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Gastone Redetti

Bullcat

Da Miopia n.21, settembre 1994.

 

 

Si aggira dalle mie parti un felino dalle caratteristiche vagamente mostruose. La testa enorme si issa, tramite un collo massiccio, su un corpo tozzo e muscoloso. Tutto l’insieme è enfatizzato da un pelo onorificamente irsuto che rende la bestiaccia simile a una palla piena di baldanzosa dignità.

Se tra i gatti esistesse l’analogo della razza canina bulldog(“cane toro”), si direbbe che qui siamo in presenza - prescindendo dal pelo - di un gatto bullcat.

Si tratta invece di un gatto-maschio-nostrano, che ha tutta l’apparenza di essere conscio della sua mascolinità. L’esemplare in questione non è solo l’opposto caratteriale - per intenderci - delle deliziose gattine tante volte ritratte dalla maestria di Eleonora Chiti, ma è diverso da tutti i gatti maschi da me conosciuti in passato. Niente a che vedere con i gatti innamorati - di taglia normale - che di tanto in tanto si vedono inchiodati a pochi metri dalla gatta di casa, ammaliati dalle danze di lei e combattuti tra desiderio gattesco e timore del luogo e di esseri umani estranei.

No, questo gatto non si aggira furtivo e spasimante. Questo incede con passo regale, dignitoso, per il vasto territorio dove intrattiene rapporti ampiamente poligamici, territorio da cui sono ormai quasi spariti gli altri esemplari maschi. Unica cosa in comune con i gatti normali, l’emissione di quel tipico “mm-groo-oo-uu...” di richiamo sessuale, che alle nostre orecchie umane suona lamentoso e implorante.

Sconcerta di questo gatto non tanto la bellicosità, ma la parata, l’atteggiamento costante di ostentata di padronanza. Più che la famosa parola, a una bestia così non manca che una serie di medagliette, nastrini, pennacchietti e (ma sì, aggiorniamoci!) coccardine.

Parlando di “bestiaccia”, ho rivelato un’antipatia preconcetta. Conscio dei miei biasimevoli pregiudizi, ho tentato un giorno di instaurare rapporti non ostili con l’esemplare. Mi sono avvicinato con cautela, e ho provato ad accarezzare il bestione accovacciato. Il quale senza scomporsi mi ha addentato di scatto la mano. Un morso di avvertimento, forte ma calibrato, affondato quel tanto da spaventare senza ferire. Dopo di che se ne è rimasto lì, come niente fosse. Io, dopo qualche secondo di completo sgomento (nessuna bestia mi aveva mai trattato così!) ho afferrato uno di quegli strumenti il cui uso è esclusivo della specie umana e di pochi altri primati superiori (es. gorilla, scimpanzé ecc.), e ho fatto correre la bestiaccia. La quale, intendiamoci, non corre mai (farebbe qualsiasi cosa pur di non sembrare in fuga) ma si allontana con degnazione e, se proprio messa alle strette, accenna a un trotto leggero.

Per farmi ben capire e per allontanare ogni sospetto che qui si voglia celebrare il mito dell’ipermaschio, “l’animale ancestrale che è in tutti noi”, preciserò che se questo gatto fa paura è soprattutto per il suo innaturale senso di sicurezza. Svelerò inoltre alcune sue segrete debolezze. Un animale selvatico avrebbe certamente un maggiore istinto di fuga in situazioni critiche. Questa bestia invece, che cade preda di terrori tutti suoi, sembrerebbe quasi aver mutuato dai maschi umani il comandamento “Non far mai vedere che hai paura, copri la paura con un’enorme esibizione di aggressività”. Di qui, appunto, una sua pericolosa imprevedibilità di comportamento.

Un giorno tale gatto era stato sorpreso in casa e si era rifugiato sotto un termosifone. Non approfittò della via d’uscita offerta da una finestra sollecitamente aperta e se ne rimase per alcune ore abbarbicato come una cozza sotto il termosifone, intento a ringhiare in modo spaventoso e indimenticabile (i gatti e le gatte normali, come avrete avuto modo di sperimentare, in questi casi imboccano più lestamente possibile il primo pertugio a portata di salto). Né con scope né con spazzoloni né ruspe si riusciva a smuoverlo, e non si pensò di consultare uno psicologo, né una psicologa. Fu dunque lasciato solo e se ne andò molto più tardi, non visto.

Un altro giorno, anzi una notte, Elena scese al piano terra, e già agli ultimi scalini si rese conto di percepire un ringhio incessante e noto: il gattaccio! Inoltre la casa era permeata da un odore nauseabondo e indefinibile. Accese le varie luci ed esplorate con cautela le stanze, alla fine lo vide, intrappolato su un davanzale tra il balcone, che lo scemo non riusciva evidentemente ad aprire dopo essercisi infilato, e la finestra chiusa. Elena l’avrebbe lasciato lì a pensarci su da solo se non avesse visto, a mezzo metro dal bestione - prigioniera nello stesso davanzale - la nostra gatta, che di peso sarà un terzo dell’altro (per la cronaca e per rigore etologico: era relativamente tranquilla e niente faceva pensare ad aggressioni o zuffe). Sono stato comunque chiamato per compiere una di quelle tipiche azioni che segnano la differenza sessuale comportamentale umana, come scostare cautamente i battenti di un balcone dall’esterno, a notte fonda, usando il più lungo palo disponibile, per permettere a un gatto tonto e ringhiante di battersela. E’ stato in seguito risolto anche il mistero del nauseabondo e indefinibile odore, che non era dovuto - come suggestivamente si poteva pensare - alle secrezioni ghiandolari di un gatto ipermaschio e incazzato, ma allo scagotto di un gatto terrorizzato, come risultò quando la razionale luce del giorno illuminò il davanzale in questione.

Quella qui descritta, è una delle tante piccole sconfortanti esperienze etologiche che mi hanno fatto formulare la preghiera: “Signore, o chi per esso, fai sì che la differenza sessuale sia almeno in parte un fatto culturale!”.

Gastone Redetti

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