torna a ....

Gastone Redetti

A Bologna, a Bologna!

Da Miopia n.29, Maggio 1997, numero monotematico
SILENZIO MASCHILE?

 

Sono stato anch’io molto colpito dalla lettera aperta di Virginio Merola, che Elena mi ha proposto subito dopo averla letta su noidonne.

L’otto febbraio ha avuto luogo a Bologna, al Palazzo dei Notai, l’incontro che concretizzava l’invito della lettera a un dibattito sulla questione della violenza sessuale.

In sala si è avuta la conferma di un impegno attivo di Merola, e di un suo lavoro di effettiva sensibilizzazione di tecnici, geometri, architetti, amministratori bolognesi direttamente coinvolti nella gestione della città e non indifferenti alle questioni della sicurezza dal punto di vista delle donne. Uomini che, richiesti, non si sono negati. E non è che sia niente.

La lettera aperta di Virginio Merola:
«Nel mio quartiere da più di sette anni capitano vicende sessuali contro le donne. Non si trova un colpevole, ma si parla di mostri e maniaci sulla stampa e nelle chiacchiere da bar. Ho fatto il mio “neutro” dovere di amministratore pubblico. (...) Ma sento che manca qualcosa. (...) Sento che quello che manca sono le risposte di noi uomini, le parole che, se dette, possono aprire un dialogo vero con le donne. E per me quelle parole sono: la violenza sessuale contro le donne non è riconducibile alla patologia di qualche maniaco o malato, ma vive nel contesto di una cultura e di una identità maschile storicamente sedimentata, trasmessa in modelli culturali e quindi tradotta in comportamenti concreti.
Cosa c’è nel genere maschile che produce violenza sessuale, stupri, molestie sessuali, apprezzamenti volgari? Per me non è un dato naturale, un istinto o una pulsione. È un linguaggio, una cultura. È una cultura che vede nella dipendenza solo una mancanza di libertà e non invece la possibilità di una libertà autentica. È una cultura che riduce la sessualità a prestazione, a competizione, ad affermazione di potenza: una incapacità di avere autorità senza avere potere. È infine una cultura che costringe la sessualità ad un ruolo e non permette un linguaggio sessuale praticato come continua ambivalenza di atteggiamenti femminili e maschili, che invece convivono in ogni donna e in ogni uomo. Noi uomini abbiamo molto spesso chiaro nei nostri discorsi “impegnati” e nella nostra pratica, che c’è poco, in noi, di naturale. Anzi, che “per natura”, viviamo manipolando la natura, costruendoci come uomini “artificiali”. Eppure questo lo neghiamo per la nostra vita di relazione con le donne. Qui tiriamo in ballo l’istinto che è più forte di noi, che se ci provocano, non possiamo resistere, ecc., ecc.
Oggi le donne non ci stanno più fare a fare le vittime. Perché noi uomini pensiamo che non valga la pena di dire pubblicamente che non ci stiamo a fare gli aggressori e i prepotenti? Perché non accettiamo di parlare da pari a pari con le donne, di stare loro accanto così come magari facciamo nell’intimità del rapporto privato? Di dirlo a loro, alle donne, in pubblico, che come loro anche noi ci rendiamo conto di non saper nulla, che le ringraziamo di sopportare la nostra infantile tracotanza la nostra incapacità di convivere con i dubbi? È come se le donne da tempo ci dicessero: guarda che mi piace essere donna e insieme sono stanca di essere da te costretta nel ruolo di donna. È troppo per noi uomini ammettere la stessa cosa? Non ci piace forse di essere maschi e insieme ci sentiamo troppo stretti nel ruolo maschile? La violenza fa parte della storia degli uomini e delle donne: solo insieme donne e uomini potranno combatterla. Ci vuole un linguaggio comune, le parole per dirlo. Ma se noi maschi restiamo muti, questo dialogo non potrà mai cominciare: non saremo credibili per le donne. Per questo chiedo agli uomini che lo vorranno di sottoscrivere questa testimonianza-documento, di promuoverci intorno un dialogo pubblico tra uomini e donne.»
(Da noidonne, Gennaio 1997)

L’incontro - di carattere spiccatamente cittadino - è apparso quindi come un altro capitolo del proverbiale buon governo bolognese. A questa rottura pubblica del silenzio maschile sulla violenza sessuale è stato affidato non a torto un significato simbolico e politicamente quasi inaugurale.

 

Naturalmente come uomo non sono andato a Bologna solo per apprezzare un atto di buon governo, ma sono andato - con speranze e diffidenze - per vedere, sentire, parlare con uomini toccati, o almeno sfiorati dalle questioni delle donne e consapevoli che un problema maschile di genere esiste: un’occasione di incontro che non si presenta tutti i giorni.

La speranza di trovare pensieri di riferimento non è stata affatto delusa, soprattutto per la relazione di Carmine Ventimiglia, che ha esposto la sua concezione per cui la violenza sessuale rientra nella nostra maschile “normalità”, nella nostra cultura di genere, e non può essere spiegata né semplicemente ricorrendo - come molta scienza maschile ha fatto - alla patologia individuale e alla devianza dei singoli, né alle teorie del “maschio profondo”, riecheggiate in Italia dallo psicanalista Claudio Risé.

Ho trovato molto coinvolgente soprattutto la parte conclusiva della relazione, in cui Ventimiglia ha proposto tutta una serie di interrogativi rivolti a sé e agli altri uomini. È stato evidente, in questa fase, il suo esporsi come persona: nonostante le riserve espresse da lui stesso sulla validità - per gli uomini - della pratica dell’autocoscienza, Ventimiglia un po’ di autocoscienza a Bologna l’ha fatta, per esempio confessando (per quanto implicitamente e per scarni accenni) di avere vissuto un lungo rapporto amoroso al riparo della contestazione femminile/femminista in campo sessuale, e dando molto spazio - nel proporre i suoi interrogativi - alla sofferenza maschile per l’inadeguatezza del proprio comportamento amoroso, di cui ha elencato diversi sintomi e fattori, e chiedendosi di volta in volta “perché?”.

Perché, per esempio, le proiezioni che fanno vedere a noi uomini solo ciò che vogliamo vedere nel rapporto con la donna? perché la disattenzione ai segnali femminili di non desiderio (ma, aggiungerei: anche a quelli di desiderio)? perché l’incapacità pressoché totale nei maschi di reggere al conflitto con la donna, e il conseguente rifugiarsi nella violenza?

I sintomi del malessere maschile, che Ventimiglia ha analizzato, potrebbero essere intesi come un sordo rumore di fondo nell’anima dell’uomo che con la donna vive un rapporto arcaicamente patriarcale (l’uomo che per esempio si accosta alla moglie senza che nemmeno gli passi per la testa che le proprie avances sessuali possono non essere gradite: l’uomo che ha scelto una donna soggetta a una concezione arcaico-patriarcale del matrimonio).

Quei sintomi, quei comportamenti, quelle debolezze mi sembrano invece un problema generale, inevitabilmente presente in qualche misura anche negli uomini che nella propria storia personale hanno vissuto un rapporto “non arcaico” con la donna. È infatti improbabile (anzi impensabile) che un rapporto non arcaico, in cui la donna ha forza ed esprime la propria soggettività amorosa, il proprio desiderio e la propria esigenza, sia stato l’uomo a costruirlo: un rapporto di questo genere è una fortuna che all’uomo tocca in sorte, e il grosso del lavoro è svolto dalla donna che ha contestato, elaborato, trovato le parole. È ed è già molto se l’uomo ha assecondato un progetto in cui non sono graditi l’arroganza, la prepotenza, i capricci, i musi, i silenzi ostinati, insomma l’arbitrio del padrone che egli “sa” nel profondo perché lo ha visto in suo padre e in tanti suoi simili. Dunque vivere entro un rapporto non arcaico non implica necessariamente, nell’uomo, una compiuta elaborazione, un’uscita definitiva dall’arcaico, e permangono delle oscillazioni, delle zone di sofferenza oppressiva, quei sintomi così ben delineati da Ventimiglia.

Ventimiglia ha parlato anche di una sessualità spesso sentita dall’uomo come un “porto franco” (almeno come aspirazione), come parentesi nella conflittualità: la sessualità è allora il punto più debole, dove ci sentiamo più facilmente attaccabili e dove meno tolleriamo il conflitto. “Perché?” si chiede ancora Ventimiglia. Non voglio certo tentare una risposta, mi limito a constatare che anche qui si tratta di un problema diffuso, che pare riguardarci tutti. E aggiungo una domanda, peraltro scontata: se il nostro panico, il nostro essere sopraffatti dal conflitto, il disagio che noi sentiamo in modo così assolutamente sessuale e genitale, non abbia radici in qualcosa che è al di là della sessualità in senso stretto. Cioè nel bisogno maschile - universale e spasmodico quanto inconsapevole e negato - di avere nella donna un supporto emotivo globale, una giustificante, una fonte di vita: “il beveraggio” di cui ha scritto Carla Lonzi, una grande teorica che è riuscita a dare parole a un certo carattere mostruoso del disagio intersessuale.

La caduta di questo continuum femminile, cui attingiamo senza riconoscerlo, può avere nell’uomo conseguenze che sono la parodia di una catastrofe. In alcune circostanze basta un accenno, una parola neutra senza il calore dell’anima a farci andare fuori di testa: Ventimiglia dà il nome esatto, “violenza”, al nostro andar fuori di testa, anche se non si traduce in violenza fisica e insulti. Violenza è quindi anche l’incapacità o la non volontà di controllare il malessere, così da permettere che esso vaghi come una bomba emotiva, una perversa forma di pressione psicologica che avrà sempre un’autogiustificazione: “il fatto è che stavo malissimo” ecc.

Il nome che si dà a questi fenomeni è di solito “litigio”, come se nei due componenti la coppia etero ci fosse una base di pari bellicosità, pari arroganza, pari presunzione di diritti. In realtà il litigio è normalmente un’azione a senso unico, una via d’uscita che il maschio si crea, e anche uno strumento di minaccia e di ricatto, un sinistro avvertimento per il futuro. Che chiamiamo anche questo violenza, che cominciamo a collocare eventi che ci sembrano privatissimi e unici in un contesto comune, può essere una via. Anche qui, comunque, è la donna che di solito agisce non accettando la nostra provvisoria paranoia, rifiutando (tanto più decisamente quanto più si è fatta consapevole) il ricatto emotivo che la sottende (la ridefinizione del “litigio”, di cui qui scrivo, non è una mia illuminazione, ma un’elaborazione femminile).

 

Ma torniamo a Bologna. Il dibattito seguito alla relazione è stato ad un tempo illuminante e deludente. È rimasto lontano, a mio avviso, da ciò che la lettera auspicava. Si voleva fare un passo verso un linguaggio comune di uomini e donne. Il dibattito ha mostrato che questo linguaggio - per un verso - non c’è. Né si è menzionata, alla fine, la sua mancanza. Ci si era dimenticati del proposito iniziale?

Hanno parlato diversi uomini. Pochi gli interventi mirati, tra i quali cito in particolare quelli di Sandro Bellassai e di Filippo Boriani, che ha parlato del “cordone di complicità maschile”, della “virtualizzazione della guerra” nella prassi politica, e ha fatto la bella cosa di ricordare che sono state le donne per prime a occuparsi della questione maschile, citando il vecchio libro Maschio per obbligo di Carla Ravaioli. Altri intervenuti hanno oscillato tra una imperterrita piattezza (non si può neanche dire che “si sono trincerati” nelle forme tradizionali del linguaggio politico maschile, perché non hanno nemmeno preso paura, non si sono nemmeno accorti della tensione dell’argomento, sono rimasti lì e basta) e un eccesso di imbarazzo nel nominare la sessualità (la solitudine, la masturbazione, i nessi eventuali tra fantasia sadica e violenza sessuale reale). Gli emozionati hanno comunque avuto il merito di testimoniare l’estrema difficoltà del cominciare a parlare in pubblico dei temi privati, e hanno in qualche modo offerto materia di riflessione sul debito che abbiamo verso le donne che hanno aperto la strada.

Gli interventi femminili e maschili si sono succeduti con scarsa connessione e - mi sembra - senza consapevolezza di una possibile interazione.

Qui interviene una riserva che avevo già sulla formulazione della lettera aperta di Merola: che non fosse il caso che un uomo parlasse di costruzione di un linguaggio comune di uomini e donne. La lettera usava infatti in prevalenza un linguaggio che esiste già. È il linguaggio del femminismo e del pensiero della differenza, già inaugurato usato ed elaborato dalle donne, e senza il quale anche gli uomini, oggi, non avrebbero parole per parlare di un problema di genere in riferimento al proprio sesso. Credo che questo riconoscimento - da parte di noi uomini coinvolti dal femminismo - sia obbligatorio, non solo per il debito morale, ma come presupposto della nostra stessa correttezza di pensiero. E per sciogliere ogni residua riserva sulla lettera: trovo giusto che Merola ringrazi le donne “di sopportare la nostra infantile tracotanza ecc.”; io però penso sarebbe meglio ringraziare le donne di non sopportare ciò che in noi è insopportabile, ed esprimere gratitudine per le chances che esse ci hanno offerto di diventare più umani, prima di convincersi di una nostra irrimediabile insopportabilità.

E sul buon governo: le ottime intenzioni non dovrebbero accompagnarsi alla consapevolezza che non ci sarà un buon governo se non governeranno le donne?

Gastone Redetti

torna a ....