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Elena Fogarolo

Le paludi del disordine

Da Miopia n.36, dicembre 2000, numero monotematico
LUOGHI, SPOSTAMENTI, INCONTRI

 

Anni fa mi è capitato di passare un lungo periodo in un paese di mezza montagna, dove ho conosciuto una donna (che qui chiamerò Carla), che viveva in uno stato di estrema miseria: aveva quattro bambini, nati uno dopo l’altro, le mancavano i denti e non aveva né soldi né tempo per farsi curare. Il marito stava morendo nel reparto di oncologia del capoluogo, dove lei si recava quando poteva, sempre di corsa.

Carla mi aveva raccontato come la lunga malattia del marito avesse portato la famiglia all’indigenza. Il marito non percepiva più alcun sussidio, avendo esaurito tutti i permessi per malattia previsti e alla fine era stato licenziato. Lei, lavorava a domicilio per una ditta di giocattoli. Montava dei pezzetti di plastica. Il ragazzino più grande faceva la prima media, andava molto male a scuola, e non ricordo come fu che cominciai a impartirgli gratuitamente delle ripetizioni, che furono molto fruttuose e gratificanti sia per lui sia per me: il ragazzino era infatti intelligente e volonteroso, e il malessere scolastico non era che una conseguenza del dramma familiare (in un paio di mesi furono rimediate le insufficienze in tutte le materie).

Un giorno avevo bisogno di parlare con Carla e mi recai a casa sua (il bambino per le lezioni veniva da me), ma, dopo ripetuti richiami, non mi rispose nessuno. Si avvicinarono allora due donne, dicendomi che Carla era in casa, al piano superiore, non mi aveva udito perché era impegnata nelle faccende... non vedevo che la porta era aperta? Sì, quello lo avevo visto, ma era un paese dove nessuno si chiudeva dentro.

Le donne insistevano che entrassi, perché si usava così.

Poco convinta, ma confusa dalla loro pressante ingerenza, m’infilai in casa, ma rimasi vicino alla porta: da lì chiamai ancora Carla. Non ebbi risposta e quindi mi affrettai a uscire.

Fuori, le donne mi aspettavano con una tensione maligna: “ha visto? ha visto che disordine? ha visto come tiene la casa?”.

Ora, io avevo visto solo degli scatoloni con dei giocattoli, cosa che non mi aveva sorpreso, sapendo dell’attività di Carla, che certo non disponeva di tavernette o di locali per gli hobby, ma solo di quella cucina con una o forse due camere da letto.

Mi allontanai inorridita da quelle donne: dove era il disordine, se non innanzitutto nelle loro teste? Quella donna generosa, buona, sempre di corsa tra i bambini e il marito moribondo, non viveva nell’ordine della carità? E cosa spingeva le sue vicine a un comportamento così crudele?

Capivo che il fatto di essermi allontanata in silenzio, indignata con le vicine e non certo con Carla, si sarebbe ritorto contro di me: “Sono uguali! Se non si scandalizza, vuol dire che tiene la casa allo stesso modo!”.

 

E’ ben vero che l’ordine femminile tradizionale, io non l’ho abitato mai.

Quell’ordine domestico per cui una donna è sempre di corsa, e non per cause tragiche come la donna citata sopra, ma per l’inoperosità, la sbadataggine, la crudeltà infine dei suoi familiari, quell’ordine per cui una donna non ha mai tempo di sfogliare un libro o di dedicarsi ad altre attività della mente e del cuore, mi sgomenta e mi impaurisce.

Leggendo di recente il libro buddhista Istruzioni ad un cuoco zen, mi sono trovata a riconoscere nella mia vita di donna che si pensa disordinata un largo spazio di ordine che non mi ero mai detta: la cucina. Ho cucinato sempre con estrema attenzione, con esattezza. Ho scelto con cura gli ingredienti, li ho cotti nel modo migliore, li ho serviti in tavola alla temperatura giusta.

Quest’arte l’avevo imparata da mia madre e dalle donne della mia larga parentela. Molto presto. A undici anni, per esempio, mi sono trovata con la responsabilità della famiglia sulle spalle, perché la mamma era in ospedale per la nascita dell’ultima sorellina. C’era della carne, per pranzo: sette bistecche di vitello. Le ho annusate: puzzavano. Che fare? Sapevo che la carne era molto costosa, ma sapevo anche che l’avvelenamento da carne avariata era molto grave. Ci riflettei intensamente, poi buttai la carne nella pattumiera. Ne parlai con la nonna, appena la vidi. La nonna mi spiegò che avrei dovuto lavar bene le bistecche, che quasi sicuramente la carne non era andata a male. La nonna poi ha continuato a sbottare, ogni tanto, per tutto il pomeriggio: “sette bistecche buttate via!”. Ma non mi sgridò. Nell’incertezza, la mia azione era stata giudicata la più saggia.

 

Negli anni precedenti la dissoluzione dell’ex Unione Sovietica, c’è stato un intenso scambio tra studiose/i occidentali e dei paesi socialisti. Gli esperti socialisti di dietetica ammettevano che il cibo fornito da una mensa, anche la migliore, non poteva competere con i pasti preparati in casa, differenziati secondo l’età, la salute, i gusti dei familiari. Insomma il cibo della madre, o chi per essa, era insostituibile.

Ma di questa grandezza femminile le donne spesso sono poco consce: così, via col luogo comune per cui i grandi chef sono tutti uomini, mentre le donne, al confronto, appaiono delle mentecatte che sanno fare solo minestre col riso stracotto e bistecchine bruciacchiate.

Anche il libro buddhista sopra citato, confronta in modo veramente poco compassionevole, e quindi poco buddhista, il lavoro del monaco addetto alla cucina con quello di una “comune massaia”. Ovviamente è il monaco a essere considerato di livello superiore!

 

Tornando all’episodio nel paesino di montagna che ho raccontato sopra, quelle donne, che erano state così crudeli con la loro vicina infelice, non sapevano la grandezza del proprio ruolo, e tanto meno quella di lei.

Identificare momenti di ordine nella propria vita e riconoscersi legate a una tradizione di cura di livello altissimo, permette non solo di far chiaro in se stesse, ma anche di avere misericordia per le altre e di vedere l’ordine che le guida, secondo criteri diversi dal cupo conformismo.

e.f.

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