torna a ....

Ornella Trentin

Tutti a casa

Da Miopia n.23, marzo 1995

 

Quando ero piccola, ogni tanto mio padre si metteva a raccontare della guerra, e dei tedeschi che lo avevano preso e portato in Germania, del tempo incalcolabile trascorso senza alcuna certezza nel paese straniero, e del suo epico viaggio di ritorno, un po’ a piedi, un po’ come capitava.

Lo ascoltavo ogni volta con grande attenzione, sempre sperando che riuscisse a nascondersi in tempo nei boschi.

Mia madre, una bambina all’inizio della guerra, raccontava la sua versione di pianura, con il sibilo degli aerei, le finestre oscurate, i pranzi risicati, e l’emozione dei giorni precedenti la Liberazione.

Poi piano piano tutti smisero di raccontare storie, per dedicarsi al futuro che si annunciò con fragore, suscitando grande entusiasmo. Perfino gli esperimenti nucleari negli atolli del Pacifico sembrarono allora buone notizie.

Si credette che insieme al boom economico sarebbe arrivata la tranquillità, e molti fecero grandi sacrifici per poter stare tranquilli. Ammodernarono le abitazioni, le alzarono, le allargarono, le comprarono. Chi poteva permetterselo trovò più rassicurante costruirla, la casa, quasi a ricomporre simbolicamente, pezzo per pezzo, le macerie interiori.

Poi rimasero le rifiniture, che non finivano mai, di cui si parlava in continuazione coi vicini di casa. Lavoravano di sera, la domenica, s’indebitavano, si trascuravano. Ma per la casa valeva la pena.

Tuttavia, nonostante la vita fosse diventata un poco più comoda anche per le classi sociali meno privilegiate, gli adulti che durante la guerra erano bambini o adolescenti, e nel frattempo si erano sposati, rimasero molto sorpresi, alla metà degli anni sessanta, quando crebbe una generazione insofferente e ingrata.

E dire che proprio su quei figli si concentravano i loro obiettivi, ora che tante case avevano i doppi vetri, un orto rigoglioso e gli alberi nel giardino raggiungevano la grondaia. L’aspirazione legittima, ma riproposta in maniera assillante, era che i figli trovassero un lavoro sicuro, comprassero una casa, e si facessero una famiglia, in modo che i genitori si sentissero tranquilli.

Invece, uno stuolo di giovani cominciò a vestirsi in modo stravagante, a far uso di droghe, a viaggiare. Altri occuparono le università, se ne andarono di casa, e i genitori si sentirono offesi, nonché disorientati.

Di cosa li rimproveravano? Cosa dunque mancava ai loro figli, ora che i tedeschi pagavano in marchi per visitare le nostre città e per abbronzarsi, e l’ascolto della loro lingua non faceva sobbalzare? Gli aerei solcavano i cieli con scopi pacifici, i negozi erano pieni di ogni ben di dio. Possibile che non si potesse stare un poco tranquilli?

 

Alcuni soffrivano d’insonnia, o di strane fissazioni, ma di rado collegavano i propri disturbi al passato, al senso di pericolo e alle scosse delle stagioni giovanili. A qualche altro invece i nervi erano proprio saltati, e prendeva con scarso interesse le forti medicine prescritte dagli psichiatri, anche se erano appena arrivate.

E’ probabile che una grande quantità di ansia e di adrenalina fosse ancora in circolo, nella generazione cresciuta con la guerra, dal momento che all’epoca erano mancati sia un’esplicita azione di sostegno, che un riconoscimento accurato del danno individuale, per prendersi cura dello sgomento, dell’insicurezza e della paura, che qualunque guerra scatena, soprattutto durante l’infanzia.

Sarà un caso, ma quasi tutte le donne che conosco sono cresciute insieme a madri apprensive. I padri sembravano invece aver nascosto le loro paure dentro una botola, dalla quale però spesso sfuggivano scatti improvvisi di aggressività.

Ad ogni modo quei fardelli ingombranti, accuratamente riposti, saltavano fuori attraverso piccole fobie o ansietà ricorrenti, uno stare sempre all’erta, aspettando con i nervi tesi il rientro a casa dei figli, un insistente raccomandare, immaginando dovunque pericoli. La voce delle madri si alterava subito, rotta dall’ansia, anche quando i figli o le figlie rientravano dieci minuti dopo il previsto, mentre nei padri la collera scoppiava con incredibile facilità.

In genere i figli maschi andavano e venivano lo stesso, senza dare spiegazioni, ignorando il cigolio delle porte delle camere da letto socchiuse al loro rientro e le abat-jour accese appena girata la chiave.

Ma alle figlie risultò assai più difficile sottrarsi alle apprensioni latenti che circolavano in famiglia, dal momento che negli anni settanta erano ancora soggette a un forte controllo dei loro spostamenti, e che la loro collaborazione ai lavori domestici era scontata.

 

Ma quando anche molte ragazze diventarono inquiete, incredibilmente inquiete, tutti rimasero davvero scandalizzati. Qualsiasi cosa dicessero le ragazze inquiete, i genitori perlopiù disapprovavano, le volevano per forza remissive.

Io credo che si confondesse la tranquillità con la stabilità. Le cose dovevano stare ferme, e così le idee, le abitudini, i soprammobili, almeno tra le pareti domestiche, per non vederne di nuovo vacillare le fondamenta. Così capitava che nelle stanze intonacate di fresco si alzasse la voce, si sbattessero le porte, per coprire il rullo del cuore, turbato dalla paura di essere turbato.

Prevaleva nei genitori un bisogno estremo di rassicurazione, che in fondo chiedevano ai propri figli, non avendola ricevuta durante la giovinezza o l’infanzia di guerra, una necessità che permeava perfino i gelidi tinelli con le specchiere, coi souvenir di gusto discutibile disposti sempre nello stesso angolo, e il cellophan lasciato sulle sedie per non rovinarle.

Chissà quante generazioni sono necessarie prima che gli effetti di una guerra si decantino. A volte mi sembra di compiere gesti e provare timori che non appartengono alla mia esperienza diretta. Da dove viene la mia avversione istintiva per le armi, anche quelle appese alla cintura della guardia di una banca, la scarsa simpatia per le divise e i discorsi tra commilitoni sui treni, per i camion militari? Per non parlare del timore incontrollabile, quasi comico, dei botti e dei fuochi artificiali (da ammirare da lontano), dei suoni bruschi, e perfino dei tappi di spumante.

Il disagio verso tutto ciò che ha a che fare con la guerra, anche in modo indiretto, mi ha indotto ad accantonare molte parole bellicose, a notare l’asprezza nei titoli dei quotidiani, l’aggressività dei dibattiti televisivi, la ritualità guerresca trasferita nello sport fino alle estreme conseguenze, la nocività di uno stile giornalistico a colpi di insulti.

Sempre più spesso riscontro che queste modalità contrappositive sono un derivato non innocuo della guerra, e che dopotutto non mi appartengono, poiché di fondo prediligo gli scambi e le relazioni, che ne sono il contrario.

E se penso alle donne che vivono da anni una guerra che non si sono mai sognate di dichiarare, nella Bosnia, in Somalia, in Ruanda e in Iraq, mi sembra di vedere dovunque le stesse figure, minute o possenti, preoccupate di proteggere il loro corpo dagli aggressori di turno. Mi sembra di vederle cercare riparo, acqua e coperte. Sono là che accendono fuochi, cuociono il cibo rimediato non si sa come e addormentano i piccoli. Sono là, travolte da tutto, che rattoppano e rimettono insieme quello che resta, che si abbattono e ricominciano, sperando con tutte le loro forze che un giorno, il più presto possibile, l’amore per la vita abbia la meglio.

Ornella Trentin

torna a ....