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Giuseppina Morrone

Telefono “rosa”

Da Miopia n.21, Settembre 1994

 

Mi sono messa a pensare al telefono e all’uso che ne faccio da quando ho deciso di non servirmene, o di servirmene molto meno, per comunicare con le mie amiche. Se proprio ho voglia di mettermi in contatto con una di loro prendo carta e penna e scrivo o la chiamo ma per fissare un appuntamento.

In linea di massima, naturalmente.

Tutto è nato da una riflessione sul poco tempo che le donne concedono a se stesse e dall’aver constatato, con spavento, che le mie relazioni erano soprattutto legate al filo del telefono.


Illustrazione da Miopia n.21-una vignetta
Illustrazione da Miopia n.21
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la vignetta

Ho vissuto di queste telefonate, di queste conversazioni intime quasi quotidiane, che sono state il mio sostegno nei momenti di crisi e condivisione dei momenti di gioia.

Prendere il telefono e telefonare per comunicare qualsiasi cosa mi passasse per la testa e ritenevo importante era automatico.

Ridevamo con le amiche dei commenti dei mariti che proprio non capivano, anche se non osavano interferire, quelle lunghe conversazioni telefoniche.

Loro il telefono lo usavano in altro modo.

Telefonate brevi, per chiedere o comunicare qualcosa.

A questo serve il telefono!

E ridevamo sulla loro incapacità di telefonare a qualcuno solo per conversare con lui, per fare due chiacchiere, per sentire cosa fa, cosa pensa, cosa gli è successo di bello, brutto, interessante.

“Non hanno amicizie profonde” dicevamo “Le loro conversazioni sono comunicati stampa!”.

Ci sono molte barzellette sulle telefonate chilometriche delle donne e su mariti che, con forbicioni, tentano di tagliare i fili.

Vengono presentate come telefonate banali, chiacchiere da donne insomma. Un “bla...bla...bla” nel fumetto basta a definirle: un rumore inutile, perdita di tempo.

Le telefonate delle donne sono lunghe ma non banali, non perdita di tempo.

Ricordo mia madre che telefonava per auguri di compleanni, onomastici, Natali e Pasque, per ringraziare o chiedere un favore, per informarsi sullo stato di salute di qualcuno.

Non aveva tempo per uscire a fare “visite” ma ci teneva ai suoi rapporti sociali, a questa rete che legava le persone fra loro ed impediva il perdersi di vista.

Mio padre demandava.

“Fai tu... fai tu...” diceva infastidito a mia madre, per poi prenderla in giro per questa sua mania di telefonare.

Quando lui andava al telefono era un evento, si doveva quasi essergli riconoscenti perché offriva il suo orecchio ad un saluto, ad un augurio.

Ma anche lui poi beneficiava della rete creata da mia madre quando, alla domenica, uscivano ed andavano a trovare proprio quelle persone con cui lei aveva mantenuto telefonicamente i contatti.

Non mi ero mai chiesta se il telefonare di mia madre le fosse pesante, un dovere appunto a cui si sottometteva, o le risultasse piacevole e naturale.

Ricordo ora i suoi “Devo telefonare...” detto con voce affaticata, come un’altra cosa a cui pensare, di cui farsi carico.

Ricordo il suo sospiro e le sue parole “E anche questa è fatta...” alla fine di molte telefonate.

Le ho sempre odiate quelle sue telefonate perché mi sembravano finte, formali, fatte per forza e facevo mio il giudizio di mio padre e la deridevo... disprezzandola un po’.

Quando mi passava inaspettatamente la cornetta perché anch’io ringraziassi, facessi gli auguri o altro, sentivo un disagio profondo e mi trovavo a dire e a recitare una parte che mi lasciava l’amaro in bocca.

Tutto il suo atteggiamento mi suonava falso, il suo interessarsi e il suo ringraziare non mi sembravano sinceri se venivano fatti in quel modo.

Ora penso che fosse stanchezza, una grande stanchezza, e l’essere stata chiusa in un ruolo di donna e moglie che non dava scampo.

Le cose sono un po’ cambiate nelle famiglie, almeno nella mia.

Ognuno telefona per sè e le relazioni sono più personali che di coppia, più amicali che parentali.

Io, rispetto a mia madre, telefono sempre meno per auguri e ricorrenze varie, ma molto di più per parlare con le mie amiche.

Mi sembra quasi di aver mantenuto in parte quell’atteggiamento adolescenziale che faceva impazzire mio padre e che ora stupisce anche me, madre di una sedicenne.

Quel parlare fitto, quelle risate improvvise, dove sembra che tutto sia importante, tutto da condividere. Telefonate che sono quasi una continuazione delle conversazioni appena interrotte per rientrare a casa.

Non ho ancora un figlio adolescente ma mi sembra che a questa età non ci sia differenza fra maschi e femmine nell’uso della cornetta.

Dopo però le cose cambiano.

I maschi si parlano sempre meno, a voce e per telefono, non si confidano più.

Le donne invece continuano a confidarsi e... a telefonare.

Sono poche le donne che conosco che non hanno questa abitudine di telefonarsi per scambiare due parole, per confrontarsi, perché hanno bisogno di sostegno.

Quando ho incominciato a chiedermi se il nostro modo di usare il telefono fosse giusto?

Quando ho avuto come la sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato, di non detto?

Perché, mi sono chiesta, se c’è così bisogno di parlare, di confrontarsi fra noi, non ci si vede più spesso? Magari inquadrando tutto il nostro pensare in qualcosa di più organico e definito?

Ed è emersa la mancanza di tempo.

Le donne hanno poco tempo per sè, per sottrarsi a tutto un mondo che ruota loro intorno e di cui esse sono il fulcro, l’elemento portante.

Si può telefonare stando a casa, fra un lavoro e l’altro, mentre i bambini dormono (se proprio non si vuole essere disturbata).

Una telefonata può essere una breve pausa per tirare il fiato, per ritornare a noi, per scrollarci di dosso per un momento gli altri e, in qualche modo, farci accudire.

La mia amica, così disponibile all’ascolto, si prende cura di me, si preoccupa, con lei non devo mediare e cercare disperatamente le parole giuste per farmi capire, anzi la nostra conversazione è qualcosa che scorre fra noi chiarendo il nostro stesso pensiero, facendoci mettere a fuoco.

E l’importanza di questo parlare è grande, se ne sente il benefico influsso nell’anima.

Telefonando però non ci viene mai il dubbio che l’altra possa essere occupata e disturbata nel suo lavoro o comunque che, in qualche modo, andiamo ad interferire con un suo fare, un suo pensare.

Il nostro eventuale “Ti disturbo?” è proforma perché, quando ci capita di sentirci rispondere con uno “Scusa, ti chiamo dopo...” o, ultimamente, da una segreteria telefonica, rimaniamo deluse, quasi offese anche se ce lo nascondiamo e siamo subito pronte a perdonare, come se fosse appunto però una mancanza, qualcosa che ci era dovuto e non ci è stato dato.

La nostra amica, richiamandoci, si scuserà di nuovo cercando giustificazioni a così poca disponibilità.

Le donne devono essere sempre disponibili, con gli uomini, con i figli e con tutti quelli che, in qualche modo, hanno bisogno di loro, tanto più dunque con le amiche.

Diventa quasi un dovere morale.

C’è qualcosa che non va nel nostro modo di usare il telefono, qualcosa che deve essere modificato.

E’ vero che le donne devono essere di sostegno l’una all’altra, ma non per aiutarsi a reggere il tutto, ma per scrollarselo di dosso e cercare insieme nuove soluzioni.

Giuseppina Morrone

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