che si sentisse stanco, e invece si preoccupava della nostra sorte, io però su questo non ero d’accordo con lui, perché , dicevo, se prima lavorava in miniera, ora lavorava nell’industria, avevamo fatto un passo avanti. Per certe preoccupazioni aveva ragione, però lui viveva tutto con drammaticità e io volevo anche essere allegra, allora avevo ventisette anni e lui trenta, a volte si andava per la via di Cinisello a passeggio, io tra guardare i bambini e guardare un po’ le vetrine già mi distraevo, a lui invece non piacevano le passeggiate. A volte c’erano le giostre, volevo far fare un giro ai bambini e lui non voleva, mi diceva che non erano vestiti bene e lui aveva vergogna, io mi arrabbiavo e li portavo lo stesso, e lui restava a casa solo.

A giugno, quando siamo arrivati, erano già chiuse le iscrizioni alle scuole materne, e Sara aveva cinque anni e gli altri quattro e tre. Potevano andare tutti all’asilo così io avrei potuto fare qualcosa, non mi sono data per vinta, e tutti i giorni andavo dalla Superiora, con un’insistenza che sembravo persino pedante, però il risultato è stato che i bambini a settembre sono andati tutti all’asilo. E io ho cominciato a lavorare.

***

I bambini andavano all’asilo dalle nove alle quattro del pomeriggio. Io in quelle ore mi sono trovata una famiglia a Milano. Dovevo prendere il pullman e anche il tram, ma il tram non lo prendevo per risparmiare e me la facevo a piedi.

In questa famiglia c’erano tre figli, due maschi e una femmina. La moglie era una casalinga, il marito ingegnere. I figli maschi studiavano in una scuola privata cattolica, e la figlia andava dalle Orsoline. Entravo alle dieci di mattina e uscivo alle quattro. Di ore ne facevo sei, per mi pagavano per cinque, un’ora se la tenevano perché all’una mangiavano, sempre riso in bianco e bistecche. La bistecca destinata a me prima la tenevano sul tavolo a loro scelta, e quando tornava in cucina era fredda. Mi davano trecento lire l’ora, mi pagavano una volta alla settimana 7.500 lire senza contributi, e quella bistecca fredda.

La mattina quando arrivavo trovavo una cucina che sembrava un campo di battaglia, e pazientemente mi mettevo a pulire, e la signora voleva che lavorassi svelta, lei era al telefono con le amiche e parlava sempre male delle donne di servizio, era il suo passatempo preferito, poi all’una tornavano i figli da scuola e mi faceva correre, e io le mandavo un po’ di accidenti.

Un giorno l’ho trovata che frugava nella mia borsetta, e quando le ho chiesto cosa cercava, si fatta rossa, per mi ha detto che da un po’ di tempo le mancavano i fazzoletti da naso, che erano belli con le iniziali di ognuno dei suoi figli, io sono rimasta male, per non avevo idea di dove fossero quei fazzoletti. Un giorno che ho fatto le pulizie più a fondo, ho trovato dietro la lavatrice un bel po’ di fazzoletti sporchi, allora il sangue mi andato in testa. E quel giorno anch’io mi sono presa la mia soddisfazione, dicendole che i fazzoletti sporchi loro nella mia borsetta non ce li avrei mai messi, e di essere loro piuttosto più ordinati, e non prendere le povere donne per ladre di fazzoletti sporchi.

La sera quando andavo a casa avevo voglia di raccontare e criticare questa mia padrona lazzarona e pettegola, ma mio marito lavorava in fabbrica all’Alemagna, che allora era un caos e lui era entrato in questo perverso ingranaggio della produzione, lavorava tantissimo, e quando veniva a casa era stanco. E poi la sua mentalità era che quelli che si potevano permettere la donna di servizio erano intelligenti. A me cos’erano loro non importava. Il fatto era che io stavo zitta tutto il giorno e la sera volevo parlare con lui, ma lui mi invitava a pulirmi la casa, oppure dava più ragione alla padrona, forse solo per contraddirmi. Così ho iniziato a non dirgli più niente.

Sul pullman che da Cinisello mi portava a Milano ho conosciuto una donna siciliana di nome Concetta, che tutte le mattine scendeva alla stazione centrale. A chi le chiedeva dove lavorava (alla mensa del grattacielo Pirelli) rispondeva come fosse al Palazzo Reale. Una mattina le ho chiesto se per caso avessero bisogno di qualche donna, e lei mi ha dato l’indirizzo dell’ufficio, e qui - sorpresa delle sorprese - mi hanno detto che s, avevano bisogno. La sera sono andata a casa tutta euforica, perché qui avrei preso 32.000 lire al mese, ma con i contributi e un pasto, e l’orario era dalle dieci di mattina alle quattro del pomeriggio. L’orario era lo stesso di dove già lavoravo, ma c’erano dei vantaggi: appena scendevo dal pullman c’era subito il grattacielo, avrei avuto i contributi, e poi avrei lavorato con altre donne.

La sera, quando sono andata a casa, mio marito non voleva assolutamente che andassi a lavorare in una mensa per il motivo, diceva lui, che l c’erano degli uomini e mi avrebbero toccato il culo, così diceva lui. Io non mi sono rassegnata, un po’ ho implorato, un po’ ho fatto forza, e un po’ gli ho rinfacciato che quando non lavoravo spesso mi diceva che mi ero sposata con lui e avevo trovato l’asino che mi dava da mangiare; ora che volevo lavorare, me lo voleva impedire.

Comunque sono andata. Questo lavoro era molto faticoso. Ogni donna aveva quattordici tavolini da servire, ma poi velocemente bisognava sparecchiare e riservire. Il servizio con il pubblico durava due ore e mezzo e tutte le altre ore erano di preparazione e pulizie. I commensali compravano i buoni una volta al mese e poi noi si passava. Le donne commensali, che erano tutte impiegate, quando finivano di mangiare per non alzarsi a fare la coda alla macchinetta del caffè mi mandavano a prendergli il caffè, uno per loro e uno per me, che naturalmente non bevevo, e a fine giornata avevo in tasca cinquecento lire da cinquanta lire l’uno, mi pesavano per li tastavo e ritastavo, e la sera con quei soldi compravo tanta frutta, perché da quando ero arrivata a Cinisello, siccome era la prima volta che pagavo affitto (mai pagato in Francia e in Sardegna), c’era il timore che i soldi non bastassero, l’affitto allora era di 22.000 lire al mese e mio marito con tanti straordinari ne guadagnava settantacinquemila, e così all’inizio compravo solo una banana, o una mela per ognuno dei bambini. Con questi soldi di mancia compravo tanta frutta.

Nel ’67, proprio vicino a casa era venuta a costruire la casa editrice Palazzi, che allora pubblicava il settimanale "Tempo" e altre riviste. Da marzo a fine maggio anche qui ho lavorato in mensa, prendevo 12.000 lire a settimana e non dovevo pagarmi il viaggio, per non avevo i contributi. Il 24 maggio con un contratto di quattro mesi sono entrata a lavorare in legatoria, un lavoro pesante, e poi le nuove le mettono nei lavori più brutti, un po’ perché sono più giovani, un po’ perché così la regola. Arrivavano i giornali e velocemente dovevo contarne venticinque, e poi altri venticinque. Se ne mettevano venticinque in un senso e venticinque nell’altro per fare pacchi da cinquanta, legarli con filo di ferro e metterli su un bancone, e poi con un carrello elevatore si caricavano sul carro. Le più vecchie, la quantità dei giornali la conoscevano dal volume senza contarli, io invece dovevo stare otto ore sempre attenta. Ma non era quello, era il caldo, non c’erano ventilatori e lavoravo nei mesi più caldi, di fatto sostituivo quelli che andavano in ferie. Per via dei bambini, avevo dei turni alterni con quelli di mio marito.

Certo per il mio carattere curioso, per me che ho sempre avuto il mito della carta stampata, era bello il fatto di essere a lavorare in una casa editrice e di trovarmi l dove si scriveva. Quando lavoravo in mensa e c’era anche il bar, andavo a servire il caffè al direttore di "Giovani" e così una volta ho visto uscire Gianni Morandi, gli doveva nascere la figlia Marianna e forse era l per preparare un servizio, ho conosciuto Al Bano, ma non era ancora con Romina, stato l’anno che ha vinto "un disco per l’estate" con la canzone "nel sole".

Spesso sembravo una bambina che scopre la vita, ma avevo trent’anni e forse non era positivo questo mio vedere la vita tutta così con euforia. Mio marito spesso era arrabbiato con me, perché forse mi voleva vedere sempre seriosa, e non eccitarmi per aver visto un cantante. Nei mesi in cui lavoravo in legatoria guadagnavo 80.000 lire al mese e riuscivo a farli avanzare. Così nel ’68 ho potuto fare la prima comunione a Sara. Poi ho lavorato ancora in mensa e poi mi hanno chiamata a lavorare nell’ufficio abbonamenti. Il lavoro consisteva nell’imbustare e fare pacchi regalo agli abbonati e mi ricordo che a chi faceva l’abbonamento mandavano in regalo "Anna Karenina", un libro grande e rilegato lussuosamente. Io non conoscevo ancora Tolstoj e nemmeno quel romanzo, ma siccome tutto il giorno spedivo questo libro, mi era venuta una grandissima curiosità. In quel momento l’avrei perfino rubato, tanto mi ero incuriosita. Ma il libro era troppo grande e non ne ho fatto niente. Anni dopo ho letto la storia di questa donna, e ho letto anche "Guerra e pace". Nel mese di marzo mi hanno lasciata a casa, perché con questa casa editrice i contratti erano a termine, e avrei dovuto aspettare il 24 maggio per andare di nuovo in legatoria. Anche se lo sapevo, questa volta mi sono arrabbiata e a volte piangevo pure tanto mi sembrava ingiusto questo modo di vivere.

Intanto avevamo anche cambiato casa, ero riuscita a trovare tre locali, erano cinquanta metri quadri! Per avevo la camera per i bambini e avevamo comprato quei letti che alla sera si tirano giù e il giorno si tirano su, così loro nella stanza potevano anche giocare. Non c’era il riscaldamento, ma con una stufa a kerosene all’ingresso si riusciva a riscaldare la casa.

Mio marito - questo non l’avevo ancora scritto - non che fosse alcolizzato, ma beveva e ogni tanto mi picchiava per un nonnulla. Era gelosissimo e spesso si scatenava, lui all’Alemagna lavorava tantissimo ed era diventato "intermedio". Quando alla Palazzi mi hanno lasciata a casa gli ho chiesto, dato che ormai aveva qualche potere, se potevo andare a lavorare con lui. Lui in un primo momento non voleva, poi mi ha detto di fare quello che volevo e così sono andata a fare una trafila infernale per poterci entrare e ho avuto il contratto anche l per due mesi. L’Alemagna era una bolgia, si lavorava a ritmi pazzeschi. Mio marito faceva il caposquadra, lavorava come un matto, e ho notato che gli altri che facevano il suo lavoro erano tranquilli.

Quando sono andata io, si lavorava sulle macchine dei gelati, si facevano mottarelli e ghiaccioli. Purtroppo lui aveva la sindrome di quello che voleva essere il più bravo e così la sua macchina lavorava a ritmi serrati e così costringeva anche le donne a lavorare tanto. Io ero spaesata, e dopo dieci giorni che ero l hanno chiamato mio marito e gli hanno dato il turno di notte. Sara a quell’epoca aveva dieci anni, nove e otto gli altri. Noi andavamo via di casa alle sei di sera con un vespa vecchia e si faceva mezzanotte a lavorare, c’era solo lui che comandava una squadra di donne. A me quei ritmi e il pensiero che lasciavo soli i bambini di notte facevano male, e mi veniva sempre da vomitare. Una notte mi sono addormentata al gabinetto, così lui la mattina dopo per strada mi ha riempita di insulti dicendomi che tra quelle donne c’erano anche madri di famiglia con più figli di me, per lavoravano e senza tante storie.

Mi sono resa conto che a lavorare insieme, se facevo qualche sbaglio, poi lui aveva da dire, così un giorno che sono dovuta andare in ufficio a portare un documento ho notato tantissime donne con il grembiule blu, di una fabbrica che era proprio di fronte allo stabilimento Alemagna, così sono andata dal tabaccaio, ho comprato un foglio, ho scritto i miei dati anagrafici e l’ho consegnato. Volevo entrare in questa ditta, che era la Siemens. E sono stata assunta.

Prendevo il mio mensile e mi venivano pagati i contributi, mi sembrata una grande conquista. Era il 1969 e in questa fabbrica c’erano le grandi lotte per lo statuto dei lavoratori. Io ero molto ignorante dei diritti, e qui ho imparato tutto.

Certo la mia vita privata non era altrettanto felice, mio marito ogni tanto mi picchiava molto, specialmente quando i bambini andavano in colonia e rimanevamo noi due, la sua gelosia diventava esplosiva.

Io piangevo tanto, per in fabbrica cercavo di dimenticare. A quell’epoca andavano di moda le canzoni di Lucio Battisti, e le ragazze che erano in fabbrica parlavano di queste canzoni, come "Acqua chiara" e "Fiori di pesco". Allora ero troppo infelice e mi dicevo che se l’amore era quello che mi dava mio marito era meglio che l’amore non ci fosse, e così forse ero l’unica donna che non voleva sentire le canzoni d’amore. Io purtroppo non parlavo con nessuno di questa violenza di mio marito, perché mi vergognavo o perché pensavo che se avessi avuto una famiglia regolare mio marito mi avrebbe trattata bene. Invece con il senno di poi vedo che la sua malattia era iniziata e lui non ha voluto o non ha saputo fare un’analisi del suo comportamento e ha preferito sfogare su di me le sue frustrazioni. Era ambizioso e le sue ambizioni non si sono realizzate. Era come se noi, io e i suoi figli, avessimo impedito la sua realizzazione.

Io in fabbrica ormai passavo molte ore, la mattina uscivo alle sei e mezza. La sera quando tornavo a casa c’era il viaggio che era un incubo talmente era pieno di traffico, e quando arrivavo a Cinisello dovevo farmi la spesa per cinque persone, borse piene e poi tutto quello che c’era da fare in casa, per non riuscivo più a stare dietro a tutto, e così facevo il necessario e il resto lo lasciavo stare. Mio marito si lamentava sempre che non vedeva abbastanza pulito, e ogni tanto mi faceva di quelle scene apocalittiche.

La fabbrica ha iniziato ad essere la mia scuola come coscienza civile. Anche mio marito invece di rimproverarmi avrebbe dovuto sapere un po’ più cose, ma per lui leggere e sapere più cose era una perdita di tempo, cose per quelli che non avevano voglia di lavorare, e così ho iniziato a non ascoltarlo pi, facevo di testa mia, andavo alle assemblee nelle ore di lavoro e siccome lui mi controllava gli orari, io mi attenevo a quelli, ma durante la giornata mi sentivo libera, andavo a fare la campagna per il divorzio, e per l’aborto dopo.

Intanto i figli crescevano, andavano a scuola, le medie erano qui vicino a casa. Ma non andavano molto bene, perché mancava la serenità in casa. Io mi facevo in quattro, andavo alle assemblee delle scuole, per non ero in grado di aiutarli. Mi auguravo solo che capissero il mio dramma e che non ce la facevo a stare dietro a tutto.

La fabbrica per me era tutto. Lavoravo, scoprivo il sindacato e il PCI e passavo da una cosa all’altra con grande avidità. Certo che prendevo tutto di petto, con grande passione, e litigavo con tante persone che parlavano male del sindacato, o con operai e impiegati che non volevano scioperare per non perdere le ore e poi quando il contratto si chiudeva usufruivano dei vantaggi come gli altri. Per me era un grande dispiacere quando le critiche venivano dall’estremismo di sinistra come Lotta Continua.

Spesso non capivo bene, e più che capire mi erano simpatiche le femministe, quelle che nella metà degli anni ’70 portavano le vesti lunghe a fiori e zoccoli e scialli, mi piacevano tanto e iniziavo ad andare ai loro cortei, le guardavo e gli sorridevo perché mi piacevano, ma non facevo neanche caso a quello che dicevano.

Nel ’77 sono stata eletta delegata sindacale e questo mi ha dato una grande gioia. Avevo quarant’anni, e quando sono andata a casa mio marito si arrabbiato con me, e mi ha detto di dimettermi subito, e io non l’ho fatto, e lui mi faceva i dispetti, ma non ho ceduto. Fare la delegata e avere i miei tre figli sono le uniche cose certe che rifarei anche adesso.

[Il lavoro di fabbrica per Maria termina nel 1987, anno in cui viene prepensionata nel quadro della ristrutturazione della Siemens-Italtel. Il marito viene invece messo in cassa integrazione e poi in mobilità nel 1983. Accetta quindi un lavoro dequalificato in un supermercato. I suoi problemi psichici si aggravano fino a sfociare in una grave forma di depressione che lo obbliga a frequenti ricoveri e che ha un esito tragico nel giro di qualche anno. Qui termina, per noi, la testimonianza di Maria, che aveva in origine forma epistolare e nell’ultima parte tocca sfere personali che non possono essere pubblicate. Concludiamo con le parole che Maria scrive a proposito di uno dei passi più difficili della sua vita]

Io mi sono detta che se non avesse incontrato me, ora sarebbe ancora vivo e avrebbe cinquantanove anni. Nel palazzo mi hanno molto criticata perché mi vedevano alle assemblee, che se fossi stata una buona donna di casa, senza pensare a sindacato e partito, sarei stata più vicina a mio marito, non mi sarebbe successa questa disgrazia, e peggio per me. Naturalmente sono caduta in un buco nero, oltre al rimorso che già avevo da sola, ci si metteva anche la gente del palazzo. Così mi sono vestita di umiltà più che ho potuto, perché la mia povera testa e il cuore non poteva sopportare tanta malevolenza. Infine la storia tra me e mio marito, se non era stata felice, era anche perché lui era legato ai suoi pregiudizi di onore e io sono stata sempre subalterna, come se fossi colpevole di qualcosa e il nostro rapporto non è mai stato pari, e con gli anni invece ho preso il sopravvento su di lui con la testa, e lui non riusciva più a starmi dietro, lui gridava, gridavo anch’io, ma poi andavo.

Maria Jazurlo

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