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Gastone Redetti

Nuovo padre a metà

Da Miopia n.32, Settembre 1998, numero monotematico
LE FIGLIE, I FIGLI

 

Sono stato un nuovo padre anch’io. E nello stesso tempo non lo sono stato. Vediamo: lo sono stato nel senso che circa un quarto di secolo fa ho contributo con manovalanza, ma anche con lavoretti di concetto, alle cure materiali richieste dall’allevamento di una figlia: cambiare i pannolini, sterilizzare i biberon, preparare miscele di latte e mellin, cuocere minestrine liofilizzate, calibrare il taglio del succhiotto in base alla densità dell’intruglio e somministrare quest’ultimo alla pargola, cantare ninne nanne nei rari casi in cui risultava necessario farlo e, più tardi, raccontare le storie della sera.

Come attestato di neopadre, potrei portare il fatto che la figlia ha fatto fatica a distinguere linguisticamente i genitori, così che io sono diventato un papi anziché un papà per favorire foneticamente la distinzione mamma-papà. Nonostante questo accorgimento, la figlia ha continuato a sbagliarsi per anni, chiamandoci indistintamente con i nomi ibridi di “mapi” e “pama”, con suo gran divertimento quando si accorgeva dell’errore.

Tutto questo in un progetto di vita - condiviso con la mia compagna - che prevedeva tra l’altro la ripartizione fifty-fifty delle faccende di casa e del lavoro di cura, nell’ottica “paritaria” in cui ci muovevamo allora. A distanza di tanti anni è però ormai evidente che, nonostante i mapi e i pama, l’obiettivo della ripartizione 50-50 rimase solo teorico: il mio contributo nelle cure parentali fu molto più modesto. Eppure l’assumermi compiti come quelli elencati sopra, e non nasconderlo, risultò contro corrente. C’era una certa critica nei miei confronti, per il mio fare cose da donna, ma più ancora c’era riprovazione per Elena, per il semplice fatto che chiedesse e ottenesse un alleggerimento dei suoi “naturali doveri”, che né lei né io consideravamo affatto naturali.

Il mio contributo si andò riducendo a mano a mano che l’allevamento cedeva il passo all’educazione, e l’educazione diventava più complessa: in seguito fu la madre a preoccuparsi delle relazioni della piccola con i compagni di scuola e i vicini di casa, con le maestre ecc. Insomma quanto più ci si allontanava dalla “biologia”, dalle cure corporali ed elementari, tanto più la parte di Elena diveniva preminente. Io non solo non condividevo le nuove responsabilità pedagogiche, ma non ero nemmeno ben consapevole in quale misura la compagna se le fosse assunte.

In questo essere stato, in fin dei conti, così poco un nuovo padre, vedo un po’ di bene e un po’ di male.

Prima di procedere premetto che:
1) non solo non ho assistito al parto, ma sono stato in gran parte assente per tutto il periodo della gravidanza e nei primi due mesi di vita della bambina, perché stavo facendo il servizio militare; insomma all’inizio non solo non facevo il nuovo padre ma proprio non c’ero;
2) la solitudine della mia compagna, che in quel periodo aveva casa per conto suo, era commiserata e considerata quasi scandalosa.

Ora, in questa anomala situazione di madre sola, Elena stava benissimo, sia fisicamente sia psichicamente; tanto che negli anni successivi ha più volte benedetto quella nostra forzata - e per altri aspetti dolorosa - separazione, pensando alle confusioni inutili che sarebbero certamente insorte se io fossi stato presente dall’inizio. Come lei dice, quando sono tornato a casa “i giochi erano stati fatti”: il suo rapporto-impegno con la figlia esisteva, era fondato e solido. Io potevo anche lamentarmi, come molti uomini fanno, e rimpiangere il clima affettivo ed erotico della coppia innamorata e nullipara, ma lei, oltre che contemplare benevolmente il mio disorientamento, non poteva - anche volendo - far niente. Se invece io ci fossi stato fin dall’inizio, sarei stato presente anche con tutto il mio bagaglio maschile di pretese, pressioni e ricatti emotivi, che avrebbero per forza estorto qualche concessione, lasciato dei segni negativi il cui prezzo si sarebbe pagato più tardi.

In un certo senso la mia compagna era sfuggita, entrambi eravamo sfuggiti, al fantasma del nuovo padre, la cui figura si sarebbe precisata nell’orizzonte culturale degli anni successivi: il nuovo padre che va con la compagna della vita alle visite ginecologiche, che tiene l’archivio delle ecografie dei vari mesi di gravidanza, che fotografa, filma, registra in vari modi il pancione, che compartecipa ai corsi di ginnastica dolce, che infine assiste al parto e, svenendo, costringe il personale paramedico, che sarebbe lì per assistere la sua compagna, ad occuparsi di lui almeno temporaneamente; il nuovo padre che, dopo la nascita dei figli, continua a dedicarsi giocosamente al culto dei piccoli eventi familiari, sempre con particolare attenzione all’aspetto documentaristico-audiovisivo.

Proprio pensando a tali diffusi comportamenti nel maschio prima e dopo un parto che “suo” comunque non è, mi sento di sostenere che non essere un nuovo padre è anche un bene. Anche se rispetto e condivido il bisogno maschile di accedere ad una dimensione di tenerezza sinora negata agli uomini, non trovo opportuni certi gesti di intromissione, certi tentativi di sostituirsi alla madre, fatti forse nella convinzione che il figlio sia un “bene”, una fonte di gratificazione che si possa o si debba spartire paritariamente con la donna. Un aspetto estremo e orripilante del neopadrismo, mi sembra inoltre emergere dalla recente pretesa di nuovi diritti maschili: come quella - appoggiata dalla legge e resa possibile dalle nuove tecnologie - inerente un “diritto” paterno sul figlio della donna in base a un’esame genetico; oppure quella che invoca un “diritto” del padre a dire una parola determinante sulla scelta di aborto della donna.

Ma allora, è meglio essere stato poco o nulla un nuovo padre, piuttosto che esserlo stato “troppo”? La domanda non ammette una risposta semplice, e preferisco lasciarla sospesa per passare all’aspetto negativo del non essere un neopadre. Non sono stato un nuovo padre, o, parlando più seriamente, ho avuto una parte così minoritaria nell’assolvimento complessivo delle cure parentali, anche per un carente senso di responsabilità.

Faccio un esempio concreto, che risale ai primissimi tempi del mio apprendistato di genitore, ma rimane emblematico. Nella fase dello svezzamento dal seno, la figlia è stata nutrita con pappe i cui ingredienti erano stati prescritti e dosati in modo preciso dal bravo pediatra che seguiva la bambina. Un giorno mi era stato consegnato il biberon pronto, con la dose giusta, perché lo dessi alla bambina. Così ho fatto. Ma poi, visto che la pappa era stata molto gradita, ho ricaricato il biberon con quello che restava nel pentolino, e da bravo padre ho offerto l’aggiunta alla pargola, che ha gradito ma che ha anche sofferto di una diarrea piuttosto seria nei giorni successivi. Di questa diarrea il pediatra non capiva le cause, né mai le seppe poi, dal momento che la compagna non aveva cuore di rivelargli che il fatto era dovuto semplicemente all’incoscienza di suo marito. Ora non dico che non possano esistere donne abbastanza sventate e irresponsabili da comportarsi come ho fatto io, ma quello che so per certo è che Elena non avrebbe mai contravvenuto a una regola basilare come il dosaggio, senza prima eventualmente aver discusso e approfondito la faccenda con il pediatra (e andrebbe anche sottolineato che era lei - non “noi” - ad avere la piena responsabilità dei rapporti con il pediatra, ad annotarsi le domande che gli avrebbe rivolto ecc.).

Quella mia sventatezza, l’ho pagata ben poco perché le conseguenze sono state relativamente poco gravi. Sono stato fortunato. Le cronache di quest’estate ci hanno parlato di un uomo di Catania che doveva portare il figlio di un anno e mezzo all’asilo nido, prima di recarsi al lavoro. Durante il tragitto il bambino si è addormentato e il padre, anche obnubilato da un’influenza non curata, è andato direttamente in ufficio dimenticando di avere il figlio nell’auto. Il bambino, come sappiamo, è morto in qualche ora per surriscaldamento. Tecnicamente, la sventatezza di quest’uomo - che si trovava in uno stato di stress - era più lieve e più comprensibile della mia quando aumentavo alla leggera le dosi prescritte per una neonata in svezzamento. Ma la sua sfortuna è stata immensa. Penso spesso a lui, e fatico a immaginare che a un uomo possa capitare una cosa più terribile, una sofferenza morale peggiore di quella che gli è capitata. Si tratta evidentemente di una persona di buona volontà, il fatto stesso che portasse abitualmente il bambino al nido dimostra che è il tipo di uomo che non si tira indietro, che collabora al funzionamento del nucleo familiare.

Di fronte a quella notizia, molte e molti avranno pensato: a una donna questo non sarebbe capitato. Lo penso anch’io: anche se intontita da una malattia, anche se col pensiero al traffico e al lavoro che l’aspetta, una donna non avrebbe dimenticato il bambino. A un uomo, anche se di buona volontà, anche se “responsabile”, è difficile che la responsabilità entri nella pelle.

Sarebbe sterile discutere se e quanto la carenza di responsabilità che contraddistingue molti uomini nella cura dei figli (ma anche nei rapporti amorosi e in generale nelle relazioni complesse con gli altri), sia un dato iscritto nella differenza sessuale biologica.

La carenza di responsabilità nei maschi va piuttosto indagata, secondo me, soprattutto a partire dalla sua componente culturale: ritengo infatti che un uomo arrivi a definirsi nella sua identità di genere anche attraverso una martellante e precoce educazione all’irresponsabilità, impartita forse fin dai primi input educativi e di segno opposto a quella attraverso cui le femmine vengono indirizzate precocemente al lavoro di cura e all’oblatività. L’educazione dei maschi prevede - per fare un esempio macroscopico - la tolleranza per giochi violenti e pericolosi per sè e per gli altri. Una certa dose di irresponsabilità sembra indispensabile perché un uomo assuma il ruolo che la società gli richiede. Come ai soldati della grande guerra si somministravano razioni di acquavite perché fossero in grado di andare all’attacco, così in ogni uomo “che sia un uomo” si deve indurre un certo grado di stolidità, di ignoranza delle conseguenze interpersonali dei propri gesti, di rozzezza, di “criminale mancanza di connessioni” (Forster), senza di cui un uomo non potrebbe fare ciò che un uomo deve: lavorare, competere, obbedire, comandare, andare sotto le armi, ed eventualmente ammazzare e morire.

Gastone Redetti

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