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Maria Luisa Martinelli

La figlia di Ismaele

Una ragazza somala in Italia

Da Miopia n.32, Settembre 1998, numero monotematico
LE FIGLIE, I FIGLI

 

Era arrivata a Ciampino dritta da San’a nello Yemen dove viveva con la famiglia profuga dalla Somalia. Aveva quindici anni, ma ne dimostrava meno per via del viso molto piccolo fasciato in tondo dalla passamaneria dorata dello chador. Non sapeva il perché di quel viaggio improvviso (la madre l’aveva avvisata solo una settimana prima della sua prossima partenza per l’Italia) ma una cosa sì l’aveva ben capita: era grande abbastanza per essere spedita in giro a lavorare, lei la più grande dei nove fratelli rimasti nello Yemen. Le case nella grande città italiana le apparvero subito dal finestrino dell’autobus “come tanti alberghi, data l’altezza che nella mia città natale, Mogadiscio, è propria degli alberghi (le case invece sono basse bianche con grossi muri che mantengono il fresco nelle giornate afose)”. Solo più tardi credette di capire che molta gente si stipava in quegli alveari “perché in Italia siete tanti e forse vi piace sentire sotto e sopra di voi le voci dei vicini... sì anche a noi piace ma solo per chiacchierare e per giocare quando si esce in cortile la sera, magari perché manca la luce elettrica (capita spesso) e allora qualche vecchio intrattiene i bambini con i suoi racconti sotto grandi stelle che illuminano la notte... qui nelle vostre città le stelle non si vedono!”.

Alcuni amici e parenti già in Italia (erano tutti zii, cugini secondo i rapporti di clan) la sistemarono presso una famiglia su nel nordest e qui iniziò per lei una vera e propria scuola.

Osservava la gente nuova con occhi curiosi allargando la bocca sui bei denti bianchi in un sorriso incredulo che poteva apparire ironico a chi non conosceva la sua situazione. Quella di una ragazza appena strappata alla compagnia rumorosa dei fratelli minori, spesso noiosi sì ma con cui era anche bello giocare!

“Nella città italiana per la strada non vedevo che vecchi con facce preoccupate, sempre di corsa per afferrare l’autobus o per non lasciarsi scappare il verde del semaforo... ma qui nessuno sorride... ognuno va via in fretta, solo, senza guardare il vicino!...”.

Le mancava la sua grande città che sapeva di mare, di spezie, di incenso bruciato nelle case, di essenze dolcissime sui banchi dei mercati dove si rincorrevano torme di giovani colorati e vocianti. Non era triste, no... il pianto consapevole e cocente sarebbe venuto più tardi... ora c’era solo stupore in lei e un senso di vuoto mai provato prima. Il cambiamento era stato troppo improvviso, la distanza da tutto ciò che l’era appartenuto sembrava enorme ora, guardando l’atlante.

Il “qui” e “ora” cominciò a divenire l’unico modo per sopravvivere alla nostalgia. Doveva vivere in quel luogo? Bene, avrebbe fatto di tutto per imparare la nuova lingua. Che cosa credevano loro, che non ne sarebbe stata capace? “Mica avevo vissuto nella foresta io, come pensano questi che ogni nero lo immaginano proveniente da lì. Io ero andata a scuola, come i ragazzi italiani della mia età e avevo vissuto in una grande città che loro non immaginavano neanche. Non avevano mai visto questi le grandi onde dell’Oceano Indiano sulle nostre spiagge!” E aguzzando l’orecchio, guardando fisso la bocca di chi compitava per lei le parole, imparò prestissimo la lingua, scavalcando d’un balzo inaspettatamente la fase dei verbi all’infinito, coniugandoli quasi subito.

Unico neo: la famosa inversione dei suoni “b” e “p” perché la “p” mancava proprio nel suo alfabeto d’origine. La cosa era grave perché, per quanto disponibili nei suoi confronti fossero gli ascoltatori italiani, questi non potevano non ricordare i tanti film in cui il “povero negro” diceva “Sì badrone”!

Ma lei questo non lo sapeva fortunatamente e continuava ad esplorare quel mondo e ad assorbire come una spugna le novità.

I jeans e la maglietta per esempio sostituirono subito la lunga veste che era troppo ingombrante per lavorare, perlomeno per fare quei lavori di pulizia a cui le signore italiane tenevano tanto: ora era una “colf” (così si diceva). Imparò subito che per avere il permesso di soggiorno occorreva essere messa in regola e lo pretendeva con forza quando cercavano di contrattare la cosa con lei. “Magari ti diamo qualcosa in più, se non ci obblighi a pagare l’INPS”. L’INPS, lei non sapeva cosa fosse, ma le immigrate più vecchie le avevano detto di non cedere e lei così faceva.

Poi vennero le lunghe telefonate della madre da cui capiva solo che doveva convertire in dollari gran parte di ciò che guadagnava e spedirli alla famiglia. “Sì, è vero che mi benedicevano tutti, alternandosi al telefono” ma come spiegare ai familiari che quei soldi erano frutto di un lavoro pesante ripetitivo che spesso non accontentava le signore per cui lavorava e che soprattutto lei non l’aveva mai fatto prima d’allora quel genere di lavoro.

Il concetto di pulizia in Africa aveva ben altro significato: case semplici lineari a un unico piano con grandi stanze spoglie, dotate di stuoie e materassi per il riposo, senza arredamento e suppellettili dove poteva depositarsi la polvere. Grande importanza avevano invece i bucati, stesi sul prato al vento caldo nelle luminose giornate di Mogadiscio e i pasti da cucinare per tante persone (quindici, sedici, e più a seconda degli ospiti presenti: parenti indigenti e più spesso ragazze da sposare, sorelle della madre, in fase di apprendistato materno). In lei rimaneva un’immagine caotica ma gioiosa della gestione di casa sua, tenuta a turno dalle tante donne presenti.

“Qui invece le signore impazzivano per un po’ di polvere sui mobili vecchi (loro dicevano che più erano vecchi più erano preziosi... sarà anche vero ma da noi vecchia è una cosa da buttare) e soprattutto si preoccupavano per l’unico bambino della casa. Non si può mai lasciarlo solo, anzi bisogna inventargli continuamente dei giochi perché non si senta solo. Ci credo io, poveretto non ha fratelli con cui giocare! Mica come i miei nove fratelli, che mia madre li chiudeva in una grande stanza (vuota perché non si facessero male) e lì inventavano giochi insieme, si davano anche le botte certe volte, ma c’era sempre qualcuno più grande a dividerli”.

La differenza tra i due mondi diventava insostenibile, al punto che in certi momenti avvertiva il pericolo di perdere la propria identità. Il rimedio istintivo era quello di avvolgersi la testa con un foulard a mo’ di turbante e di rinchiudersi nella sua camera ad ascoltare vecchie cassette somale che circolavano tra i connazionali immigrati. Chi viveva con lei sentiva certe nenie ripetitive (tali almeno apparivano all’orecchio occidentale) e capiva che era il momento della malinconia più struggente, quello in cui nulla era possibile fare per lei. Bisognava solo aspettare che passasse!

Un rimedio alla situazione fu in parte trovato con la frequenza a un corso serale per il conseguimento della licenza di scuola media.

Nel corso dell’anno sempre più crebbe il suo interesse per lo studio della storia. Anzi, quando a volo d’uccello (come si usa in questi corsi annuali) si arrivò all’epoca coloniale, scoprì che la situazione attuale del degrado della Somalia poteva anche dipendere dal passato malgoverno italiano allora cominciò a guardarsi intorno con occhi diversi. “Mi rendevo conto per la prima volta che la debolezza di tanti popoli africani non era una colpa da scontare in attesa di poter imitare voi occidentali. E se anche fosse stato così, siete proprio il massimo come modello?”.

A questo punto cadde in una profonda quanto obbligata contraddizione.

Pur continuando a sostenere che il capo coperto e i larghi vestiti leggeri facevano bella e fiera la donna del suo paese, si lasciò conquistare da tutto quel polverone pubblicitario che non consente oggi alle nostre ragazze di essere diverse le une dalle altre, di essere se stesse.

Pantaloni, magliette, creme per il corpo, acidi per stirare i capelli crespi, cantanti, film americani e soprattutto tante troppe telenovelas, tutto diventò abituale per lei, tanto che acquistò un aspetto un atteggiamento assolutamente nostrano.

Accettò pure qualche invito da alcune famiglie (pochi a dire il vero perché anche chi si dice antirazzista non fa poi molto per accogliere gli extracomunitari). Gente che aveva figli a lei coetanei, forse curiosi di vedere da vicino questi fenomeni venuti da lontano.

“Mi interrogavano sugli usi della mia gente con gentilezza ma io avevo la sensazione che loro si stupissero della mia “normalità” quasi fossero delusi della sicurezza che dimostravo, forse più disposti a consolarmi che ad ammettere quanto in fondo me la cavassi bene”.

Fu proprio una questione di orgoglio di “razza” che la spinse anche ad opporsi con forza a quella che lei giudicò una demonizzazione di tutto il mondo mussulmano dopo i fatti di Algeria.

“Ma cosa credono? Che tutte le donne mussulmane siano schiave del marito? Da noi in Somalia la donna può vestire come vuole, può lavorare fuori casa, divorziare liberamente dal marito se non lo ama più. Sì è vero, fa tanti figli. Ma sono forse belle le vostre case silenziose e vuote di bambini?”.

Qualche dubbio non confessato comunque ora comincia a farsi strada in lei.

Un bilancio dopo sette anni da immigrata deve pur farlo. “Loro, i miei fratelli, sono diventati grandi e hanno potuto studiare nelle scuole dello Yemen. Magari si diplomeranno e, sapendo bene l’Arabo e l’Inglese, potranno lavorare nella ricca Arabia Saudita. E io? Con il mio Italiano/Somalo e con la terza media che cosa potrò fare? Ancora la colf o l’assistente di anziani che qui campano fino a 100 anni... Ma per me non c’è proprio altro?”.

Forse non le basta più quel famoso dovere della solidarietà di clan che l’è stato insegnato. Qualche dubbio ce l’ha su quanto è realmente scritto nel Corano e quanto invece la tradizione ha fatto passare per tale. Deve pur ammettere che qui a una ragazza della sua età non è richiesto un impegno simile al suo! Anche lei, come solo a vent’anni può accadere, ora progetta di scoprire da sola la Verità. “Andrò a scuola di Arabo, così potrò leggere alla fonte il Corano e capire meglio che cosa Allah vuole veramente da me”.

Così vive tra noi una figlia di Ismaele, profondamente divisa in se stessa e sempre più... lontana da Medina.

Maria Luisa Martinelli

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