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Elena Fogarolo

Anche le gatte lo sanno

(che il patriarcato è finito)

Da Miopia n.28, dicembre 1996

 

Sono una non-gattara che vive con persone, di entrambi sessi, che gattare invece sono. Non mi hanno convertito, ma influenzato sì. Abbiamo convissuto con una serie di gatte. La scelta di prendere, di volta in volta, una gattina, è stata dettata – prima ancora che dalla preferenza per i felini femmina – da motivi pratici. Si, perché soprattutto in campagna le strade diventano trappole infernali per i gatti maschi in amore. Di notte le strade si placano quasi del tutto, non circola quasi nessuno. È in quel “quasi” che sta la trappola: il gatto maschio rischia infatti di essere fatto secco, già nelle sue primissime scorribande amorose, da una delle rare automobili che squarciano improvvise la notte.

Quindi visto che, se si può, si cerca di evitare bambini in lutto-gatte. Gatte che raramente vanno in giro per le strade di notte e quindi sopravvivono a lungo. Anche queste gatte prudenti non sono eterne: anche loro alla fine muoiono. E dopo un conveniente periodo di lutto, ne arriva una nuova. Piccola. Le non-gattare, pur restando tali, si ritrovano il cuore sempre più molle per le feline, fonte crescente anche di osservazioni e di pensieri.

 

Questa gattina che ti arriva in casa, se ne impippa di capire chi è il padrone. Del patriarcato, le gatte se ne sono impippate sempre. E per questo, poveracce, le hanno anche bruciate come diavoli incarnati (accadeva però se erano del tutto nere: bastava un pelo bianco per salvarle, siamo onesti!). Anche i gatti dotati del pelo salvatore, si direbbe che non sopravvivevano tanto bene. Le orecchie risuonano ancora di tanti aggettivi tipici con cui si denigravano un tempo i gatti: malfidi, ladri, che non amano nessuno, che si “incasano”, interessati, ruffiani, sleali... Un gatto veniva preso tranquillamente a sassate e non gli si dava nemmeno da mangiare, perché se fosse stato sazio non avrebbe cacciato topi.

Famelico, quindi, coccolato sporadicamente da qualche bambino e da questo anche maltrattato senza che i grandi intervenissero, sgradito quanto necessario marchingegno antitopo... poveri gatti, ma avevano la vita proprio cosi grama?

Nelle alte sfere, sì. Ma nelle basse sfere trovavano un trattamento migliore. E dopotutto, considerando che loro delle alte sfere se ne infischiavano un tempo come se ne infischiano ora, forse non se la sono passata mai tanto male. Certo che adesso – dopo il loro cambiamento di status – a noi sembra che stiano meglio: la loro mancanza di servilismo, la loro parziale autosufficienza, il non starti sempre addosso, sono finalmente considerate virtù.

Ho sentito persone anziane fare autocritica, sul modo “di una volta” di trattare i gatti. Secondo me si sopravvaluta un po’ quella crudeltà. Se si pensano i gatti al di fuori del simbolismo e del funzionamento patriarcale, ci si accorge che i bambini, ma anche le donne in genere, e quelle nubili in particolare, hanno vezzeggiato sempre i gatti. Ma i gatti – da parte loro – non si sono mai affrettati a riverire il padrone di casa al suo ritorno: così il padrone poteva tra l’altro pensare e dire che, se non amava lui, voleva dire che il gatto non amava nessuno.

Un gattino trapiantato in una nuova casa non va dunque in cerca di farsi un padrone (come fa quel poveraccio del cane). Più furbo, il gattino o la gattina va in cerca d’amore. E il gatto tratta il nuovo oggetto d’amore come se fosse la madre perduta: arriva come niente a ciucciargli il lobo dell’orecchio, a mo’ di tettina.

Il gatto non era l’unico animale domestico ad essere insignito di qualità negative: anche la capra, questo animale mai del tutto addomesticato, era trattata come il diavolo. Non aveva forse zoccolo di capro, il diavolo? Già, ‘sti poveri animali domestici non solo dovevano essere sfruttati, ma essere paghi del loro sfruttamento. Erano così asserviti, cosi incapsulati nello stato domestico, da rendere impensabile una loro liberazione: cosa farebbe una pecora smarrita nel bosco? Il padrone deve andare a salvarla! Le pecore, con il loro stringersi tutte addosso una all’altra, con la loro paura di tutto, quelle sì sono brave bestie; come la mucca, la gallina e tutte le altre povere creature che si adattano ai nostri lager.

Ma il primo posto spetta al cane: questo cane che rende naturale la posizione del maschio-padrone, che lo lecca, che gli fa le feste. E in premio di questo riconoscimento simbolico, viene insignito di tutte le qualità positive: intelligente, leale, ubbidiente. Molti di noi sono cresciuti col mito del cane, per averne poi delusioni atroci. Sì, per ubbidire ubbidiscono... ma a cosa? A quello che capiscono, e qui si tocca un tasto penoso... macché Rintintin e Lassie...

Per il loro servilismo verso il padrone di casa, il patriarca, i cani sono stati e sono ancora oggetto di elogi sentimentali e sciropposi: persino la campagna contro l’abbandono dei cani rinuncia all’efficacia perché non sa rinunciare al sentimentalismo. Ogni tanto c’è qualche voce fuori dal campo: “i cani sono infelici, non hanno niente da fare, muoiono di noia...”. Come, non fanno niente? Ma se sono i custodi del patriarcato! Beh... quando il patriarca è in stato di euforia perché deve andare in vacanza... senza tanti scrupoli sacrificherà l’adepto abbandonandolo in mezzo alla strada... il padrone è lui, no? Un gatto, se vai qualche giorno in vacanza, lo puoi anche lasciare a casa: se qualche vicino gli dà da mangiare, tra le cose note, i vecchi odori, magari dormirà di più... ma aspetterà.

Un tempo, quando una persona era afflitta per motivi considerati futili dagli altri, la si prendeva in giro chiedendole “ti è morto il gatto?”. Cioè: il tuo dolore è futile, inventato, tu in realtà non stai male, non si sta male se muore il gatto.

Mi è capitato di leggere questa notiziola: un gatto era vecchio, la sua padrona era anziana, aveva solo lui; una sera il felino si è presentato in casa tenendo un gattino tra le fauci, l’ha fatto cadere davanti alla padrona e poi è crollato morto. E anche se l’ho letta in una rivista non tanto attendibile, mi piace pensare che sia una storia vera e vedere in questo gesto che enfatizza un continuum d’amore al di là della propria individualità gattesca, la numinosità di questo piccolo felino.

 

Ho parlato di gatte e di patriarcato perché volevo parlare con leggerezza. Nel numero 23 di Via Dogana (settembre-ottobre 1995) è apparso un articolo dal titolo Salti di gioia in cui l’autrice, Luisa Muraro, scriveva tra l’altro:

«...questi sono i tempi della fine del patriarcato, dopo quattromila anni di storia e chissà quanti di preistoria. È finita! È finita! È finita!»

Muraro non scriveva come se annunciasse un nuovo dogma. Ciò che diceva sulla fine del patriarcato, lo diceva leggermente, direi quasi felinamente. Lo diceva infatti con gioia, che non è semplice allegria o ignoranza del dolore.

A quell’articolo ci sono state molte repliche, alcune molto dure, pesanti, serie, offese. Del tipo: “con tutte queste donne che soffrono, tu, privilegiata, dici che il patriarcato è finito!”.

A parte il fatto che l’autrice per prima precisava che c’era ancora questa sofferenza, questo «elenco, purtroppo lungo e vero, di sventure e ingiustizie che si abbattono sulle donne in ogni parte del mondo», l’aspetto più negativo di quelle repliche va forse visto in un certo irrigidimento, nel rifiuto o nell‘incapacità di riconoscere la creatività femminile.

Parlare di “salti di gioia” è un’operazione creativa. L’autrice – si presume – non avrà fatto dei veri salti sul pavimento di casa sua. Ha creato un’immagine, un’immagine efficace perché ha contagiato con la sua gioia molte altre donne. Fate un posto a questo pensiero, suggerisce Muraro. Fate come le gatte, si può aggiungere scherzosamente. Lasciate che questo patriarcato vi stia un po’ fuori dai piedi, non obbligatevi a interiorizzarvi sempre come sue vittime. Sareste già morte, se lo foste davvero. Anzi: non sareste nemmeno nate, perché vostra madre non avrebbe avuto le forze per mettervi al mondo.

Elena Fogarolo

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