Nel film In&out Howard Brackett, interpretato da Kevin Kline, è un simpatico professore di letteratura, educato, gentile, vitale. Tra i suoi alunni e alunne si mormora che il professore, forse, è gay. Perché? Ma perché appunto è pulito, si veste bene, si lava, usa il tovagliolo, insegna inglese e - indizio decisivo - ama la poesia e la letteratura: “ma allora è gay!”. Il professore si accinge però a sposare la donna con cui è fidanzato da tre anni, e le voci sulla sua omosessualità sembrano dissolversi. Ma ecco che un suo ex alunno, che ora fa l’attore e ha riscosso un grande successo interpretando un film sui problemi degli omosessuali, vince un Oscar. Alla premiazione, per rafforzare il messaggio del film, egli ringrazia pubblicamente, in diretta televisiva, il professor Brackett che gli ha così ben trasmesso la conoscenza di Shakespeare, che è una persona tanto per bene e simpatica, ed è gay. Tale dichiarazione mette ovviamente il prof in grosse difficoltà.
Dopo varie vicende, si arriva alla data fatidica e veridica del matrimonio. Quando il prete fa le domande di rito, Howard dichiara all’improvviso: “sono gay!”. Al che succede il finimondo.
Quando Howard pronuncia in chiesa, davanti al prete che lo sta per sposare, quella frase “sono gay”, viene proprio da chiedersi “ma perché”? Un’effettiva omosessualità di Howard non era infatti, sin lì, mai emersa. Non ci era stato suggerito nulla di concreto, né ci erano state svelate sue fantasie omo.
Ci erano stati offerti solo alcuni labili indizi, come il lungo bacio che un giornalistone gay gli aveva rubato: inseguendolo per motivi professionali, il giornalista si era trovato solo con lui e lo aveva baciato e strapazzato come i vecchi eroi dello schermo strapazzavano le donne. Ma anche qui, sebbene il bacio avesse visibilmente scombussolato Howard, non sembrava averlo sollecitato sessualmente. Egli non si era lasciato sfuggire nemmeno il solito “wow” che in queste occasioni di solito è d’obbligo, a proposito o a sproposito, nei film americani. Anzi aveva protestato: “mi hai baciato!”. Ma era sta appunto la sua protesta, infantile, “da boyscout”, a indiziarlo come gay. Un “vero maschio” avrebbe reagito rabbiosamente, dimostrato disgusto, sputato, cercato di picchiare l’aggressore sessuale nonostante la disparità fisica. Un altro indizio è l’evidente mancanza di attrazione fisica per la futura sposa. La quale è del resto rappresentata come una tale caricatura di femminilità convenzionale e di leziosità asessuata, con il suo culto dell’abito da sposa e tutto il resto, da rendere ovvia la mancanza di attrazione erotica: lui non è attratto da lei come lei non è attratta da lui. A un “vero maschio” però non sarebbe mai capitato di trascorrere tre anni accanto a una fidanzata senza andarci a letto : questo, a Howard, lo fa capire un prete cattolico a cui egli, non cattolico, si confessa per disperazione, non sapendo con chi parlare.
Quando Howard pronuncia le parole “sono gay”, non confessa quindi un vissuto sessuale. Non ha un passato gay e il suo desiderio degli uomini non ha ancora consistenza. La sua condizione gay si definisce, sul piano strettamente sessuale, come negazione: “non sono sessualmente attratto dalle donne. Non posso sposare questa donna, non posso andare a letto con lei”.
In positivo, la dichiarazione “sono gay” si colloca su un piano che trascende la scelta dell’oggetto sessuale, assume il valore di un manifesto, di un’adesione a certe scelte umane, nel senso che era stato definito all’inizio del film dai suoi stessi alunni. “Sono gay” suona come una ribellione contro il modo corrente e obbligato di essere uomo.
La maschilità culturale è mostrata in modo caricato (ma neanche tanto) nella bella scena in cui Howard riascolta un “corso di virilità” in audiocassette (cui evidentemente è solito ricorrere quando è in crisi circa la propria identità sessuale). Il corso inizia con una specie di test di virilità: “sei un vero uomo? Fai i gesti di un vero uomo? Perché, sappi, il vero uomo è trasandato nel vestire, al bar si sistema platealmente le palle strette nei jeans, e, soprattutto, non balla”.
A parte la propensione per il ballo - tema che riprenderemo più avanti - non sono “virili” tutte quelle doti di pulizia, ordine, civiltà e buona educazione, che Howard possiede e che la lingua francese riassume nella parola “propreté”. Howard vuole avere propreté, essere propre, non tanto o non solo per un’apparenza da presentare agli altri, ma per un interiore senso di identità.
Questa propreté, che si associa in Howard a una certa vivacità e allegria (Howard è carino!) sembra essere proposta, nel film, come un tratto positivo. Tuttavia le è associato un elemento caricaturale che attraversa tutta la vicenda. A Howard vengono prestati molti stereotipi della “checca”. Per esempio quando l’istruttore del corso di virilità chiede “sei un vero uomo?”, Howard alza un braccio con una movenza accentuatamente effeminata e pronuncia un “ma sì-ii” tipicamente strascicato: è evidente che quella battuta serve a far esplodere le risate del pubblico, anche se noi, presi da altri pensieri, non abbiamo riso.
La voce dell’istruttore grida di sfilarsi la camicia. Howard sbaglia, perché la sfilerebbe con un suo concetto di ordine: la sfilerebbe da tutti i lati. Invece il vero uomo è trasandato, sta con la camicia sfilata solo da un lato. Chi ha insegnato a Howard la propreté, che risulta una caratteristica “femminile”? Forse è la mamma che lo ha educato a tale rispetto di sé? Oppure è un tratto culturale femminile, che egli ha acquisito da autodidatta negli anni, a scapito del codice virile?
Non risulta tanto anomalo il fatto che Howard si vesta bene, quanto, piuttosto, che egli si occupi in prima persona, come una donna, del suo aspetto e dei suoi abiti. Ciò è evidenziato dal varie annotazioni sarcastiche, si veda per esempio l’episodio in cui Howard critica con eccessiva competenza tecnica e minuzia il lavoro della lavanderia che ha sistemato il suo abito da cerimonia. Dovrebbe essere una donna, moglie o madre, ad occuparsi di queste cose.
Dunque: la propreté viene proposta solo apparentemente in positivo. Il messaggio in realtà è doppio. Da una parte c’è quella che sembra un’istanza politica gay, che dice: “carino è positivo”, “gay è positivo”, “gay è bello”. Dall’altra parte il messaggio viene restituito così: “se sei carino, se ti adoperi per essere gradevole, sei una checca”. L’eterosessuale deve “imporre se stesso a partire dalla sua sgradevolezza”1.
Torniamo ancora alla scena del test di virilità: la voce dell’istruttore incalza proponendo le frasi e gli atteggiamenti adatti a un uomo virile e Howard, come abbiamo visto, continua a sbagliare, tentando tuttavia di adeguarsi.
Ma quando l’audiocassetta fa partire della musica disco, che l’istruttore presenta come la grande tentazione da cui guardarsi, perché “il vero uomo non balla, John Waine non balla, Arnold Scwarzeneger non balla”, ecco che Howard finalmente si ribella e si scatena nella danza, e balla anche bene, né dà l’impressione di “fare la checca”, nonostante l’insistenza della cinepresa sui movimenti delle natiche, molto simili a quelli di una danza femminile. È come se howard rivendicasse per sè la danza come sbocco irrinunciabile di forza vitale, di impulso gioioso. È solo su questo punto che egli si ribella veramente, che non può rinunciare, che manda in malora la “virilità”. È in definitiva il bisogno di danzare che lo porta a proclamare “sono gay”.
Questa forte associazione danza-omosessualità maschile ha, come è noto, un riscontro oggettivo: i ballerini professionisti, compresi i più austeri nomi della danza classica, sono in grande prevalenza omosessuali. Di solito questa circostanza viene spiegata con il bisogno di scegliere, da parte di uomini gay, una carriera il più possibile consona alla propria sessualità, e soprattutto un ambiente dove pesi meno il pregiudizio sessuale. Ma quanto invece entra in gioco un fattore più profondo, che riguarda veri e propri tabù maschili, cui un uomo attualmente sembra potersi sottrarre solo costruendosi un’identità gay?
Come è un tabù ornarsi, rendersi gradevoli, essere amabili, così è un tabù amare e praticare la danza. Quando Howard Beckett annuncia “sono gay” all’attonito pubblico che presenzia il suo matrimonio, non fa che confermare e ribadire quei tabù, sancendo ancora una volta la legge per cui “l’uomo”, l’eterosessuale, non deve, non può essere amabile, e se è amabile non può che essere gay. Che l’amabilità, il desiderio di ornarsi, la gioiosa propensione alla danza, l’interesse amorevole per il proprio corpo e i suoi movimenti, la ricerca della grazia debbano essere incompatibili con l’eterosessualità maschile, è ovviamente un assurdo culturale: è come dire che il maschio deve essere non amoroso proprio nell’amore, non erotico proprio nell’erotismo.
Una vasta letteratura femminile ha indagato negli ultimi anni la sfera delle relazioni eterosessuali, mostrando come sia proprio la mancanza nel partner maschile di qualità che potrebbero anche essere definite “gay” (allegria, attitudine a verbalizzare i sentimenti, spontaneità ecc.), a causare profonde ferite emotive nelle donne. Le relazioni eterosessuali risultano normalmente compromesse da una vera e propria menomazione emotiva dei maschi, che va ovviamente di pari passo a una disastrosa insufficienza nel comportamento amoroso.
L’inferiorità maschile nel campo delle capacità relazionali è stata interpretata anche come conseguenza di una differenza biologica. Che i maschi siano affetti da un handicap relazionale in qualche modo congenito e irrimediabile, non è solo la conclusione di alcune teoriche del pensiero della differenza, ma è anche una sedimentata opinione femminile, come già osservava in un saggio pubblicato oltre mezzo secolo fa la psicologa junghiana Hester Harding (2).
All’ipotesi di una inferiorità biologica o congenita, preferisco senz’altro quella, esposta da alcune scrittrici femministe, che interpreta l’inferiorità o la differenza maschile sotto l’aspetto relazionale-amoroso come una conseguenza di cultura più che di natura: il maschio culturale viene costruito per mezzo di un blocco dell’istinto, di una escissione psichica di facoltà e desideri cui il bambino deve rinunciare dal momento in cui è costretto a scegliere l’identità di genere, ossia sin dai primi anni di vita, come è evidente a chi osservi spassionatamente il comportamento dei bambini piccoli (3).
La menomazione maschile diventa evidente anche ai maschi, quando sia loro possibile guardare la nuda realtà dei fatti senza il paraocchi occultante della grandiosità: circostanza che non si verifica facilmente, a causa di una fortissima resistenza a riconoscere ed elaborare la propria frustrazione infantile, ad accettare il profondo sentimento di umiliazione che ha accompagnato le prime scelte coatte e l’estirpazione delle radici stesse della gioia. I maschi tendono a rimanere aggrappati a un’idea grandiosa di sè, delle proprie azioni, del proprio posto nel mondo. Sono spinti, nei loro giudizi e auto-giudizi, da una specie di falsa baldanza che deriva da un ego gonfiato già nella prima infanzia, quando la deprivazione emotiva viene compensata dalla sopravvalutazione della maschilità (“non fare la femminuccia, sei un uomo).
In amore, nella relazione con la donna, la menomazione maschile si manifesta soprattutto nell’incapacità, più o meno accentuata, di creare delle connessioni complesse tra l’attrazione eterosessuale e il coito, tra la tensione e il gioco amoroso. I maschi che vivono relazioni che finalmente si collocano al di fuori della cultura dello stupro (coniugale e non), spesso non hanno altra risorsa che fruire della maggiore creatività della donna, che diventa interprete del bisogno di entrambi, un’officiante dell’eros. Questa delega non ha di solito la forma dell’affidamento, in quanto è inconsapevole: il maschio stenta a rendersi conto che è il lavoro relazionale della donna che prepara l’amore e che consente anche di “fare l’amore”. Di conseguenza non cura il proprio lavoro relazionale, non impara a preparare l’amore, comprime il proprio stesso istinto al corteggiamento. Il risultato è una situazione di disparità erotica, che alla lunga viene vissuta come opprimente dalle donne, che denunciano un senso di oppressione, di soffocamento, di sfruttamento emotivo.
Gastone Redetti
1) Claudio Vedovati e Stefano Ciccone in Alfazeta n-63/64.
2) Il libro Le donne e l’amore di Shere Hite descrive in modo particolarmente profondo ed esauriente il disagio emotivo delle donne nelle relazioni eterosessuali. Tuttavia la scelta - propria di quest’opera e di altre analoghe - di trascurare del tutto gli aspetti sessuali delle relazioni etero a favore di una rinata analisi dei sentimenti, comporta forse il rischio di lasciare molti problemi in un’ aura di indeterminatezza.
3) Le donne, scriveva Harding, anche se non danno forma esplicita ai loro pensieri, ritengono “che l’uomo sia una creatura che non ha ancora raggiunto il grado di evoluzione delle donne”; non lo dicono esplicitamente, ma “nei discorsi tradiscono il loro pensiero con espressioni di questo genere: ‘gli uomini sono stupidi’, ‘sono come bambini’ ecc”. (Hester Harding, La via della donna).
4) Scrive Elena Gianini Belotti: “Che cosa può trarre di positivo un maschio dalla arrogante presunzione di appartenere a una casta superiore soltanto perché è nato maschio? La sua è una mutilazione altrettanto catastrofica di quella della bambina [...] il suo sviluppo come individuo ne viene deformato e la sua personalità impoverita. ..” (Dalla parte delle bambine, Feltrinelli, 1973).