Rachel Cusk
Arlington Park
Arnoldo Mondadori Editore, 2007
(Prima edizione nel R.U.: 2006)
Il libro incomincia con un intero capitolo dedicato a una pioggia notturna. La pioggia e il fango intridono tutte le pagine seguenti: cieli plumbei, lavori in più nelle case, piedi bagnati, bambini da coprire.
Più che davanti a un romanzo, siamo davanti a una serie di racconti uniti insieme da un luogo, da una condizione sociale, da un’età, da azioni prevalentemente femminili: andare ai centri commerciali, muoversi in auto, aspettare il marito, andare a prendere i bambini a scuola, portarli al parco giochi, preparare cene per tot invitati quando sai in anticipo che nessuno a quella cena si divertirà…
Sembra un manuale contro il matrimonio, pervaso anche da un non tanto sottile fastidio verso i maschi, soprattutto i maschi bambini che rompono le scatole come tutti i loro simili.
Ma è notte e piove.
Dopo la pioggia, dopo la notte, compaiono i personaggi. Ognuno dentro la sua casetta, due adulti con i loro bambini più o meno cresciuti, ognuno con il suo conto in banca, il cui ammontare si legge sui mattoni delle case: le case non sono tutte uguali. Tutte sono costose, siamo in un quartiere abbastanza esclusivo, ma alcune sono molto, molto costose.
Le persone si trattano l’un l’altra a seconda della grandezza delle case, della quantità dei giorni di vacanza e della bellezza ed esoticità dei luoghi in cui hanno viaggiato.
La prima coppia che conosciamo è formata da Benjamin e Juliet. Lui , ci informa l’autrice, è piccolo e brutto, e insegna in una scuola pubblica. Lei insegna in una scuola privata. Hanno due bambini, due pesti, anche se la bambina è un po’ più tranquilla, più domata, una piccola donna in erba che si lagna del fratello non avendo per ora altri maschi a disposizione, di cui lamentarsi.
Del resto, anche le donne adulte tanti maschi a disposizione non li hanno. Né li hanno avuti mai.
Ogni coppia di conviventi dei due sessi sembra impegnata in una battaglia che non ha fine: lui per fare in casa ancor meno di quello che fa, lei per far fare a lui qualcosa di più. E in tutte le case e in ogni situazione, le donne perdono sempre, continuamente.
Arlington Park è un libro che si potrebbe chiamare nichilista. Nessuno ama nessuno, a nessuno piace qualcuno. Ci sono alcuni slanci brevi, adolescenziali, che muoiono subito affogati.
Prendi un romanzo rosa e rivoltalo, ecco Arlington Park.
Al principe azzurro di te non gli importa niente e a te non importa niente di lui. I bambini che hai avuto da lui, generalmente due, sono odiosi. I maschi adulti vanno tutto il giorno a lavorare fuori e le donne cercano di passare il giorno come possono.
L’autrice è molto toccata dalla bruttezza del paesaggio delle periferie. Le autostrade, i paesaggi squallidi che emergono lacerati da stupri di cui sono causa le ruspe, sono a volte più vivi, più strazianti delle persone.
Eppure questo libro mi è piaciuto. Alla prima lettura mi ha dato un senso di pulizia, di strofinamento.
Non è un libro realistico, anche se ci sono minuziose descrizioni di gesti quotidiani.
È un libro visionario e furioso.
Che cosa tiene in piedi questi mariti e queste donnine, queste coppie che sembrano inumane e meccaniche come gli uccelli che escono dagli orologi a cucù?
L’autrice non mette troppo sesso nella narrazione come è frequente adesso: tanto sesso e qualche assassinio per distogliere da altri problemi.
Cosa tiene in piedi questo vivere di tutti? Solo l’odio? Solo l’ambizione maschile che uccide le donne, secondo l’esplicita opinione dell’autrice?
È un libro scritto in uno stato di depressione? Con l’aiuto di psicofarmaci? Nel suo insieme, sembrerebbe il libro di una folle che tenta di descrivere il manicomio in cui è immersa.
Eppure l’autrice è molto abile: basti pensare a come tratta il tema delle ristrutturazioni, epidemia che imperversa nel mondo occidentale. Buttare giù pareti per ottenere stanze grandi, troppo grandi. Dove nessuno è felice.
O basti pensare a come sono descritte certe cene per gli amici preparate di furia con i bambini tra i piedi, col marito che s’impiccia senza essere di aiuto, con la madre al telefono che evoca senza costrutto l’incubo della salmonellosi. Manie igieniste, manie ristrutturative, manie vestiarie...
Il libro di una femminista che alcuni chiamerebbero esagerata? Macchè.
L’autrice non ama nulla di quello che la circonda. Non ama gli uomini, ma neanche le donne. Non ama, come detto, le ristrutturazioni delle case, che presenta come folli imprese di coppie che han perduto il ben dell’intelletto.
Non ama i centri commerciali, non ama il fatto che ci si vada non per comprare cose che servono ma per passare il tempo. Descrive, con acredine e in dettaglio, non solo gli edifici che ospitano questi templi del consumo, ma tutte le strade, gli svincoli, i parcheggi che permettono alle auto di raggiungere questi luoghi che non rovinano solo la campagna dove si ergono, ma creano bruttezza in un circondario lungo chilometri.
La campagna infatti è deturpata molto prima che appaia il centro commerciale, tutto sommato accettabile come edificio. Se solo di quell’edificio si trattasse.
Rachel Cusk non ti risparmia nulla di quello che le capita a tiro: ecco che le abitanti, abbastanza danarose, del costoso quartiere che è Arlington Park decidono di andare a uno di questi nuovi centri commerciali. Non si divertono per nulla, però dicono continuamente: “ogni tanto è divertente vero?”, mentre avanzano a fatica spingendo passeggini enormi.
Sarebbe sufficiente un’auto soltanto, ma decidono di andarci con due: non vogliono sembrare delle segretarie.
Questo stillicidio pieno di rancore (ma perché, oh umanità, non sei migliore?), di disillusione, di rabbia non ti dà requie in tutto il libro.
L’impressione che si riceve è che l’alter ego dell’autrice si sia, almeno parzialmente, riversato nell’insegnante della scuola privata prestigiosa, con i suoi lunghissimi capelli che con una decisione improvvisa si fa tagliare dalla parrucchiera. Secondo le sue insegnanti, sarebbe diventata qualcuno da adulta.
Invece si è sposata, lavora fuori casa, lavora in casa e la sua magrissima consolazione è una specie di circolo letterario che organizza per le sue alunne e in cui cerca con poco profitto di passare un po’ di rabbia, un po’ di femminismo, alle sue riottose ragazze.
Si potrebbe parlare di un libro kafkiano? si potrebbe citare l’urlo di Munch? le Prigioni del Piranesi? Un po’ di tutto questo e la folata di femminismo che viene respirato dall’autrice e ributtato fuori pare un veleno che contribuisce anch’esso, nella sua impotenza, all’apocalisse.
Elena Fogarolo