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Le Donne dell'UDI di Omegna

Noi e la morte

Da Miopia n.11/12, aprile 1992

 

Omegna si trova sul lago d’Orta o Cusio: quasi duecento anni fa un omegnese si è divertito a scrivere un esilarante e complicatissimo “Oracolo della SIBILLA CUSIANA”, che fornisce in rima mille risposte sulle “dimande d’amore”. Il libraio di qui, Gio Solaro, l’ha riscoperto e ristampato con enorme successo perché le Sibille non deludono mai. Noi che “pettegoliamo” sulla vita di tutto e di tutti, abbiamo infine accolto il reiterato invito di una di noi che proponeva “ma perché non parliamo mai della morte?”.

D’accordo ad infrangere “l’ultimo tabù”, ci siam subito proposte d’essere – anche in questa occasione – assolutamente “personali” a modo nostro, nonostante sia sempre difficile raccontare ciò che non si è vissuto da protagoniste. Ma è attraverso l’esperienza della “morte degli altri” che ci si può fare idee e possibili progetti sulla propria, no? Così abbiamo facilmente scoperto che l’idea che abbiamo della morte cambia attraverso gli anni secondo quanto e come ci colpiscono le morti altrui ed il tipo di perdita che ne deriva: l’aver “visto la guerra” da bambina è risultato determinante e significativo per alcune di noi. La morte di una persona cara durante la nostra adolescenza ha lasciato tracce ancora diverse, la perdita dei genitori ci trasforma ancora, la semplice ipotesi di perdere un figlio viene d’istinto rifiutata come emotivamente insostenibile...

E per quanto riguarda la “nostra” morte, quella di ognuna di noi, scopriamo con liberatorio ed esorcizzante divertimento che ognuna – anche le giovanissime! – – ci ha già costruito sopra una bella serie di fantasie: raccontiamoci, dunque!

Scartata subito come troppo romantica la vecchia idea delle ceneri nel vento o delle spoglie sotto una quercia, ci ritroviamo pressoché unanimemente sulla cremazione, intesa come provvedimento ecologico, “sicuro” e senza più contraddizioni religiose o burocratiche (bene, questa è fatta!). Ma, e il funerale? E tutto il rito e i preliminari?! E qui cominciamo ad addentrarci nell’argomento vero e proprio: si è scoperto che tutte avevamo già pensato con un certo amaro compiacimento alle nostre esequie e con enciclopedica dovizia di particolari significativi: c’è chi vuol esser messa nella bara senza scarpe perché ama camminare a piedi nudi, c’è chi conserva una voluttuosa camicia da notte per le ultime “visite” ma vuol poi esser avvolta nuda in un casto lenzuolo, c’è chi si raccomanda di non farle la bara con la finestrella sul viso e quella macabra lucina, c’è chi prova a dire spartanamente che non gliene importerà del suo ultimo aspetto terreno, ma una cosa appare ben chiara: nessuna vuol fare “brutta figura”, manco da morta, che diamine! Poi c’è chi vuole il funerale con la banda dei tempi del padre ma che suoni le canzoni significative delle tappe della sua vita, c’è chi vuole musica sinfonica, c’è addirittura chi sceglie “una corale”, c’è chi preferisce la riflessione del silenzio, c’è chi vuole jazz e chi preferirebbe Baccini in persona. Sulla questione “preti o no” si formano due correnti, ma la divisione ci appare irrilevante, mentre siamo concordi sul “nooo al discorso funebre” e propendiamo piuttosto per una merenda.

Quello che però vogliamo proprio tutte, è che tutti piangano a dirotto o siano emozionatissimi dietro alle nostre spoglie mentre noi – le morte – ci immaginiamo lì sopra a bearci della prospettiva, finalmente paghe dell’amore e della doglianza che la nostra dipartita provocherebbe (dalla serie “l’amore non basta mai” ovvero “almeno da morte, che tutti si accorgano di cosa han perso!”).

E poi? Poi qualcuna pensa di continuare ad esistere nel ricordo dei rimasti, qualcun’altra pensa di proseguire il ciclo infinito delle sue reincarnazioni in chissà chi, qualcun’altra ancora progetta di diventare “nuvoletta” o “energia”, più d’una è sicura dell’esistenza di Dio e nessuna si sogna minimamente di smentire l’ipotesi, anzi ci spera e comincia a calcolare il “premio” che ci appare certo ed inconfutabile, alleluja!

Ma alla Raffa del PDS seccherebbe un po’ di ritrovarsi con Andreotti o il presidente dell’USL; un’altra, più possibilista e fiduciosa nella giusta ricomposizione delle cose, la rassicura che “là si starà tutti assieme, ma non ci si potrà dar più fastidio”

 

Già... non è difficile morire, ci siam dette: è difficile vivere quando si sta male da morire, ed è opinione comune (anche delle più giovani oltreché di quelle che “la morte” l’han già scampata) che la vera paura è quella della solitudine e del dolore che spesso precedono la morte. Già, che scoperta! E allora vediamo se c’è una differenza fra questa “nostra” paura di donne e la “loro” paura di uomini, giacché noi abbiamo la fissa di volerci identificare per mezzo delle differenze... E allora s’è scoperto che un considerevole numero di maschietti da noi interpellati sul ”come vorresti morire”, si son trattenuti a stento dal toccarsi, han ridacchiato e ci han risposto quasi tutti “d’un colpo!”.

”Già, che scoperta!” abbiamo obiettato, al che parecchi son stati più precisi “E facendo all’amore!”... Ma guarda, sarà pura galanteria o il mito del rigor mortis o la paura del dolore o magari questa è la famosa “dirittura morale” a cui tengono i galantuomini?

Nessuna di noi donne ci aveva proprio pensato di morir così, anzi l’avevamo proprio escluso, forse perché noi abbiamo un’idea un po’ più allegra e vitale dell’amplesso o almeno vorremmo che così fosse. “Loro”, invece, coerenti sino all’ultimo, eh?

Un po’ ridendo e un po’ sconsolandoci ci siam dette: “Han bisogno di noi per nascere, per vivere e per morire... Quando nascono c’è la mamma, quando procreano c’è la morte e quando... schiattano (pardon!) ci dovrebbe esser l’amante focosa che li fa morir di gusto! Va be’, ma come dovrebbe sentirsi, in quel frangente, la superstite?”.

Comunque, decidiamo all’unanimità che noi donne vorremmo semplicemente “spegnerci” serenamente come candeline tranquille, senza dar troppo fastidio e magari avendo attorno le faccette dei nipotini, e in ogni caso senza coinvolgere più di tanto il nostro futuro vedovo. Vorrà dir qualcosa 'sta “differenza”?!

Oh sì: intanto ci vien da notare che gli uomini son abituati ad esser accuditi più che ad accudire (”loro” son quelli che andavano ad abbattere il drago e che oggi debbono vedersela col capufficio) mentre noi donne siamo addestrate all’accudimento – indipendentemente dal fatto di avere ormai un capufficio anche noi a cui tener testa – e così ci capita ancora di accudire a noi e a loro, da piccoli, da grandi, da ammalati, da sani, da vecchi e da moribondi, come madri, spose, sorelle, figlie, infermiere e persino come vicine di pianerottolo. Nei parti e nelle agonie, c’è sempre una donna “pratica” che sa che fare e come farlo, qualcuna di “noi” deve sempre esserci e saperci fare.

Questa allora è tutta una fatica nostra, tutto uno svantaggio nostro?

Ma no, anzi, a questa nostra specifica specializzazione noi ci teniamo molto, eccome, purché non ce l’appiattiscano in un “ruolo” o non la banalizzino definendocela “sensibilità femminile” soltanto. Che diamine, è piuttosto una preziosa capacità espressa dalla nostra cultura di donne. E qui abbiamo finalmente scoperto un vantaggio a nostro favore, che arriva a rassicurare anche quelle di noi che non han più la mamma e non hanno figlie o sorelle e si ritrovano con un marito a desiderare di poter avere una moglie, e questo “vantaggio” (peraltro conquistato!) è l’amicizia tra donne, è quell’esserci “intime” giorno per giorno quando ci si racconta di parti, di gravidanze, allattamenti, mestruazioni, menopause e anche crisi-gioie-complicità-solitudini-delusioni-speranze-amarezze-dolori-sogni... Quell’esserci “amiche” che han sempre da parlottarsi, confrontarsi, sorreggersi, confidarsi, come se dovessero quasi scambiarsi le vite, è forse un modo per prepararsi ad affrontare e diradare la solitudine che precede la morte, o no?

E così ci siamo un po’ adotatte l’un l’altra, allegramente “pettegolando” sui fatti della vita, a mo’ di scongiuro e senza desiderare di fare all’amore per morire d’un colpo ma – semmai – per vivere un po’ meglio a lungo (che diamine!).

Le donne dell’UDI di Omegna

 

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